Una volta nati,
si deve vivere. Con tutto quello che viene: gioie e amore,
dolori e frustrazioni. Ma è con quest’ultimi che bisogna fare
i conti. Anche perché, come spiega lo psicoterapeuta Aldo
Carotenuto, spesso sono figli della nostra infanzia, del nostro
desiderio di onnipotenza e del rifiuto di vedere i nostri
limiti. La cura? Capire la sofferenza, provarla e abituarsi alla
sua presenza
Aldo Carotenuto,
Attraversare la vita, Bompiani, pp.195, L.28.000
Attraversare
la vita è forse l’unico imperativo destinato a tutti; l’unico
compito che ci accomuna davvero. Portare avanti questo viaggio,
quest’avventura esistenziale (magari fino alla vecchiezza più
estrema) significa tuttavia misurarsi con la perdita, il dolore,
la frustrazione. Eppure, se non si vuole venire travolti dagli
eventi o pietrificati dai lutti, occorre proseguire il cammino
della vita svincolandosi dal passato e aprendosi a sempre nuove
progettualità. Ben consapevoli che mai il raggiungimento di
alcuna meta potrà placare la nostra sete di realizzazione; che
mai alcun desiderio – una volta esaudito – ci renderà
compiutamente sazi e appagati.
Ci sono però due atteggiamenti
opposti: due modalità dissimili con cui guardare alla nostra
parabola esistenziale e con le quali misurare gioie, amarezze o
difficoltà. Il primo si declina all’insegna d’uno
sfiduciato pessimismo reso cupo da nubi d’apprensione,
sconforto o peggio ancora rifiuto difensivo nei confronti dei
propri simili e del mondo. Il secondo è caratterizzato
piuttosto da un’apertura sia rispetto all’altro da sé sia
rispetto alle possibilità di mutamento che il futuro può
offrire. Quindi da una disponibilità a rimettersi in pista ad
onta di tutti i problemi, nonostante le cadute in cui
inevitabilmente incorreremo lungo il nostro cammino. Ma da cosa
può dipendere l’opzione per un approccio positivo alla
vita piuttosto che per uno negativo? Che cosa ci fa
assumere un atteggiamento fatalista, rassegnato, di ripiegamento
su noi stessi e sul nostro passato piuttosto che propositivo e
fiducioso?
Le prime esperienze di relazione
con chi ci teneva (o non ci teneva) fra le braccia, le
coordinate di riferimento che abbiamo incontrato all’inizio
della vita – scrive nel suo ultimo saggio lo psicoterapeuta
junghiano Aldo Carotenuto – "andranno a rappresentare un imprinting
specifico e persistente che costituirà il nostro modello
cardine", cioè il modo con cui relazionarsi con sé stessi
e con gli altri. Chi è stato rifiutato – sottolinea ancora lo
psicoanalista – a sua volta rifiuta e per non rischiare il
dolore d’una delusione non solo non s’attende l’abbraccio
dell’altro ma ad esso si sottrae, per anticipare un eventuale
rifiuto vissuto come intollerabile.
Dovremmo quindi considerare
immodificabili i nostri stili di vita psicologici e il modo con
cui reagiamo o meno a conflitti e frustrazioni? Niente affatto,
ovviamente, anche se mutare lo sguardo attraverso cui osserviamo
il mondo e le nostre esperienze – se la nostra ottica è
eccessivamente cupa – può comportare una vera e propria
discesa agli inferi della psiche, da compiersi lungo un
ulteriore, parallelo itinerario esistenziale alla ricerca della
propria individuazione: attraverso un viaggio che è poi quello
rappresentato dall’analisi psicoanalitica, appunto.
Per questo, avverte Carotenuto,
non bisogna deprecare o temere il malessere psichico. Esso,
infatti, è la "voce dell’anima" insoddisfatta e
bisognosa di profondi cambiamenti. Solo prestandole ascolto si
potrà curarla, nel senso di prendersene cura più
che in quello supponente di guarirla: dalla vita non si
guarisce se non con la morte.
Ed è proprio in questa messa in
parentesi della supponenza, in questo venire a patti con la
realtà che entra in gioco ciò che sta alla base di un
approccio di tipo psicoanalitico, il quale interpreta l’esistenza
mediante il "paradigma del conflitto". Il mondo,
scrive Carotenuto, si interpone tra il desiderio e la sua
gratificazione, così presto o tardi il bambino dovrà
"confrontarsi con la tensione e il conflitto di un
desiderio inesaudito". Ed è da tale esperienza che può
scaturire la fantasia regressiva di un ritorno impossibile all’eden
perduto della fusione prenatale. Aspirazione che peraltro
permane quale "sfondo dolente dell’intera
esistenza". Ma di fronte al conflitto non c’è solo la
rinuncia o la disperazione. Vi può essere modo di riconoscerlo
e, accettatolo come ineludibile, di integrarlo utilizzandolo
come chance di crescita e metamorfosi.
Perché è forse questa la
finalità terapeutica dell’analisi: una ricerca d’armonia,
di un equilibrio omeostatico che ci consenta di tollerare la
compresenza in noi di bene e male, di gioie e dolori, di tutte
quante i nodi d’ambivalenza che ci contraddistinguono e non
potremo mai sciogliere una volta per tutte. Una ricerca che, in
primis, comporti il ridimensionamento del nostro narcisismo d’origine
infantile, malato d’onnipotenza, attraverso il riconoscimento
dei limiti: nostri e di ogni situazione o persona. Ma
attenzione, rimarca Carotenuto. Non basta mai limitarsi alla
mera comprensione intellettuale. Capire astrattamente tutto ciò
senza sentirlo, senza patirlo nel corpo, senza
assimilarlo a livello esperienziale vale poco nella prospettiva
d’una crescita autentica; in quanto ciò che muove il pensiero
senza smuovere le emozioni non dà adito a una reale evoluzione,
poiché l’elemento trasformativo è ciò che opera insieme su
"pensiero e sentimento, intuizione e sensazione".