Lettura Luglio 2000
Napoli, confine con la Spagna
Adelphi ripropone dopo 50 anni la raccolta di novelle di Anna Ma-ria Ortese. Quell'Infanta sepolta"che allude sin dal titolo all'ispanicità che ispirava l'autrice nei suoi primi racconti
Anna Maria Ortese, L'Infanta sepolta, Adelphi, pp.196, L.265.000
Mai più riedita dal 1950 (anno in cui appare), la silloge di novelle "L'Infanta sepolta" di Anna Maria Ortese, che è stata recentemente riproposta ai lettori da Adelphi, non costituisce appena la seconda prova narrativa di una scrittrice quasi unanimemente considerata tra le voci più autorevoli del novecento letterario italiano ma, come sottolinea Monica Farnetti nella sua puntuale postfazione al libro, rappresenta al contempo un'opera - sia pure all'insegna di poetiche diverse e non caratterizzata ancora da coerenza tematico/stilistica - in cui emergono tuttavia con chiarezza "gli elementi in assoluto fondanti della scrittura della Ortese".
Temi e stilemi narrativi i quali non solo anticipano il grande arazzo autobiografico de "Il porto di Toledo" ed i racconti de "Il mare non bagna Napoli", giocati sulla pedaliera d'un peculiarissimo realismo magico, ma che ritorneranno nei lavori della piena e tarda maturità espressiva: dallo splendido romanzo visionario "L'Iguana" (che rappresenta a detta di molti il capolavoro della scrittrice) agli ultimi narrativi: "Il cardillo addolorato" e infine "Alonso e i visionari" con cui si esaurisce la stagione delle grandi prose ortesiane, con-clusasi circolarmente con la riscrittura del ponderoso ed ermetico "Porto di Toledo", già rivisitazione della prova d'esordio "Angelici dolori", oggi praticamente introvabile, di cui gli appassionati della Ortese attendono da Adelphi la ristampa. Non a caso "L'Infanta sepolta" allude sin dal titolo all'ispanicità che contraddistingue i-spirazione e registro narrativo dei primi racconti (influenzati dalla lettura di poeti spagnoli barocchi o neobarocchi: da Góngora a García Lorca) fino al "Porto di Toledo", titolo che vela/svela una Napoli alquanto iberica: cattolicissima e sensuale; dai palazzi in-sieme sfarzosi e fatiscenti e dai bassi oscuri, sebbene a tratti visitati da "brandelli di arcobaleno".
Ma chi è l'Infanta, questa voce spagnola che dà il titolo alla raccol-ta? Un simulacro: l'effigie della vergine Maria, ossia la Signora di Montemayor, "la cui statua nera si diceva sbarcata nel nostro porto, una mattina del maggio 1840, da legno grande che batteva la ban-diera gialla e rossa di Spagna". Una Madonna minore, però, rispet-to alle altre ben più solari e sontuose madri di dio venerate in altre chiese dai toledani; sorta di "Maestà Nera", regina del dolore, che tornerà con la sua umbratile cappella giusto nel "Porto di Toledo" a s/consolazione della scrittrice che individuerà nel fantasioso vice-reame spagnolo e nel suo idioma un'utopica patria perduta e la lin-gua d'una espressività (per dirla col gergo di Toledo) assai liri-cheggiante, perseguita da un'improbabile illetterata ragazzina tole-dana alle prese con gli esercizi di stile d'una scrittura sorvegliatis-sima e limpida ma pure sin troppo incline all'estenuazione ridon-dante ed a visionari furori.
Ma, dice bene Monica Farnetti, al tempo dell'Infanta la Ortese sta chiudendo le proprie fonti spagnole e forse il compito della raccol-ta - a cavallo fra esordio e non precoce maturità - è di chiudere sia l'epoca degli angelici dolori sia delle scapestrate giovinezze lette-rarie toledane; e l'intento è quello di spostare l'ottica narrativa dal-la Toledo fantasmatica alla Napoli neorealistica della miseria e de-vastazione patite nel secondo dopoguerra. Città autentica da coglie-re attraverso la messa a fuoco d'una espressività altra: più lucida e diurna, mediante testi fra il reportage giornalistico e i brani di un autobiografismo attento però soprattutto all'altro da sé.
Va comunque detto a chiare lettere: la raccolta è a tratti sfocata e disomogenea, pur nel tentativo da parte dell'autrice di organizzarla in tre sezioni distinte tematicamente. Nella prima infatti abbondano sogni, apparizioni angeliche, presenze fantasmatiche e parabole di una religione della sofferenza, fatta propria dalla Ortese, in cui Dio è assente o incapace d'arginare il dolore del mondo. Notevole, a ta-le proposito, il racconto "Occhi obliqui" in cui una bambina sedi-cente figlia di Dio si sente accanto al Padre contemplando le sue creature ("un filo d'erba", "un uccelletto", "una rosa") e confessa di provare - sorta di piccola Teresa d'Avila - "una tale montagna d'amore, che mi pareva di morire". C'è davvero tutta la Ortese fra-gile figlia della Natura in questa storia dolcissima sul lamento d'una bimba intorno all'appassire di una rosa. E certo il Dio della scrittrice, un Dio che permette la morte degli innocenti per anto-nomasia: le piante e gli animali (vedi il puma di "Alonso e i visio-nari" e la stessa "Iguana") non è "buono" o forse solo non è onni-potente, come vuole certa teologia del dopo Auschwitz.
Così la fanciullezza e la sua fine (i brani autobiografici sulla quale costituiscono la seconda breve partizione della raccolta) rappresen-tano una soglia: quella della consapevolezza della perdita. Oltre ta-le soglia possono ben visitare la Ortese esseri di "angelica beltà" ma l'amore che ad essi la lega è sempre esposto al pericolo del ve-nir meno. E quando non è il nodo degli affetti ad essere troncato da un abbandono (vedi i racconti "Jane, il mare" o "La collana dei tap-pi sacri") è la morte a spezzare l'idillio (vedi "Vita di dea"). Benché sempre di affetti lacerati/laceranti si tratti: di relazioni con-trastate o sentimenti ambivalenti che l'artificio dell'ossimoro più o meno traslato stigmatizza. Dunque quella che provano, pur nei momenti felici, un po' tutte le dolenti figure della Ortese è sempre una "triste gaiezza": liminare e limbico statuto esistenziale esem-plarmente descritto in "Vita di dea", quando l'io narrante descrive il proprio dolce/amaro assillo: "Vivevo e non vivevo. Provavo una tale sensazione di gaudio, un dolore così sereno, una felicità così vertiginosa, pace e guerra, spasimo e gioia".
Anche nella terza parte del volume - dedicato a Napoli, "Città Ma-lata", e per certi versi ancor più impietoso e crudo dello stesso "Mare" - tornano inquietanti atmosfere oniriche sospese tra vita e morte, realtà diurna e notturna, da sembrar narrate in sonno e in veglia, volendo rubare il titolo d'una successiva raccolta di racconti ortesiani. Ma è in "Grande via", la storia con cui termina "L'Infanta", che emerge più prepotente la fascinazione cimiteriale per la dimensione altra e dell'oltre (dell'oltretomba, appunto) che alcune statue esercitano sulla narratrice ("Nessuno tolse a me di mente che, piuttosto che simulacri, quelle figure di pietra bianca o di gesso fossero qualcosa di ben più vivente"). Difficile non coglie-re un parallelismo con le pagine intorno al cimitero e ai suoi fanta-smi, descritte così straordinariamente nel "Cardillo".
Tomba ancor sempre come soglia: metafora per eccellenza in que-sta scrittura tra le più metaforiche di tutta la prosa italiana del se-condo novecento. Luogo privilegiato per l'incontro - tra i mondi dei vivi e dei morti - con angeli dagli "occhi obliqui", in grado d'attraversare i confini della realtà e compiere il portento di narrar-ci l'indicibile.
Francesco Roat
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