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redarrowleft.GIF (53 byte) Letture & Scritture Gennaio 2000

 

Penso, quindi sono. Anzi sarò

Secondo il filosofo Nietzsche non esistevano verità definitive. Ma ancora oggi c’è chi sente la mancanza del "pensiero assoluto". Come Emanuele Severino, che contesta la tesi moderna del "tutto cambia": l’essere, dice nel suo ultimo libro, non si trasforma e non evolve. Ma chi può dare una definizione di essere?

Emanuele Severino, L’anello del ritorno, Adelphi, pp.433, L.75.000

Severino.jpg (27602 byte)"Dio è morto" scriveva Nietzsche circa un secolo fa, riassumendo in tale sentenza la propria opzione per una filosofia antidogmatica, nella cui prospettiva non solo il Padre Eterno è bandito, ma qualsiasi pretesa di esprimere risposte definitive, certezze incontrovertibili o verità assolute. E dunque con la metafora della morte di Dio il filosofo tedesco non alludeva tanto al rifiuto della divinità giudaico-cristiana, bensì piuttosto sottolineava l’impossibilità di ancorarsi a solide fondamenta filosofiche grazie a cui potere edificare ancora un pensiero speculativo di tipo metafisico.

Dal tempo di Nietzsche tanta acqua è passata sotto i ponti della filosofia, fattasi sempre più prudente rispetto alla possibilità di teorizzare in modo esaustivo, ciononostante per molti speculatori la nostalgia nei confronti dell’assoluto non è mai venuta meno. Vedi il caso di Emanuele Severino, che anche nella sua ultima riflessione – "L’anello del ritorno" (Adelphi), un poderoso/ponderoso volume intorno alla tematica del divenire in Nietzsche, ma non solo – torna a ribattere ancora una volta il suo chiodo polemico contro "la fede nel divenire", secondo lui "follia estrema dell’Occidente". Cercherò di riassumere la tesi che sin dai tempi dell’opera "Essenza del nichilismo", Severino viene a riproporre puntualmente ai suoi lettori. L’essere divenendo – cioè trasformandosi in altro a sé, col conseguente venir meno della condizione precedente che lo caratterizzava – dovrebbe divenire un non-essere, nullificandosi: cosa insostenibile per il suo stesso statuto. Altresì il supposto mutamento dell’essere comporterebbe un venire alla luce dal nulla – dal non essere – di qualcosa (che anteriormente a detta metamorfosi non aveva luogo); il che risulta altrettanto insostenibile, assurdo e contraddittorio.

Il limite di tutto questo ragionamento sottile è però la sua astrattezza. Noi non possiamo parlare in senso assoluto nemmeno di essere. E’ un’astrazione pretendere di fissare staticamente il senso dell’esistente, predicando la sua essenza come impossibile a mutarsi. E’ chiaro che fintanto ci si muova all’interno di un filosofare metafisico, fatto di sentenze (irriducibili) come essere o non essere si possa irrigidirsi in una posizione che prevede solo la persistenza dell’essere contro ogni possibile divenire. Altro è il discorso di chi non veda cose, animali, persone (l’esserci) come congelate in un predicato formale (l’essere, appunto), ma mobili e cangianti come si presentano. In questa prospettiva la stessa parola essere, nell’accezione metafisica, non dovrebbe più venire usata in quanto pericolosamente assolutizzante. Sarebbe forse dunque meglio limitarsi a dire che è vano predicare sulla verità ultima dell’essere, in quanto al nostro orizzonte postmetafisico non compaiono più verità ultime e gli stessi concetti di essere e di divenire non possono assumere una tale veste. Ciò non deve peraltro inferire che l’affermazione "non c’è alcuna verità ultima" comporti una sorta di sentenza paradossale. Si tratta della valenza da dare a termini quali verità o essere, che nel pensiero postmoderno han perso la maiuscola.

Si tratta, insomma, di prendere atto che l’esistente (il mondo, l’esserci) non può venir costretto in un codice interpretativo autoreferenziale. In quanto ogni filosofia, logica o discorso sulla cosiddetta realtà si basa su regole grammaticali e assiomi interpretativi che non possono mai essere a loro volta dimostrati, pena un rimando ulteriore ad altri, sempre indimostrabili. Il filosofo quindi non ha da cogliere l’hic et nunc del presente cristallizzandolo attraverso il paradigma d’una immagine codificata per sempre, ma guardando ad esso come una variegata molteplicità; anzi assumendo se stesso come una molteplicità in continuo mutamento (con buona pace di Severino io non sono più il bambino che ero un tempo), interagente con altri soggetti e col mondo lungo un cammino filosofico da percorrere come nomadi privi di stelle fisse all’orizzonte.

Francesco Roat

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