La verità, suppongo
Cos'è l'universo? Quello spiegato dalle leggi della scienza o un irraggiungibile concetto filosofico? Un saggio di Carlo Sini prova a spiegarci se esiste o no la conoscenza pura. Basta ricordare,
dice, che l'unica certezza in natura è non esiste nulla di assoluto
Carlo Sini, Idoli della conoscenza, Raffaello Cortina Editore, pp.263, L.35.000
Pare che per Einstein la cosa più incomprensibile dell'universo
fosse la conoscenza stessa. La maggior parte di noi comuni mortali, invece, immersi come siamo in una dimensione esistenziale all'insegna di scienza e tecnica tendiamo a ritenere che i concetti scientifici esprimano davvero le leggi eterne della natura,
rappresentino la descrizione di come sono le cose del mondo,
dimenticando che ogni paradigma scientifico è un prodotto mentale, una costruzione culturale che comporta l'adesione a determinati
postulati e che vedi Hume comporta sempre una certa qual dose di fede, se è vero che ogni riscontro, ogni messa alla prova di una
teoria è poi solo un dato contingente, la cui reiterazione anche
molteplice non dimostra altro se non che un fenomeno s'è ripetuto un certo numero di volte; ma ciò non significa debba per forza
ripetersi ancora e sempre nelle stesse modalità.
Tutto ciò cosa implica? Hanno forse ragione gli scettici nel dire che non esiste alcuna verità? O gli estremisti ermeneutici quando
sostengono che tutto è solo interpretazione all'interno di un certo
linguaggio e ciò che chiamiamo mondo, lungi dall'essere concretezza, equivale soltanto a un'immagine del mondo? E' possibile si finisca sempre infilzati da una delle due corna d'un dilemma micidiale per cui o si deve inchinarsi davanti alle pretese universalizzanti del pensiero scientifico (o metafisico) o si rischia di perdere ogni fede nella possibilità di conoscere, cadendo nel relativismo più
destabilizzante, nel nichilismo più afasico?
Questi interrogativi stimola il bel saggio di Carlo Sini "Idoli della conoscenza". E per cercare di uscire dall'impasse l'autore ci invita innanzitutto a riflettere sul fatto che "non c'è una posizione
privilegiata fuori dal mondo" ossia che noi siamo sempre e comunque all'interno di esso e non ci è dato formulare alcunché di assoluto nel senso, appunto, di
absolutus: di sciolto da, di libero dal nostro legame indissolubile col mondo, che non sta "di contro all'uomo", non è una datità esterna in quanto "uomo e mondo si allevano e crescono reciprocamente e insieme".
Sini ci esorta quindi a non disgiungere processi mentali e cose,
auspicando che pure l'uomo della strada (e questo limpido saggio, pacato ma pungolante non è certo rivolto solo agli addetti ai lavori) inizi a riflettere su come mondo e mente "sorgano insieme"; anche perché se è vero che il mondo si dà a noi tramite la mediazione
intellettuale/linguistica, è pur vero che il linguaggio stesso
la pratica interpretativa è un "pezzo" di mondo. La sollecitazione di
Sini, allora, è quella di abbandonare ogni fissazione dicotomica (o metafisica o scetticismo), ogni fuorviante dualismo (o cose in sé o mera interpretazione), giacché "l'esperienza dell'uomo affonda le radici in una solidarietà dell'uomo col mondo, della parola con la cosa, che è più antico delle domande che ci poniamo sul
conoscere". Altrimenti corriamo il rischio non solo del cosiddetto realismo ingenuo, ma anche di considerare il linguaggio come una sorta di categoria a priori piuttosto di una pratica millenaria di astrazione, anch'essa facente parte del mondo.
In questa, a mio parere, condivisibilissima ottica non esiste perciò qualcosa come l'interpretazione in sé, ma la pratica dell'interpretazione che è un tutt'uno di mondo e visione di esso, poiché una visione del mondo senza quello non potrebbe darsi. Del resto lo stesso soggetto, lo stesso io che si interroga e teorizza
intorno ai cosiddetti fenomeni, non sussiste prima e oltre la pratica ermeneutica. E ciò costituisce una critica nei confronti di quegli scienziati che hanno la supponenza di riferirsi ad un "Universo
vero indipendente da tutte le pratiche". Così, direbbe Gadamer, ogni accadere è tale entro un orizzonte e non si danno enti o cose in sé, se non l'accadere in una prospettiva o pratica di vita e conoscenza; tenendo ben presente che esse mutano (errano), proprio come muta e diviene il mondo.
Però attenzione, conclude Sini. Non è che le cose ci sono solo in quanto poste in essere da una pratica (scientifica, del senso comune esperienziale o filosofica che sia), in quanto causate da una pratica; piuttosto essa rappresenta la loro "modalità". Congediamoci
dunque una buona volta dalle pretese di poter formulare una qualche Verità assoluta: slegata dalla pratica entro cui si esprime, sebbene una verità che non è un dato immutabile o un fondamento ma un evento "in figura" che è prospettiva, soglia mai
conchiusa, "apertura dell'evento".
Francesco Roat
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