Politica Settembre 2000
Scusi, lei per chi non ha votato?
Una ponderosa ricerca Usa dimostra che alle elezioni politiche non si vota a favore di un candidato. Ma contro l'altro. I programmi? Non contano. Perché vince chi denigra con più "stile" l'avversario. Ma senza esagerare
Ha lavorato su quella ricerca per 24 lunghi anni. Ma adesso almeno può dire che i risultati non sono legati a mode o opinioni passeggere. Tanto ci ha messo Jon Krosnick infatti, professore di psicologia e scienze politiche all'università di Stato dell'Ohio, per capire in base a cosa la gente decide di votare (o non votare) alle elezioni. E una scoperta, un po' inquietante, l'ha fatta: la maggior parte degli elettori non vota a favore di un candidato. Ma contro l'altro.
E' vero, parte dello studio si adatta alla mentalità e alle diverse tradizioni degli americani in fatto di voto politico. Diverso il sistema, diverse sensibilità, due soli partiti. Ma qualcosa, sicuramente, vale anche per il resto dell'Occidente. I più anomali forse siamo proprio noi italiani. Ammorbati da mille partitini, conflitti di interessi, spinte estreme e servilismi vaticani. Ma alzi la mano, tra quanti hanno votato per il centrosinistra alle ultime elezioni (e a quelle precedenti), chi ha veramente voluto premiare i candidati dell'Ulivo e chi invece voleva soprattutto sconfiggere Berlusconi e il berlusconismo. E come scordare il celebre "turiamoci il naso ma votiamo Dc" di Montanelli, traduzione di "meglio i ladri dei comunisti"?
Comunque in attesa di uno studio tutto italiano che confermi (o smentisca) l'ipotesi, Krosnick parla chiaro: "La gente è molto più motivata nel distruggere od ostacolare un candidato antipatico che premiare uno buono o simpatico". Molte le implicazioni dell'analisi del professore statunitense. In particolare sulla questione astensionismo, un "partito" che all'estero è da sempre intorno alla metà degli aventi diritto al voto e in Italia ha toccato il 30 per cento. Ad esempio: perché andare a votare se nessuno dei due candidati ci piace? Comunque vada, è il ragionamento, ne usciamo sconfitti. Quindi meglio stare a casa. Ma anche se ci piacciono tutti e due i candidati probabilmente non andremo a votare. Perché sappiamo che comunque "vinciamo". Come si fa allora a convincere il maggior numero possibile di elettori ad andare alle urne? Semplice, dice Krosnick: basta mettere di fronte alle elezioni un candidato buono e uno cattivo, un santo e un bandito, un puro e un furfante. E le urne si riempiranno di gente pronta a votare pur di non far vincere l'antipatico.
Questa tendenza generale degli elettori spiegherebbe anche perché negli Usa dalla vittoria di John Kennedy su Nixon nel 1960 in poi, con piccole oscillazioni, il numero degli astenuti è sempre cresciuto. I candidati, dicono i ricercatori, erano sempre più piatti e poco interessanti. Risultato: elettori indifferenti, urne svuotate.
Ma dallo studio sono emerse anche altre caratteristiche. Tra cui una conferma: gli spot elettorali che funzionano meglio sono quelli al negativo, insomma quelli che attaccano o demoliscono l'avversario mettendolo in cattiva luce. Ma con un'avvertenza: il fango va gettato con leggerezza e modi appropriati, tipo "carogne con stile": l'eccesso di cattiveria altrimenti si ritorce su chi la usa.
Infine vale anche per i politici in carriera la legge de "la prima impressione è quella che conta". Per Krosnick infatti le persone tendono a trattare un nuovo candidato come fosse una qualsiasi altra persona o attività. Al primo incontro in genere (che sia una possibile fidanzata, un amico o un corso di chitarra) si parte con fiducia, anzi con la speranza di un approccio positivo. Insomma neutri ma con cuore aperto. Se però ci sentiamo delusi o traditi, fine della storia. Così vale per un politico: il primo approccio è decisivo. Se funziona, l'elettore resterà probabilmente fedele a lungo. Se non va, difficilmente sarà recuperato. Da qui una deduzione: invece di puntare tutto sugli ultimi giorni di campagna elettorale per convincere la gente (che molto raramente cambia idea), meglio puntare tutto o quasi sulla prima impressione.
Si può trarre una conclusione unica? Anche se non è proprio edificante, Krosnick pensa di si: a fare la differenza non sono mai i programmi ma l'abilità di un candidato nel denigrare l'altro. Sempre, però, senza sembrare troppo cattivo. "La gente dà molto più peso ai difetti di un candidato che ai pregi". Insomma la domanda numero uno "…e il programma?" ora sappiamo che è inutile. Berlusconi continuerà a spaventare i bambini con i comunisti cannibali e Rutelli a mostrare i suoi 32 denti da pasta del capitano. Mal che vada rischiamo solo le urne deserte.
a.m.
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