Penso, quindi sono. Anzi
sarò
Secondo il filosofo Nietzsche non
esistevano verità definitive. Ma ancora oggi cè chi sente la mancanza del
"pensiero assoluto". Come Emanuele Severino, che contesta la tesi moderna del
"tutto cambia": lessere, dice nel suo ultimo libro, non si trasforma e non
evolve. Ma chi può dare una definizione di essere?
Emanuele Severino, Lanello del ritorno, Adelphi,
pp.433, L.75.000
"Dio è morto" scriveva
Nietzsche circa un secolo fa, riassumendo in tale sentenza la propria opzione per una
filosofia antidogmatica, nella cui prospettiva non solo il Padre Eterno è bandito, ma
qualsiasi pretesa di esprimere risposte definitive, certezze incontrovertibili o verità
assolute. E dunque con la metafora della morte di Dio il filosofo tedesco non alludeva
tanto al rifiuto della divinità giudaico-cristiana, bensì piuttosto sottolineava
limpossibilità di ancorarsi a solide fondamenta filosofiche grazie a cui potere
edificare ancora un pensiero speculativo di tipo metafisico.
Dal tempo di Nietzsche tanta acqua è passata sotto i ponti
della filosofia, fattasi sempre più prudente rispetto alla possibilità di teorizzare in
modo esaustivo, ciononostante per molti speculatori la nostalgia nei confronti
dellassoluto non è mai venuta meno. Vedi il caso di Emanuele Severino, che anche
nella sua ultima riflessione "Lanello del ritorno" (Adelphi), un
poderoso/ponderoso volume intorno alla tematica del divenire in Nietzsche, ma non solo
torna a ribattere ancora una volta il suo chiodo polemico contro "la fede nel
divenire", secondo lui "follia estrema dellOccidente". Cercherò di
riassumere la tesi che sin dai tempi dellopera "Essenza del nichilismo",
Severino viene a riproporre puntualmente ai suoi lettori. Lessere divenendo
cioè trasformandosi in altro a sé, col conseguente venir meno della condizione
precedente che lo caratterizzava dovrebbe divenire un non-essere,
nullificandosi: cosa insostenibile per il suo stesso statuto. Altresì il supposto
mutamento dellessere comporterebbe un venire alla luce dal nulla dal non
essere di qualcosa (che anteriormente a detta metamorfosi non aveva luogo); il che
risulta altrettanto insostenibile, assurdo e contraddittorio.
Il limite di tutto questo ragionamento sottile è però la
sua astrattezza. Noi non possiamo parlare in senso assoluto nemmeno di essere. E
unastrazione pretendere di fissare staticamente il senso dellesistente,
predicando la sua essenza come impossibile a mutarsi. E chiaro che fintanto ci si
muova allinterno di un filosofare metafisico, fatto di sentenze (irriducibili) come
essere o non essere si possa irrigidirsi in una posizione che prevede solo la persistenza
dellessere contro ogni possibile divenire. Altro è il discorso di chi non veda
cose, animali, persone (lesserci) come congelate in un predicato formale
(lessere, appunto), ma mobili e cangianti come si presentano. In questa prospettiva
la stessa parola essere, nellaccezione metafisica, non dovrebbe più venire
usata in quanto pericolosamente assolutizzante. Sarebbe forse dunque meglio limitarsi a
dire che è vano predicare sulla verità ultima dellessere, in quanto al nostro
orizzonte postmetafisico non compaiono più verità ultime e gli stessi concetti di essere
e di divenire non possono assumere una tale veste. Ciò non deve peraltro inferire che
laffermazione "non cè alcuna verità ultima" comporti una sorta di
sentenza paradossale. Si tratta della valenza da dare a termini quali verità o essere,
che nel pensiero postmoderno han perso la maiuscola.
Si tratta, insomma, di prendere atto che lesistente (il
mondo, lesserci) non può venir costretto in un codice interpretativo
autoreferenziale. In quanto ogni filosofia, logica o discorso sulla cosiddetta realtà si
basa su regole grammaticali e assiomi interpretativi che non possono mai essere a
loro volta dimostrati, pena un rimando ulteriore ad altri, sempre indimostrabili. Il
filosofo quindi non ha da cogliere lhic et nunc del presente
cristallizzandolo attraverso il paradigma duna immagine codificata per sempre, ma
guardando ad esso come una variegata molteplicità; anzi assumendo se stesso come una
molteplicità in continuo mutamento (con buona pace di Severino io non sono più il
bambino che ero un tempo), interagente con altri soggetti e col mondo lungo un cammino
filosofico da percorrere come nomadi privi di stelle fisse allorizzonte.
Francesco Roat |