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redarrowleft.GIF (53 byte) Cinema Aprile 2000


FILM
Aprile-Maggio 2000

Tra Shakespeare e l’antica Roma

 Segnalati da Nautilus

Il gladiatore di Ridley Scott

Fortunatamente il cinema riserva spesso delle belle e imprevedibili sorprese. Così un regista che si pensava avesse già dato il suo meglio con Blade Runner, Alien e Thelma & Louise torna prepotentemente alla ribalta con un film originale e sorprendente. Il gladiatore di Ridley Scott, infatti, costituisce una sorta di reinvenzione di un genere cinematografico dove l’utilizzo della tecnologia digitale è stata capace di sostituire il termine kolossal con la più ambita definzione di  ‘pellicola d’autore’. Già, perché nonostante il film prenda le mosse da dove iniziava anche Quo Vadis? ovvero dalla guerra di Marco Aurelio contro Quadi e Marcomanni nei pressi di Vindobona (l’attuale Vienna) il suo sviluppo è abbastanza dissimile e originale. Massimo interpretato da uno straordinario Russel Crowe è un generale che non nasconde le sue origini contadine, di cui va fiero come simbolo di onestà. Profondamente attaccato alla sua famiglia lasciata a casa, è un soldato coraggioso e formidabile, incrollabilmente fedele a Roma e al suo imperatore, amatissimo dai suoi soldati. Quando Marco Aurelio presagendo la fine imminente, gli chiede di restituire la città alla Repubblica, Massimo si fa garante con la sua parola. Una scelta che gli costerà cara, visto che il feroce figlio dell’imperatore, Commodo si vendicherà ben presto. Sfuggito ad un assassinio a tradimento, Massimo – finito in una lontana provicina africana - diventerà il gladiatore più famoso dell’impero. E vivrà una vita relativamente tranquilla fino a quando – tornato a Roma – dovrà affrontare i fantasmi del suo passato, laggiù nel Colosseo dove la folla che ti ama è disposta a seguirti anche in imprese disperate.

Al di là delle ricostruzioni computerizzate mozzafiato della Roma imperiale (sembra quasi di essere caduti nel plastico del Museo della civiltà romana all’Eur) la grande forza de Il gladiatore sta nel raccontare una storia dalle venature New Age in cui il cristianesimo non viene quasi mai citato e dove – evitando così le possibili melensaggini cui ci avevano malamente abituate alcune pellicole del passato anche famose – il protagonista è un eroe pagano fedele alle leggi della città e devoto. Il gladiatore – nonostante qualche errore storiografico francamente trascurabile dinanzi alla grandiosità della pelicola – si propone così come un film commovente ed emozionante, in cui si celebra il trionfo dell’immagine. Le spettacolari battaglie contro i barbari e i sontuosi giochi del circo consegnano definitivamente la celeberrima corsa delle bighe di Ben Hur alla storia del cinema. Intepretato da Joaquin Phoenix, Connie Nielsen (L’avvocato del diavolo) da Oliver Reed morto durante le riprese a Malta e aggiunto in digitale nelle scene mancanti, Djimon Honsou (Amistad) il film annovera nel cast anche due straordinari grandi vecchi del cinema britannico come Derek Jacobi e Richard Harris nei panni già vestiti da Alec Guinnes di Marco Aurelio. Ma l’elemento più notevole e di valore all’interno del film resta al di fuori di ogni dubbio la grande interpretazione di Russel Crowe che con il suo aspetto di eroe triste ci comunica lo sgomento di un uomo giusto di fronte al tradimento e alla corruzione. In tal senso l’integrità del protagonista risulta quasi  singolare: Massimo è il primo eroe vero senza macchia e senza paura trapiantato nel Duemila. Una scelta vincente dopo un numero cospicuo e forse eccessivo di antieroi. Il suo laicismo, la sua fede nella lealtà ce lo rendono enormemente simpatico e caro come un amico prezioso e insostituibile rincontrato dopo lungo tempo. Il gladiatore è la dimostrazione che quando ci mette lo zampino Spielberg e la sua compagnia di produzione, il cinema può compiere dei miracoli come riuscire a inondare di nuova linfa generi cinematografici apparentemente senza alcuna prospettiva. Una taumaturgia che con Il gladiatore sortisce il benefico effetto di realizzare una pellicola emozionante sebbene di vecchio stampo. Una visione moderna e avanzata di storie antiche, ma ancora cariche di fascino e forza espressiva perfettamente plasmata da un vecchio leone come Ridley Scott.

Titus di Julie Taymor

Drammatico senza solennità, deflagrante senza acrimonia, appassionato con la gelida freddezza derivata dall’esplosione di vendetta e rabbia, Titus è una pellicola sconvolgente. Un distillato onirico e visionario del bestiario umano di Federico Fellini e del talento visivo di Peter Greenaway. Una pellicola appassionante profondamente fedele al testo di Shakespeare, che (in barba alle recenti riletture buoniste dell’opera del bardo di Stratford - on – Avon) mette in scena in maniera strabiliante sentimenti e situazioni peccaminosi come rabbia, odio, violenza, stupro, omicidio e ambizione sullo sfondo di una Roma imperiale che risulta dalla fusione del carattere maschilista e fascista dei palazzi dell’Eur voluti da Mussolini, con lo scombinato e pittoresco dedalo della Roma rinascimentale sorta intorno ai ruderi romani. Lo stile architettonico della Roma fascista dell’Eur alternato alle campagne di ruderi della via Appia costituiscono lo sfondo su cui si muove Tito Andronico, valoroso generale caduto in disgrazia presso l’imperatore che lui stesso ha fatto eleggere rinunciando alla carica e che subisce il fascino malefico della regina gota Tamora. I congiunti del soldato vengono uccisi con l’inganno e oltraggiati, la figlia Lavinia stuprata e mutilata dai figli di Tamora mentre Titus si affligge per i suoi mali, dilaniato tra la rabbia furibonda e la fedeltà alla sua città. Il senso dell’onore oltraggiato camuffato astutamente sotto il velo di una finta pazzia porteranno il film a un finale tragico in cui viene celebrato il trionfo della vendetta a tutti i costi. Collocato in uno spazio al di fuori del tempo, il film si nutre di un background visivo appassionante che risulta dall’alchimia magmatica della città di oggi con il carattere quasi archetipico dei suoi monumenti architettonici. In tal senso sin dalle prime scene il film si apre su una gestualità militare quasi da teatro Kabuki per riportare alla sua essenzialità primigenia il testo shakesperiano collocato in un’era stratificata e cristallizzata che permette la convivenza di un’anima arcaica con una molto moderna, quasi da era dei dittatori. Un melting pot in cui tutti sono buoni e cattivi al tempo stesso, profondamente influenzato dal genius loci latino in cui convivono perfino i colori delle squadre calcistiche della capitale per indicare la fazione politica dei suoi appartenenti. Divise, armature e armamenti dal design frutto di un incontro tra passato e presente, coprono i corpi che nudi si riversano poi in lascive vasche d’acqua che ricordano pellicole come Satyricon o Caligola. Un film affascinante e stupefacente in cui il trionfo del testo shakesperiano ha la meglio perfino sul politicamente corretto di alcune interpretazioni moderniste. Straordinaria la regia della Taymor coadiuvata dalla sottile demenza che Antony Hopkins si è autoimposto per tutto il film e che si scontra in maniera micidiale e perfetta con il languore erotico della regina Tamora interpretata da un’ancora vorace Jessica Lange. Un film molto particolare Titus, in cui il dramma trova contemporaneamente una consacrazione dal timbro molto moderno e una celebrazione al di fuori del tempo, che con la sua virulenza espressiva carica dell’adrenalina delle pulsioni umane costringe la regia ad abbassare il tono lirico del testo in favore di una più carica di significato espressività di natura fisica. Sono, infatti, i corpi a dominare lo spazio dell’azione drammatica, arcigna e cruenta sin dalle primissime scene. Una tensione narrativa, sublimata da un contesto visuale ben delineato che accompagna sin dall’inizio lo spettatore verso un’implosione della struttura narrativa, e che riesce a liberarlo solo dopo un finale catartico dove – con la vittoria della ragione rappresentata dal ripristino delle leggi degli uomini – è possibile perfino dare vita a un happy ending fuori posto di natura New Age. Nella sua caotica rabbia e nel suo tono grottesco e languido, Titus è davvero lo specchio della nostra epoca mediato attraverso il genio di Shakesperare e il talento visivo di Julie Taymor.

Pene d’amor perdute di Kenneth Branagh

Gli ultimi film tratti da Shakespeare ci avevano abituato fin troppo bene. La potenza violenta e non rassicurante di Titus di Julie Taymor trova due brillanti alter ego raffinati e altrettanto virulenti nel Riccardo III di Richard Loncraine con protagonista Ian Mc Kellen e in Romeo + Juliet di Baz Luhrman con Leonardo Dicaprio. Poi sono arrivati film classicheggianti e meno riusciti come La dodicesima notte di Trevor Nunn e Sogno di una notte di mezza estate. Adesso il tanto atteso Pene d’amor perdute con protagonista Kenneth Branagh, l’attore regista che ha riportato l’opera del bardo di Stratford on Avon al centro dell’attenzione cinematografica, tradisce in qualche maniera lo spirito sempre innovativo dei suoi predecessori. Dimenticata la grandiosità della messa in scena dell’Hamlet ambientato nell’era asburgica e trascurata la genialità della rilettura di Nel bel mezzo di un gelido inverno, Branagh sceglie di andare sul sicuro. Ambientando il film negli anni Trenta, alla vigilia dello scoppio della seconda guerra mondiale, l’attore britannico si è circondato di un nucleo di attori straordinari per mettere in scena una commedia romantica basata su inganni ed equivoci spassosi. Il re di Navarra e suoi tre fedelissimi giurano di non innamorarsi per almeno tre anni, dedicandosi allo studio della filosofia. L’arrivo della figlia del re di Francia e delle sue tre belle dame, sconvolgerà i loro piani. La grande forza del film sta essenzialmente nel suo cast ben assortito e di grande qualità: c’è la bella Natascha McElhone già vista in Ronin e Surviving Picasso di Ivory con il quale aveva esordito sul grande schermo, lasciando momentaneamente la Royal Shakespeare Company, c’è l’ex Batgirl Alicia Silverstone, ci sono due veterani del cinema e della commedia Nathan Lane e Timoty Spall e ci sono – soprattutto per noi -  i due attori italiani Alessandro Nivola e Stefania Rocca. Ma purtroppo Pene d’amor perdute, nonostante la deliziosa cornice a metà tra la fiaba hollywoodiana (con tanto di finti cinegiornali) e il musical jazzato da innumerevoli standards cantanti dai protagonisti, non riesce ad andare oltre una leggiadria di fondo che – alla lunga – risulta stucchevole. Tutt’altro che geniale, notevolmente statico, il film si perde per colpa di una realizzazione povera di mezzi che pur seguendo pedissequamente le orme delle commedie musicali americane di prima della Seconda guerra mondiale, non è in grado di ricrearne adeguatamente lo stesso spirito con brio e freschezza. E come potrebbe farlo del resto a cinquanta anni e passa di distanza? Il cinema non è un esperimento scientifico e il tempo trascorso si nota sempre e comunque. Così nonostante alcuni guizzi in cui Branagh sembra riconquistare momentaneamente la forma perduta, il film rimane soltanto un omaggio pedissequo e discontinuo ad un tipo di cinema a tutt’oggi ancora imbattuto sul campo della spregiudicatezza e al tempo stesso della leggiadria. Un po’ come il mediocre Tutti dicono I love you di Woody Allen che non era nulla di più di una parabola plutocratica, Pene d’amor perdute ha la peggio nel confronto con il passato. L’operazione di intramezzare canzoni jazz alle parole di Shakespeare non sortisce alcun effetto degno di piacevole nota. Un po’ perché la fusione risulta comunque ‘posticcia’, un po’ perché condensato in un’ora e mezza di testo abbastanza fedele all’originale, lo scarto tra musica, immagini e parole non presenta alcunché di davvero sorprendente o innovativo. Pene d’amor perdute si risolve così in una variazione sul tema, un esercizio di stile dove – nonostante la buona volontà di tutti – non si riesce a superare quella barriera che porta nel difficile terreno del genio. Luogo ben conosciuto dall’attore e regista inglese, che sembra averlo inspiegabilmente e frettolosamente lasciato per una pellicola dalle coreografie piatte e dai rari momenti interessanti. Una piccola consolazione personale ci è data dal fascino procace di Stefania Rocca che ben regge il confronto con la McElhone, e che ci colpisce per la sua consueta simpatia e avvenenza.

I ragazzi del Marais di Jean Becker

Tratto da un romanzo di George Montforez, I ragazzi del Marais è un film per molti versi eccezionale. Diretto da Jean Becker, si presenta agli occhi dello spettatore mostrando una grande serenità e semplicità, ottenuta sullo schermo a dispetto dei circa 1.500 ciak dati del regista per ricreare in pieno le atmosfere del libro. Un compito certo non facile per raccontare una storia di umili che rischiava di finire nell’oblio capitalista della New Economy. I protagonisti della storia sono, infatti, dei “morti di fame” per loro stessa ammissione che vivono intorno ad una palude vicino a un piccolo paese della provincia francese. Uomini semplici alla ricerca continua di lavoretti da giardiniere o da carbonaio, per comprare qualcosa da mangiare per sé e i propri figli. Personaggi apparentemente ordinari, animati, però, da un considerevole rispetto di se stessi e della propria dignità al punto da non volere accettare un congruo assegno staccato da uno di loro diventato per caso e per fortuna un ricco industriale. “Così diventeremmo dei pezzenti” dice uno di loro all’amico che sembra avere dimenticato il codice non scritto dell’onestà dei semplici che si affitta, ma non si compra. Una storia dirompente, lontana dai valori plastificati del politicamente corretto che come nel Gladiatore di Ridley Scott esalta il vero valore della lealtà, dell’amicizia e dell’onestà. “Sono francamente stufo dei ladri gentiluomini e delle sparatorie cui ci sottopone il cinema di oggi” – dice il regista Jean Becker – “Io credo che il cinema abbia bisogno di eroi disarmati capace di trasmettere dei valori alle nuove generazioni. E’ questo il compito di un film e più in generale dell’arte.” La poesia e il grande divertimento presenti ne I ragazzi del Marais sono dovuti in grandissima parte al talento del cast di attori scelti dall’autore. Uomini e donne (strepitoso è l’ex calciatore Eric Cantona nel ruolo di un pugile sfortunato) in grado di raccontare il piacere e la bellezza di una vita precaria senza padroni, lontano dai sentimenti di un capitalismo sfrenato in cui la felicità era data da un buon bicchiere di vino, da una coscia di rana fritta o da un semplice pallone. Un film fatto di piccole cose che diventa un’epopea degli umili con ironia e lontano da ogni retorica, volutamente incapace di nascondere il suo profondo ottimismo a dispetto di tutte le accuse riguardanti ‘i buoni sentimenti’. Cui il regista risponde così “Ho amato molto un film come Il postino di Massimo Troisi. L’unica cosa che non mi piace, però, è il finale. Dobbiamo avere il coraggio di raccontare storie capaci ancora di farci sognare.”  Sogni di bambini come una bambola di pezza, una palla o una giornata al parco con un amichetto in barba al custode che non fa entrare i figli dei poveri: “Nel Natale del 1941 ho ricevuto un cavalluccio di legno. E’ stato il più bel regalo della mia vita.” – dice il regista – “Questo film, che in Francia è stato molto apprezzato dai giovani, serve a riscoprire il valore delle cose semplici.”

Ogni maledetta domenica di Oliver Stone

Perché uno dei registi americani più impegnati sul versante politico, autore di film come JFK, Nixon e Assassini Nati dovrebbe occuparsi di football? Perché un autore tumultuoso e mai prevedibile come Oliver Stone dovrebbe dire quello che tutti in parte già sanno: ovvero che lo sport è stato corrotto dalla valanga di soldi connessa ai diritti televisivi, trasformando le squadre in aziende multimiliardarie che hanno ben poco a vedere con lo spirito del gioco e di squadra? “Perché per me il football è la metafora della vita. Una guerra non molto dissimile dal Vietnam dove sono finito da giovane in cui sudi e ti sacrifichi anche solo per guadagnare un centimetro. E non mi piace quello che questo sport è diventato oggigiorno. Un crogiuolo di interessi economici e di mercenari che giocano per loro stessi.” Dice il regista che in Ogni maledetta domenica ha voluto raccontare la battaglia settimanale che un allenatore vecchio stampo e dal cuore d’oro come Al Pacino è costretto a combattere non solo contro avversari tatticamente preparati ed agguerriti, ma anche contro l’ingerenza della ricca proprietaria, ereditiera della squadra Cameron Diaz. Fautrice di meri interessi economici e disposta pure a far giocare chi non è in perfetta condizione fisica pur di raggiungere i suoi scopi. Ogni maledetta domenica lungo ‘solo’ due ore e mezza nella versione europea, tagliata di dodici minuti rispetto a quella americana per rendere più comprensibile il gioco a chi non lo conosce, è la narrazione del mondo corrotto e fatuo delle squadre di football, alle spalle del quale non c’è soltanto un modo diverso di intendere il gioco, ma addirittura due filosofie di vita distanti e spesso inconciliabili. In questo senso Dennis Quaid il Quaterback per cui tutti si sacrificano e che è arrivato alla fine della sua gloriosa carriera rispettato da tutti è l’alter ego perfetto per il giovane giocatore nero Jamie Foxx, che dopo anni di umiliazioni dovuti a pregiudizi striscianti ed essere alla fine riuscito a conquistare fama e denaro, si propone come il prototipo dei campioni inondati dai soldi, incapaci di servire lo spirito di squadra. Poi – non solo di contorno – c’è tutto il resto: il medico corrotto James Woods, il giornalista sportivo egocentrico e pieno di sé che si scontra contro il telecronista tutto cuore e ricordi interpretato dallo stesso Oliver Stone, l’anziano dirigente della lega Charlton Eston (quasi un doppio ruolo il suo visto che in casa dell’allenatore un televisore trasmette Ben Hur…), le tante donne stupende che ruotano intorno ai giocatori in veste di mogli o amanti anche loro – comunque – mercenarie. Una guerra sportiva a tempo di rock, questa in estrema sintesi Ogni maledetta domenica che al pubblico italiano obnubilato dalle partite di calcio e dagli scandali sportivi a tutte le ore non sembrerà poi così virulento come nelle intenzioni del regista. Una pellicola certamente spettacolare e interessante in cui la metafora del gruppo in grado di vincere unito rispetto a chi subisce le sconfitte da soli, è la stessa che il regista americano ci aveva già proposto in Platoon. Un altro modo per dire che nella società dell’individualismo sfrenato è solo la famosa unione che fa la forza in grado di fare la differenza e  vincere. Una visione filosofica della vita originale anche se un po’ retrò, ma anche – e questo è fuori di dubbio – un messaggio politico molto importante per un regista democratico come Oliver Stone.

Erin Brockovich di Steven Soderbergh

Erin Brocovich è un film estremamente riuscito, perché offre al pubblico numerosi piani di lettura diversi. Innanzitutto quello di essere stato ispirato da una storia vera in cui l’Erin Brocovich della vita reale appare addirittura in un piccolo cameo come cameriera di una tavola calda dove a sua volta la finta Erin Brocovich interpretata da Julia Roberts va a mangiare con i tre figli molto piccoli. Il secondo punto di vista è quello della storia di una donna sola che messa alle strette dalla mancanza di denaro e da due matrimoni falliti cerca a tutti i costi un posto di lavoro per mantenere i suoi bambini. Poi c’è il thriller legale in cui Erin cerca con molti sacrifici e tanto ingegno di aiutare gli abitanti di una piccola cittadina la cui acqua è stata avvelenata da delle sostanze chimiche passate dagli scarichi di una fabbrica nelle falde acquifere. E ancora, c’è la storia di una donna affascinante e del suo difficile rapporto con gli uomini. Insomma, Erin Brocovich si giova di quella completezza e originalità che solo la vita vissuta può donare alle storie. Il regista Steven Soderbergh è stato bravo a riunire le fila di tutti questi aspetti differenti e plasmarli in una pellicola veloce, interessante e non priva di ironia e di momenti di grande divertimento. Al di là del motivo didascalico che descrive quanta forza d’animo e di volontà ci vogliono per cambiare il fatidico stato delle cose, l’elemento più interessante racchiuso nel film è quello fornito dalla grande umanità di Julia Roberts capace di interpretare in maniera diretta e senza troppi fronzoli un personaggio vero e intenso. Nonostante sia un lungometraggio prodotto da uno dei grandi Studios hollywoodiani e abbia come protagonista quella che può essere considerata la più grande tra le star di sesso femminile, Erin Brocovich è una pellicola dalla natura indipendente esaltata da un budget adeguato e dalla regia di un autore che dopo L’inglese con Terence Stamp torna a presentare un film più tranquillo sul piano visuale, ma non meno intrigante e interessante dal punto di vista narrativo e di quello delle emozioni. 

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