FILM Febbraio 2000
Le
ceneri di Angela (Angela’s Ashes) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Emily
Watson – Robert Carlyle Sceneggiatura Laura Jones
e Alan Parker basata sul romanzo omonimo di Frank McCourt Regia
Alan Parker Anno di produzione UK 1999 Distribuzione
UIP Durata 145’
La
differenza tra il cinema di Ken Loach e Le ceneri di
Angela è che mentre i diseredati protagonisti delle
pellicole del regista inglese ambiscono a un riscatto
sociale di classe, in questa pellicola gli uomini e le
donne sperano soltanto di potere sfuggire – non si sa
come – all’inferno della vita della città irlandese
dove vivono. Basato su una storia vera, raccontata nelle
memorie di Frank McCourt, vincitore del premio Pulitzer, Le
ceneri di Angela racconta la storia di una famiglia di
poveracci nell’Irlanda degli anni Trenta. Tra
umiliazioni e pregiudizi, tra l’alcol e l’amore, tra
scarpe rotte e pidocchi, i bambini protagonisti di questa
storia crescono, trascinandosi verso il proprio futuro.
L’unica speranza è la fuga, l’unica destinazione è
l’America da cui erano partiti in cerca di un aiuto
proprio in patria dai familiari. Il mondo vero
dell’Irlanda degli anni Trenta assomiglia a tante altre
realtà dolorose e aberranti della storia dell’umanità.
Dove i bambini morivano per un raffreddore e i genitori li
piangevano con in mano una pinta di birra.
Durissimo,
asciutto, senza sbavature, il più grande merito de Le
ceneri di Angela diretto dal grande Alan Parker è
quello di opporre alla costante rimozione del brutto e
della povertà dal cinema, una storia vera commovente e
agghiacciante. Uno dei rari casi in cui il libro e il film
vanno di pari passo, spingendo lo spettatore in un baratro
di dolore e disperazione, per una realtà scomparsa per
sempre nell’Europa occidentale e ancora drammaticamente
attuale in tante parti del mondo. Un film imperdibile e
straordinario, per ricordare quanto danno sia capace di
fare un cocktail di superstizione, pregiudizio e vizio
sulla grama esistenza di piccoli bimbi innocenti.
Colpevole
di innocenza (Double Jeopardy) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Ashley
Judd – Tommy Lee Jones Sceneggiatura David
Weisberg & Douglas S. Cook Regia Bruce
Beresford Anno di produzione USA 1999 Durata 105’
Distribuzione UIP
Accusata
di avere ucciso il proprio marito, una giovane moglie
borghese viene mandata in prigione per sei anni. Affida il
suo bambino a un’amica, rassegnata ad espiare un crimine
che non ha commesso. L’amica scompare insieme al bimbo e
per la donna incomincia l’inferno. La ritrova
telefonicamente e scopre che l’uomo che credeva morto,
in realtà è vivo e vegeto e se la spassa allegramente
con l’amante e il figlio. Una sola considerazione aiuta
la donna: quando uscirà potrà uccidere il marito. Perché
se è vero che le autorità non le credono, è anche vero
che nessuno può essere giudicato due volte per lo stesso
crimine. In queste poche righe l’idea geniale che rende Colpevole
di innocenza un
film interessante. Nonostante ricordi alla lontana Il
fuggitivo o
alcune atmosfere dei film di Hitchcock, questa pellicola
presenta il notevole pregio – pur dando molto di
scontato – di essere un film scarno ed essenziale. Una
pellicola pienamente godibile che viene impreziosita dalla
bellezza violenta di un’Ashley Judd ancora nei panni di
una donna forte, almeno la quarta della sua carriera.
Diretto dal regista di A
spasso con Daisy, Colpevole
di innocenza è
un film gradevole la cui idea di fondo aiuta a dimenticare
le tante piccole e grandi incongruenze.
American
Beauty {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Regia:
Sam Mendes; Sceneggiatura: Alan Ball; Fotografia: Conrad
L. Hall; Montaggio: Tariq Anwar, Christopher Greenbury;
Musica: Thomas Newman; Interpreti: Kevin Spacey (Lester
Burnham), Annette Bening (Carolyn Burnham), Thora Birch (Jane
Burnham), Wes Bentley (Ricky Fitts); Produzione: Alan
Ball, Bruce Cohen; USA 1999 – Colore – 121 minuti
Una
busta di plastica volteggia tra le foglie cadute di fronte
al garage di una villetta monofamiliare. Altre costruzioni
praticamente identiche costellano la strada. Altre strade
si intersecano tra loro. Dall’alto una visione di
insieme ci fa dimenticare le solitudini, i dolori, le
incomprensioni, i dubbi e le ipocrisie. Dall’alto anche
la busta di plastica abbandonata non si riesce più a
scorgere. In un mondo di dolorosa violenza quella busta
costituisce la cosa più bella mai vista da un ragazzo di
quel vicinato. Il suo danzare tra le foglie gialle di un
autunno triste come tanti altri è la “bellezza
americana” che il regista teatrale Sam
Mendes ci
propone nel suo esordio cinematografico American
Beauty. Una pellicola prodotta dalla Dreamworks di Steven
Spielberg e
che in poco più di un mese ha incassato circa un milione
di dollari al giorno negli USA. Un film durissimo, un
ritratto sconvolgente e perfetto dal punto di vista
stilistico della famiglia americana medio borghese.
Lui
(Kevin Spacey)
è un padre di famiglia che non riesce a comunicare
con la figlia adolescente, un giornalista sull’orlo del
licenziamento che sogna un’altra vita. Lei (Annette
Bening) è una donna in carriera che tra tecniche di rilassamento e corsi
di autostima tradisce il marito con il miglior venditore
di case della città. La figlia è una adolescente
dubbiosa come tante, con un’amica che gioca a fare la
ragazzetta facile con tutti. Il vicino di casa è un
marine con una moglie con cui non parla più da anni. Il
loro figlio è un maniaco della telecamera vittima della
violenza del padre fanatico e militarista, spaccia droga
per conquistare una vita lontano dalla sua famiglia. I
dirimpettai sono una coppia di yuppies gay. Gli unici
personaggi positivi, in un mondo dove la commedia umana di
Balzac viene
attualizzata e raccontata in maniera molto moderna. American Beauty è un capolavoro. Forse, il film migliore che si
poteva sperare da una fine di millennio in cui sono
rimasti in pochi coloro che vogliono analizzare
accuratamente la nostra società. Mendes ci riesce
perfettamente con una pellicola inquietante, dai toni
poetici e onirici che pur parlando di storie familiari,
inchioda il pubblico alla poltrona come se fosse un thriller.
Un’ironia
amara, una visione del mondo realistica fin nei minimi
dettagli, un film d’autore prodotto da una grande casa
di distribuzione per raggiungere il pubblico di tutto il
mondo con un messaggio moderno, ma anche molto antico.
Scriveva Orazio ne
Il Satyricon “La vita non è nulla, mentre ti volti già si fa notte.” Questo è
più o meno il senso del film in cui l’agitarsi per il
lavoro, gli scontri tra persone che si dovrebbero invece
amare, il dolore e l’incomprensione gratuiti sono solo
un modo stupido per dimenticare quello che davvero conta.
E che Kevin Spacey scopre
proprio quando non c’è più nulla da fare per salvare.
Un film indimenticabile e imperdibile. L’ultimo grande
capolavoro di questo decennio.
L’uomo
bicentenario (Bicentennial Man) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Robin
Williams – Sam Neill – Embeth Davidz Sceneggiatura Norman
Reynolds tratta dal racconto di Isaac Asimov ‘L’uomo
bicentenario’ e dal romanzo ‘The positronic man’ Regia
Chris Columbus Anno di produzione USA 1999 Distribuzione
Columbia Tristar Durata 130’
La fantascienza di Asimov, il suo sentire e quindi
scrivere emozionalmente molto forte quando si parla di
robot sono sviliti in questo film per famiglie da sabato
pomeriggio d’inverno. Con l’aggravante che L’uomo
bicentenario, è diretto da Chris Columbus, sciagurato
autore di pellicole come Mamma ho perso l’aereo,
Mrs.Doubtfire e Nemicheamiche, una sorta di
moderno Re Mida al contrario capace di prendere in mano
belle storie (sua – ahimé – l’idea per la
trasposizione cinematografica degli albi de I
fantastici quattro) e tramutarle in film banali,
carichi di un sentimento esagerato e di situazioni
agrodolci portate all’estremo. La trama – in sintesi
estrema – è molto semplice e ricorda solo alla lontana
la complessa costruzione asimoviana: nel
corso dei primi dieci anni del nuovo millennio gli
sviluppi tecnologici minano la sovranità della razza
umana. L’uomo d’affari Richard Martin (Sam Neill) fa
un regalo a se stesso e alla sua famiglia: un robot
NDR-114 nuovo di zecca (Robin Williams), in seguito
battezzato Andrew dalla famiglia più piccola. Il robot è
programmato per occuparsi delle faccende di casa e giocare
con i bambini. Tuttavia, i Martin si accorgeranno ben
presto di non aver comprato un a macchina qualsiasi:
Andrew è in grado di provare emozioni e dare vita a
pensieri propri, sviluppando anche un discreto senso
artistico. Il corso della vita porta il robot ad
arricchirsi con i soldi guadagnati dalla vendita dei suoi
manufatti, ma la morte e le scelte di vita dei suoi
proprietari, lo obbliga a prendere decisioni difficili e a
pensieri spesso in antitesi. Quello che è davvero
impressionante del film è come vengano resi alla
perfezione l’invecchiamento dei protagonisti e le
ambientazioni futuribili di città come New York e San
Francisco. Spazi visivi e immagini care alla letteratura e
al cinema di fantascienza che colpiscono per la loro
qualità, seppure non brillino per fantasia. Quello che,
invece, proprio non va è il target per famiglie
della pellicola, che rende il dramma di un robot
desideroso di diventare un essere umano, un Bignami mal
riuscito di qualsiasi episodio di Star Trek in cui sia
protagonista Data. Concettualmente e filosoficamente
l’ideologia in cui l’essere umano sia una forma di
vita ineguagliabile è profondamente razzista e
restrittiva. Più interessante sarebbe stato, invece,
potere assistere a un film in cui il Robot rivendicasse il
suo diritto all’individualità della sua forma di vita.
Un essere nuovo, né peggiore, né migliore degli esseri
umani.
Detto
questo, però, L’uomo bicentenario raggiunge
perfettamente il suo scopo. Tra questa oppure quella
situazione smielata Andrew fa la sua vita e il suo
percorso per diventare un uomo. Il sesso, il dolore, la
felicità, l’arte, la morte gli scorrono a fianco con un
Robin Williams che pian piano torna a essere se stesso.
L’umanità è meravigliosa: ricca, affascinante, piena
di gioia. Povertà, disagi sociali, soprusi, delusioni.
Ogni robot vuole diventare un uomo, perché non dovrebbe.
In un mondo simile a Disneyland questa fiaba tecnologica
che ricorda lo schiaccianoci vede impoverita ogni tensione
e ogni dramma. Andrew – è ovvio – diventerà uomo tra
qualche lacrima e tante risate, ma cosa impareranno gli
spettatori? Quale sarà la vera problematica recepita da
un essere umano superiore ai nove anni se non che la razza
cui appartiene – non si sa perché – è la migliore?
Superiore agli animali assenti nella pellicola e a
qualsiasi altro essere. Nessuno sviluppo originale,
nessuna drammaticità. Nessuna alternativa a diventare dei
perfetti ometti, ricchi, pieni di soldi sempre e comunque
che non sanno che cosa sia il brutto della vita e quali
tragedie, miserie e disgrazie possano incatenare ogni uomo
alla sua stessa umanità.
Un
film perfetto nel suo sviluppo simil-Disney, ma anche
deludente e sgradevole per la sua incapacità di offrire
risvolti diversi da uno sviluppo forzoso – sebbene molto
lineare – di una storia che è solo il pallido riflesso
degli scritti di Asimov cui presuntuosamente si ispira.
L’anima dello scrittore è distante da un mondo
perfetto, in cui le aspirazioni di un robot assomigliano più che altro al compimento di
matrice burocratica di un qualcosa di difficilmente
comprensibile.
Giovanna d’Arco (The messenger: the story
of Joan Of Arc) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Milla
Jovovich – John Malcovich – Dustin Hoffman – Vincent
Cassel Sceneggiatura e Regia Luc Besson Anno di
produzione USA – Francia 1999 Distribuzione Columbia
Tristar Durata 161’
Luc
Besson, già regista di Leon e de Il quinto
elemento, si cimenta nella narrazione della vita di
Giovanna d’Arco con esiti assolutamente imprevedibili.
Assai intenso (anche se forse un po’ ripetitivo) dal
punto di vista strettamente visivo e cinematografico (i
primi trenta minuti sono da cineteca), Giovanna
d’Arco si perde in due ore e quaranta di cui risulta
difficile comprendere le finalità. Più gollista di
Asterix, caricato e indulgente in maniera irritante e
vagamente splatter sui dettagli delle scene di
sangue e le battaglie, l’ultimo film di Besson afferma
tutto e il contrario di tutto riguardo la Pulzella di
Orleans, interpretata da una straordinaria e affascinante
Milla Jovovich. La Giovanna d’Arco del regista de Le
grand bleu è una ragazza in preda a visioni di cui è
difficile fornire una spiegazione, una santa abbandonata
in mezzo ai lupi francesi o inglesi che siano, fanatica
non si sa bene perché. Psicotica o visionaria, messaggera
divina o povera pazza esaltata e fortunata che fosse, la
Giovanna d’Arco di Besson è un personaggio volutamente
urlato e portato verso gli estremi di quella che però
paradossalmente rimane un’interpretazione di maniera.
Non c’è nulla di nuovo in questa figura che rimanendo
un enigma per lo spettatore non riesce a coinvolgerlo nei
meandri della sua anima. Girato più con piglio
sperimentale e quasi documentaristico, nonostante il film
si avvalga di grandi attori come John Malcovich e Faye
Dunaway, non riesce quasi mai a stabilire un solido legame
con il pubblico. Nemmeno la carismatica presenza finale di
Dustin Hoffman negli ambigui panni della coscienza di
Giovanna, è in grado di fornire al film quello spessore
che in una storia tanto ricca di spunti era lecito
attendersi. Privo di una vera tensione spirituale, resa
peraltro solo a livello epidermico dalla recitazione della
Jovovich trasformatasi per l’occasione in un’invasata,
Giovanna d’Arco vorrebbe comunicarci il conflitto
di un’anima divisa tra la fede nelle sue visioni e i
dubbi derivati da una fine incerta sul rogo come eretica.
Besson
sembra, infatti, avere abiurato l’idea di fornire una
propria interpretazione della figura storica della vergine
di Lorena, per offrirne un ritratto assai curato dal punto
di vista meramente estetico. Peccato: se avesse preso una
qualsiasi posizione, questo film si sarebbe rivelato molto
diverso dal freddo dramma senza pathòs cui è stato
incomprensibilmente ridotto. Un film difficile e
interessante che delude, però, tutte le aspettative nel
senso di una robusta rilettura in chiave moderna della
vita di Giovanna d’Arco. Sebbene la venticinquenne
attrice ucraina, già ex moglie del regista francese, sia
all’altezza dell’inevitabile paragone con Ingrid
Bergman sembra che al film manchi proprio il tocco
femminile (davvero necessario nel 2000) per raccontare
l’esperienza di una donna divisa tra la santità e la
vendetta personale per lo stupro e l’assassinio compiuto
dagli inglesi della sorella della giovane quando questa
aveva appena pochi anni.
I
santi, gli angeli e le visioni di Giovanna raccontati con
uno stile da videoclip non riescono a motivare
l’esplosiva trasformazione di una contadinella in una
condottiera senza paura. Il tradimento subito dalla
ragazza, il mondo che la circondava all’epoca del suo
trionfo nella liberazione di Orleans è solo parzialmente
approfondito e né Malcovich, né Faye Dunaway hanno la
possibilità di raccontare con la profondità che era
lecito attendersi i rispettivi personaggi. Nonostante
l’ironia incarnata da Dustin Hoffman e il suo modo
razionale per costringere Giovanna a riflettere e il suo
innegabile coraggio estetico la Giovanna
d’Arco di
Besson è riuscito soltanto parzialmente, per colpa di
qualche caduta di gusto e tante incertezze non riesce a
coinvolgere lo spettatore, né – tantomeno – a
condividere il dramma di una delle più importanti donne
della storia non solo del cinema.
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Marco Spagnoli |