"Il federalismo contrattuale non è una utopia"
Nei giorni scorsi, i lavoratori metalmeccanici della Fim-Cisl del Veneto si sono espressi a favore del "federalismo contrattuale". In altre parole hanno detto che i contratti di lavoro "prima si discutono a livello locale, poi si passa alla trattativa nazionale". Una posizione in controtendenza rispetto alle altre sigle sindacali, in particolare alla Cgil, con il segretario Cofferati strenuo difensore del contratto nazionale. A Giorgio Santini, esponente nazionale della Cisl, abbiamo chiesto un parere sulla questione
Il contratto dei metalmeccanici rappresenta, ancora, un simbolo nelle relazioni e nel conflitto tra lavoro ed impresa: ormai ininterrottamente dagli anni '60 si risolve faticosamente dopo un lungo scontro tra sindacati e associazioni imprenditoriali, quasi sempre con una snervante mediazione del Governo (solo una volta nel 95 si firmò senza scioperi).
In questo quadro si inserisce una proposta, che parte dalla FIM-CISL del Veneto, di cambiare la contrattazione sindacale proprio a partire dal rinnovo del contratto nazionale.
Secondo la FIM del Veneto il contratto nazionale conserva una sua importante funzione di tutela del potere di acquisto del reddito dei lavoratori ma il baricentro della contrattazione si deve spostare dal contratto nazionale alla contrattazione aziendale o territoriale.
Sono pertanto fuori luogo le forzature che provengono dal mondo imprenditoriale ed anche da qualche illustre accademico, per l'abolizione del contratto nazionale.
In questo senso, allora, va, per così dire limitato lo spazio del contratto nazionale ad una funzione precisa (simile a quella che garantiva un tempo la scala mobile, senza recepirne automatismi e difetti), mentre va effettivamente estesa a tutti i lavoratori la possibilità e l'opportunità di contrattazione decentrata sui variegati aspetti della prestazione lavorativa. Qui entra in campo l'importanza decisiva del legame contrattazione/territorio, affidando quindi alla contrattazione decentrata quei compiti e quegli obiettivi che impropriamente alcuni continuano a voler definire (peraltro malamente) nel contratto nazionale. Sono infatti tutti in azienda e nel territorio i fattori che determinano la qualità e la quantità della prestazione lavorativa e a quel livello debbono essere contrattati sia perché non fuoriescano da un rapporto costruttivo con l'andamento delle imprese sia perché possano dare benefici più significativi per i lavoratori.
Pensiamo ad esempio alla produttività; qualsiasi studio serio dimostra che essa va contrattata laddove viene generata, in particolare dal fattore lavoro, e cioè in azienda. Se ciò non è possibile (ad esempio nell'area delle micro-imprese) si potrà al massimo considerare un area territoriale delimitata, meglio se omogenea per tipologie produttive. Continuare a contrattare la produttività come media nazionale non ha realmente alcun significato, né per l'impresa né per il lavoro, anzi costringe realtà economiche ed industriali diverse ad una forzosa omogeneità contrattuale, poco opportuna anche per le stesse prospettive di evoluzione e crescita (in particolare al Sud).
Considerazioni del tutto analoghe si possono fare per la professionalità e il mercato del lavoro che sono fortemente condizionati dal bacino territoriale in cui si collocano.
Ci sono aree del Nord in cui la competizione tra aziende per "rubarsi" lavoratori con determinati profili professionali fa schizzare molto in alto salari e stipendi, al di fuori di ogni contrattazione collettiva. Ma pensiamo anche alle forme sempre più diversificate nei rapporti di lavoro, che vedono ormai entrare nelle aziende lavoratori apprendisti, in CFL (contratto di formazione lavoro), interinali, parasubordinati, a tempo determinato, impegnati in stage e tirocini. Come è possibile per tutte queste figure non pensare ad una contrattazione mirata, in azienda o nel territorio, che si faccia carico ad esempio dei percorsi di crescita professionale, attraverso la formazione permanente, costruiti con la responsabilizzazione degli stessi soggetti?
Ancora, la politica degli orari di lavoro che si caratterizza per ricorrenti esigenze di flessibilità, può essere definita in modo indifferenziato, ogni due o quattro anni in sede centrale?
La proposta della FIM CISL del Veneto, ben lungi da essere rinunciataria, vuol dar risposta a questi interrogativi impegnando lavoratori ed imprese ad un di più di contrattazione, di confronto, di possibili convergenze nell'interesse reciproco, a partire dal contratto e da una comune valutazione dei fenomeni laddove accadono, con il protagonismo dei soggetti interessati.
Questo processo, definito anche federalismo contrattuale, con un richiamo alle riforme istituzionali in corso, non sarà indolore. Deve scontrarsi infatti con due opposte tendenze. Da un lato quella del centralismo contrattuale che nulla vuol cambiare, chiudendosi in uno sterile e improduttivo conservatorismo, con il rischio di portare una categoria prestigiosa come i metalmeccanici ad uno scontro "sordo" e senza prospettive per un contratto che nascerebbe già vecchio. Dall'altro però quella di un vento che riprende a soffiare e vuol decretare la morte della contrattazione collettiva, in nome del trionfo del contratto individuale, o come si dice ora, libero.
Il federalismo contrattuale è una risposta alternativa a queste due vie; si basa sulla contrattazione collettiva ma la vuol intrecciare con i problemi reali di ogni lavoratore nel rapporto con l'azienda e il territorio, per non perdere di concretezza ed efficacia e per non smarrire quel filo solidale che da sempre ha mosso l'iniziativa e la ragion d'essere del sindacato.
Giorgio Santini
(segretario confederale Cisl)
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