Con Il Re Leone ha
ridato fiato al cartone animato nel cinema. Adesso Rob
Minkoff ha fatto un altro miracolo: la regia di un film
dove recitano uomini, gatti e un topo virtuale disegnato
al computer. "Una fatica spaventosa", dice. Ma
anche il piacere di raccontare una storia, come quella del
piccolo roditore Stuart Little, che insegna la tolleranza
e l’amore
E’
stato il regista de Il re leone, la pellicola che
ha praticamente salvato il cinema d’animazione Disney
dallo scivolare sul viale del tramonto. Adesso Rob Minkoff
è tornato con un successo stratosferico: quello legato
alle avventure del topino Stuart Little. Un
personaggio dolce e simpatico, reso miliardario dagli
incassi ottenuti in tutto il mondo.
Quella di Stuart Little non è una
storia molto conosciuta dal grande pubblico. Non era
preoccupato ad avvicinarsi ad un progetto con qualche
rischio?
Effettivamente è vero, molte persone
che conoscevano la storia erano entusiaste del fatto che
stavo per trasporre sul grande schermo un libro della loro
infanzia. Altri mi guardavano un po’ incerti… credo,
però, che il materiale nella storia sia talmente
straordinario e originale da facilitare a qualunque autore
il suo approccio al lavoro.
Nessuno
considera strano il fatto che Stuart sia un topo e viva in
un orfanotrofio insieme a degli umani. Un invito e un
insegnamento a tutti i giovani riguardo la tolleranza…
Questo è diventato l’elemento
centrale del film che ci ha aiutato a coagulare l’intera
trama intorno ad un’idea. E’ stato un faro per non
perderci all’interno della matassa di idee che volevamo
raccontare. Questo è un qualcosa che ho imparato
dai miei anni di lavoro alla Disney.
Eppure la Disney, però, da tempo non
tenta di raccontare fiabe così vecchio stile…
E’ vero, ma questo processo è stato
aiutato dalla tecnologia che consente di raccontare storie
con tecniche differenti. La sfida oggi per un autore è
rendere il computer un mero strumento per raccontare
meglio il calore dell’umanità. Del resto io ho passato
due anni della mia vita a lavorare su questo film.
Desidero che ogni cosa che faccio abbia un ‘valore
aggiunto’ da offrire al pubblico. La profonda umanità
di Stuart Little era uno degli scopi che mi ero
prefissato.
Come mai è stato scelto per dirigere
questo film?
Me lo sono chiesto anche io. Al di là
dei motivi e dei meriti artistici uno dei fattori è stato
quello che io non avevo mai lavorato prima con immagini
animate, attori e animali. E spesso mi sono chiesto se
questa ingenuità non sia stata uno dei motivi per cui la
Columbia ha chiesto proprio a me di fare un’esperienza
tanto dura e in fin dei conti spaventosa…
Almeno l’amore per gli animali l’ha
aiutata per affrontare tutte le difficoltà…
Moltissimo. L’unico problema è che io
sono allergico al pelo del gatto anche se mi piacciono
molto gli animali.
Quante difficoltà avete avuto a fare
‘recitare’ dei gatti che – si sa – sono animali
abbastanza indipendenti?
Enormi.
Ad un certo punto avevamo pensato di cambiarli addirittura
con i cani. Non avrebbe avuto senso. La loro recitazione
è frutto del grande lavoro dei loro trainers e di
un grande montaggio delle scene. Le loro espressioni
sorprese venivano realizzate magari facendo sentire loro
dei rumori strani o soffiando con delle piccole pompe ad
aria. L’ultima scena tra i rami degli alberi è stata un
incubo. Abbiamo girato ventotto chilometri di pellicola
per realizzarla.
Marco Spagnoli