I nazisti sono
dei gatti sadici. Gli ebrei dei topi in trappola. Così Art
Spiegelman ha raccontato in "Maus" gli orrori
dell’Olocausto. Trasformando la storia della sua famiglia di
polacchi sopravvissuti ad un lager in un delicato e divertente
fumetto fatto di animali
"Maus" – Einaudi,
collana Stile Libero (pp.292, L.24.000)
L’orrore
e il dolore dell’Olocausto – a detta di molti ex internati
nei campi di sterminio nazisti – sono letteralmente
inenarrabili, davvero indicibili. Ma affinché le generazioni
future non abbiano a smarrire la memoria storica, i vari Primo
Levi, Simon Wiesenthal, Elie Wiesel e tanti altri
sopravvissuti ai Lager hanno trovato le parole per raccontare
l’indescrivibile. Eppure forse nessuno più di Art
Spiegelman è riuscito, come ha scritto Moni Ovadia, a
"dire l’impossibile attraverso la pietas
artistica" in una forma assieme colta e popolare,
d’intensa pregnanza espressiva ma di semplice, agevolissima
lettura. Mediante una formula ed un linguaggio alla portata di
tutti; ossia con un libro a fumetti.
Si tratta di "Maus",
recentemente proposto ai lettori italiani da Einaudi nella
collana Stile Libero (pp.292, L.24.000), cioè il racconto
fatto dal padre dell’autore – un ebreo di origine polacca,
scampato ad Auschwitz – al figlio cartoonist intorno alla
tragedia personale e collettiva che ha sconvolto, assieme a
quella di Vladek Spiegelman e della sua famiglia, milioni di
ebrei durante il terzo Reich. La storia di "Maus",
ambientata in Polonia, inizia dunque negli anni trenta
all’epoca felice del matrimonio di Vladek e Anja, per
trattare quindi gli anni bui della guerra e dell’occupazione
tedesca e infine quelli dell’internamento ad Auschwitz, da
cui entrambi i genitori di Art usciranno fortunosamente vivi.
Una vicenda come tante, si dirà.
Sebbene, proprio perché colta nella prospettiva d’una
dimensione familiare, dimessa e colloquiale, in grado di
catturare il lettore e di inchiodarlo alle tavole di un
racconto dal fascino delicato e struggente. Sì, "Maus",
non è certo un fumetto aggressivo dalle immagini cupe o
terrifiche, ma – lo sintetizza felicemente Umberto Eco nel
retro di copertina – una "storia splendida" che
"ti prende e non ti lascia più". Una storia in cui
la sofferenza si alterna all’umorismo e i massacri alle
beghe coniugali. Dove la pietà autentica non scade mai in
retorica e la testimonianza dell’orrore non ha bisogno di
scene granguignolesche.
Stavo per scordarmi un tratto
essenziale, però. In "Maus" gli ebrei sono topi e i
nazisti gatti. Eppure, grazie a tale escamotage, Spiegelman è
riuscito a regalarci un’autentica epopea "narrata a
disegni minuscoli", come ha sottolineato il New York
Times. E insieme una piccola grande storia d’amore.
Di
tutt’altro registro: erotizzante, trasgressivo, provocatore
come al suo solito, l’ultimo fumetto di Milo Manara. Un
libriccino all’insegna di un voyeurismo ben temperato da un
pizzico d’ironia (e autoironia) che ci parla di belle donne
e di Internet, di mass media e immaginario collettivo, di
sesso virtuale e non virtuale (anche se, ovviamente, tutto
rimane confinato nell’ambito visivo, quindi sempre soltanto
iconico e fantasmatico).
Si tratta di "Tre ragazze
nella rete" - Oscar Mondadori, (pp.58, L.16.000) - ovvero
la storia di un affiatato trio di femmine (seno all’insù,
coscialunga, labbra a cuore, occhio vispo) alle prese con una
sorta di Grande Fratello alquanto pornografico. Insomma, per
farla breve, se le tre fanciulle vogliono guadagnare qualche
soldino in rete, bisogna che davanti alla telecamera piazzata
sullo schermo del loro computer si mostrino come mamma le ha
fatte e si diano da fare in termini di "sesso!
sesso!" come sbraita lo sponsor.
Così ce la metteranno
veramente tutta, in un crescendo di immagini tra l’osé e
l’allusivo, inguaiando un assatanato che si credeva
predatore e finisce per diventare preda, anzi vittima. Perché
il racconto finisce col tingersi di giallo e di noir; anche se
poi è tutto un fraintendimento, che si risolverà in una
burla, in gioco, appunto.
Giacché solo uno sembra essere
il messaggio sotteso al fumetto di Manara: non prendiamo
troppo sul serio le immagini; in primis le vignette di questa
storia, di questa irriverente presa in giro dell’ossessione
iconica per antonomasia: lo scenario di un teatro sessuale
allestito dal e per il desiderio insoddisfatto. Attenti, è
tutto un trucco, una finta, una illusione, sembra voglia
avvertirci il buon Manara. Altro che plauso alla realtà
virtuale!
Francesco Roat