Speciale Sanremo
(7)
3 marzo
2001
PLACEBO
Quando la musica è musica - o quando, semplicemente, ti piace
- è qualcosa che ti entra dentro, che penetra nelle viscere.
E ti scombussola. Metti su un disco, te lo spari nei timpani,
spegni la luce, chiudi gli occhi, e la senti dentro, un corpo
dentro un corpo. Un amplesso con le note, se volete. O una
trasfusione di melodie. C'era un film, a metà anni sessanta,
"Viaggio allucinante". Nel cast doveva esserci una
tipo Ursula Andress o Rachel Welch. Dei medici venivano
rimpiccioliti e, con una navicella, entravano nel corpo di un
uomo per guarirlo. Lo hanno rifatto anche i Placebo, che hanno
appena incominciato a suonare davanti a me. Nel video di
"Special K" - il brano che stanno provando adesso
sul palco dell'Ariston - Brian Molko entra dentro al corpo di
un androide con una navicella e ne esce fuori da una lacrima,
come nel film.
E la musica dei Placebo è una navicella piccola piccola, che
ti entra dentro. La voce graffiata di Brian Molko e la sua
chitarra e poi il basso di Stefan Olsdal e la batteria di
Steve Hewitt. La loro musica, insomma. Dentro, dall'orecchio,
come in quel film.
Molko entra in scena vestito di pelle e una bottiglietta
d'acqua. Sembra minuscolo vicino al bassista e agli uomini
della security. Tanto minuscolo da entrarti nelle viscere con
la voce., appunto. Entra e chiede dove sono "la kitare",
anche se il brano è in playback. Sul palchetto di questo
scarno Sanremo sembrano tre bimbetti che esibiscono al
patronato, ma poi parte "Special K" e sei subito
impossessato da qualcosa. Non so se proprio dal rock. Da
qualcosa di forte, comunque. E come una rockstar, Brian Molko
a un certo punto dà un calcio all'asta del microfono.
Continua a suonare e cantare. Un addetto fa per rimetterla a
posto e lui la scalcia ancora. Vorrei che fosse un gesto a chi
li ha costretti a suonare in playback ma non so se è così.
Finisce la prova e Molko si accende una sigaretta. Chiede se
stasera potrà avere il volume "more loud". Sì,
glielo alzeranno, dicono. "Molte grazie". Gli
rimettono un'asta diversa, lui sembra accettarla. Riprovano la
canzone. Sarà devastante il confronto fra Special K e quello
dei ragazzini che stasera si giocano Sanremo. Un confronto
impari. I Placebo e Pincapallina: chi ti entra nelle vene e
chi no.
ELISA
La
luce ce l'ha dentro agli occhi, Elisa. E che luce. La luce dei
tramonti della sua terra, Monfalcone, e di tutte le terre, gli
spazi, le cose, le persone che lei imprime nelle sue pupille.
La guardi e non puoi non raccoglierla la luce che le cade
dagli occhi, come dice la sua canzone. E se la luce è suono,
allora Elisa ti guarda e suona. Parla ed è come se cantasse.
Nella hall dell'albergo dove abbiamo appuntamento passa prima
Sandra Milo, poi tutta una serie di quelle facce che girano
intorno a questo mondo della musica. Poi arriva lei. Piccola e
piena di luce. E ti chiedi che ci fa qui una come lei. È
chiarissimo, invece. Lo capirò alla fine della lunga
conversazione. Viene a Sanremo per sorprenderlo, aggirarlo. E
vincerlo. Si siede e mi chiede se può fumare. Non ne può più
di un'intervista dopo l'altra. Ma lei, gentile, risponde a
tutti, anche a uno che, dopo di me, la paragonerà a Spagna e
avrebbe meritato ben altro che la gentilezza. In questi
momenti vorresti trovare la domanda assoluta, la più
originale possibile. Le dico che trovo la scelta
di cantare in inglese molto letteraria, che lei fa come fecero
Conrad e Nabokov.
"L'inglese l'ho studiato alle elementari e alle medie,
dice Elisa. Avevo dei libroni su cui studiavo da sola. A me
piace fare 'pastrocci', mescolare le cose che mi piacciono.
Così all'inizio mescolavo inglese e italiano. L'inglese
adesso mi aiuta a essere sintetica. È una specie di
dimensione parallela dove mi piace stare. Ormai penso anche in
inglese".
Pensiero e immaginazione, spesso si fondono insieme. Fanno
"pastrocci" anche quelle. E l'immaginazione è
quella luce che le cade dagli occhi.
"Ho sempre immaginato molto. Mia madre era preoccupata
perché io parlavo con un personaggio che mi ero inventato. Mi
piaceva viaggiare, spostarmi già allora, e non potendo farlo
fisicamente, lo facevo con l'immaginazione" Poi è
arrivato il momento della scrittura. Dei racconti: "Mi
piaceva inventarmi storie. Ne scrivo ancora, in autunno
dovrebbe uscire da Mondadori un libro che le raccoglie".
Parli con Elisa e scopri che l'immaginario di una cantautrice
non è poi così diverso da quello di uno scrittore. Raccoglie
appunti non appena può. In ogni modo: "Giro con un
piccolo registratore sempre in borsa. Ho registrato i taxisti
di tutto il mondo, in ogni città in cui sono stata. Tengo lì
i loro racconti, poi un giorno li utilizzerò in qualche
modo".
Allora nascono anche così le canzoni. E "Luce"?
"'Luce' nasce da una incontro casuale fatto a Bologna. Un
ragazzo, un diciottenne, mi ha riconosciuta per strada. Era
vestito da telefonino Ominitel, nel senso che distribuiva la
pubblicità. Era tutto verde. Mi è stato subito simpatico. Ci
siamo visti, mi ha fatto leggere alcune sue poesie. Mi ha
raccontato di sua madre che è cresciuta in Africa. Una sera
guardando un tramonto mi ha raccontato della luce che c'era
laggiù e di cui gli parlava sua madre. Quando se n'è andato
mi è rimasta addosso la tenerezza di quell'immagine, la
nostalgia. Ho incominciato quella sera a scrivere la canzone.
In inglese. Si intitolava "The bird cry for the Indians".
Dentro poi ci sono entrate tutte le luci della mia vita, ma
soprattutto quella dei posti dove sono nata e cresciuta. Non
la finivo mai, quella canzone. Ci lavoravo e ci aggiungevo
sempre qualcosa. Quest'estate allora ho deciso di chiuderla
concentrandomi solo su una cosa. Alla fine sono rimaste tutte
le sensazioni e le emozioni di questi ultimi anni. Anni in cui
la mia vita è cambiata. Io la sento come una delle canzoni
migliori che ho scritto. È uscita come doveva uscire. L'ho
tradotta in italiano insieme a mia madre, un giorno che sono
andata a pranzo da lei e mi è sembrata subito perfetta".
Elisa, come uno scrittore, un poeta, lavora molto sul testo.
"Sì, ci lavoro molto, anche se alla fine ciò che mi
interessa di più è il senso. Sono disposta a sacrificare
anche la parola più adatta pur di trovare ciò che
maggiormente si avvicina a quello che voglio dire. Credo
risieda lì la poesia più che nella parola in sé. Inoltre
quello che mi interessa è la sinstesi. Quello che voglio che
arrivi non è me, ma ciò che dico". Per questo ha deciso
di chiamarsi soltanto Elisa e non Elisa Toffoli. Il cognome
avrebbe necessariamente portato con sé un vissuto, una
storia. Elisa invece è soltanto un suono. Come la luce che le
cade dagli occhi e illumina.
Terminiamo parlando di Jim Morrison e Emily Dickinson, la
poetessa, del nostro Nordest che amiamo ma che non ci piace
com'è oggi. E di una passeggiata da fare insieme a Monfalcone,
per sentirla raccontare da lei, la sua città, quando tutto
questo sarà finito e lei tornerà a essere l'Elisa di tutti i
giorni. Luce che cade dagli occhi. I suoi.
R.F.
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