I sintomi della
"recessione" nel calcio italiano ci sono tutti. Tra
terribili stenti nelle Coppe europee, grandi decadute e allenatori
che durano a malapena un anno anche se vincenti. Perché oggi le
società vogliono tutto e subito. E il tempo per organizzare piani
efficaci non c’è più. La controprova? Le
"provinciali" Atalanta, Perugia, Udinese. Che per non
soccombere alla follia miliardaria sono costrette a programmarsi
per tempo
In calo di risultati e di prestigio, il calcio
italiano è in crisi. Vicino a una pesante "recessione"
che ricorda l’analogo destino di una new economy tutta clamori
mediatici e scarsa sostanza imprenditoriale. I sintomi di questa
crisi sono così tanti, che nemmeno si sa da dove cominciare.
Cerchiamo allora di circoscrivere i principali.
Iniziando pure dalla Roma. Al comando sì, ma in
modo anche troppo clamoroso, considerando che alle sue spalle,
dopo nemmeno metà campionato, si allarga un vuoto di ben otto
punti prima di trovare la non irresistibile Juventus di questi
tempi. Come dire che i giallorossi di Capello sono sicuramente in
grande forma, ma sono pure gli unici che possono essere definiti
così a tredici giornate dall’inizio del torneo. Le altre,
virtualissime "big" si dibattono invece in problemi
quanto mai intricati e complessi.
Basta soffermarsi agli allenatori, e questo
assunto trova solo conferme. A cominciare da Fabio Capello, che
esattamente come la sua squadra, è l’unico mister delle
"grandi" ad avere passato indenne, anzi in gloria,
questo tremendo scorcio di stagione. Il resto è noto: Sven Goran
Eriksson licenziato sei mesi dopo avere vinto lo scudetto con la
Lazio; Alberto Malesani messo alla porta da un Parma che il
tecnico veronese non è riuscito a far decollare; Marco Tardelli
ogni giorno sulla graticola di un’Inter ancora a corrente
alternata dopo il fulmineo siluramento di Marcello Lippi; Carletto
Ancelotti appena tornato faticosamente in sella di una Juve che un
paio di mesi fa soffriva in preda a una galoppante anarchia; il
simpaticissimo Fatih Terim sugli scudi dei tifosi viola dopo i
lunghi tormenti a lui inflitti dal presidente Cecchi Gori.
Detto di questi, il caso più paradossale ed
emblematico riguarda Alberto Zaccheroni, in pratica liquidato dal
Milan (il divorzio è già fissato per il prossimo giugno), con i
rossoneri virtualmente fuori dalla lotta per lo scudetto, ma
ancora in lizza nella Champions’ League. Dove, obbiettivamente,
il cammino si annuncia duro, ma non impossibile. Si deve anzi
rammentare che, riuscisse a passare il secondo turno, il Milan si
ritroverebbe proiettato ai quarti, con il miraggio di una
finalissima da giocare in casa, il prossimo maggio. Visto come i
giocatori abbiano finora preferito di gran lunga la scena europea
alla serie A, non appare per nulla peregrino ipotizzare un Milan
lanciato in piena corsa verso il massimo trofeo continentale con
in panchina un allenatore a metà.
Si tratta per altro dello stesso "Zac"
che, più o meno nelle stesse condizioni di separato in casa,
vinse due anni e mezzo fa uno dei più inattesi scudetti della
storia rossonera, costringendo il presidente Berlusconi a
rimangiarsi un benservito pronto da lunga pezza per il meno amato
dei suoi allenatori. Nel segno di una precarietà al vertice che
ha contagiato anche il suo successore Eriksson, capace di gettare
alle ortiche in pochi mesi tutta la credibilità conquistata con
il secondo titolo fatto vincere in 90 anni alla Lazio. Quella in
Inghilterra è apparsa come un’autentica fuga da una panchina
divenuta così intollerabile da rinunciare perfino al fascino di
una Champions’ League, che anche ai biancoazzurri propone ora un
cammino ostico ma non proibitivo: un’impresa contro il Real
Madrid potrebbe bastare per raggiungere il secondo posto e la
qualificazione. Va inoltre aggiunto che, gratifiche personali ed
economiche a parte, il nuovo ruolo di ct della nazionale inglese
potrebbe rivelarsi a breve termine un nuovo calvario per l’allenatore
svedese, atteso da un ambiente poco malleabile e, cosa ancor più
grave, da una squadra quanto mai povera di risorse e di speranze.
L’esclusione dai mondiali è probabile, ma non ancora certa, e
spetterebbe al nuovo ct accollarsene tutto il peso.
Le parabole umane e professionali di Zaccheroni
ed Eriksson si fanno dunque leggere come esemplari di un calcio
italiano che, perennemente sovraesposto a causa delle pressioni
economiche e mediatiche da cui è gravato, è divenuto ormai
schiavo dell’utile immediato, del miraggio momentaneo, dell’insofferenza
di presidenti tifosi e giornalisti. Le conseguenze di un disagio
così diffuso si scontano soprattutto nella mancanza di
programmazione che attanaglia da anni, e in modo sempre più
grave, il mondo del pallone nostrano. Non a caso alla Roma è
bastato pazientare un solo anno, e non un triennio, per consentire
al suo allenatore Capello di assemblare con i miliardi del
presidente Sensi uno squadrone dato ormai per favoritissimo allo
scudetto del 2001. E’ vero che è arrivato in riva al Tevere un
asso formidabile come Batistuta, ma è altrettanto vero che lo
scorso torneo è stato vissuto come una penosa odissea da tutto l’ambiente
giallorosso, frustrato dai successi biancoazzurri, e da qualche
balbettio di troppo dei propri beniamini. Fortuna ha voluto per la
Roma che il credito di Capello era tale da convincere Sensi a
tenerselo per un’altra stagione, con i risultati ora sotto gli
occhi di tutti.
E’ proprio l’"anno in più"
concesso al mister friulano a costituire l’eccezione nel
panorama di un calcio italiano che, ai massimi livelli, si consuma
in un forsennato vorticare di "si dice", di "vorrei
ma non posso", e di "tutto e subito". Da qui un’impietosa
parabola discendente che dalle eclissi di gioco della serie A si
estende alle prestazioni sempre meno esaltanti delle nostre
squadre in ambito internazionale. L’anno scorso, fra Champions e
Uefa, è stato un pianto greco. Quest’anno le premesse sono
altrettanto cupe, con Inter e Juve fuori in malo modo dalla League,
e Lazio e Milan rimaste a correre, ma con un fiatone sempre più
preoccupante. Quanto alla Uefa, gli ottavi di finale del prossimo
mese di febbraio, annunciano gatte da pelare di nome Liverpool
(per la Roma), Psv Eindhoven (per il Parma), e Alaves (per l’Inter).
Non è un quadro da allarme rosso, ma nemmeno da allegre
scampagnate.
Resta la Nazionale. Che, guarda un po’, ha
clamorosamente sfiorato l’Europeo con una squadra finalmente di
"affamati" e non di "appagati" (Nesta a parte,
nessuno è andato in Benelux con qualcosa già in tasca). E
restano le cosiddette provinciali, dove la continua lotta per la
sopravvivenza, fra problemi economici e organizzativi ormai
colossali, impone maggiore programmazione, con risultati a volte
esaltanti (Atalanta e Udinese), e altre volte ammirevoli. Quest’ultima
definizione non vale solo per Perugia, Lecce, Vicenza e Verona. Va
estesa anche alla Reggina, dove l’allenatore Franco Colomba è
rimasto in panchina anche dopo l’ottava sconfitta consecutiva.
Così da tornare prepotentemente in gara per la salvezza, grazie
alle ultime due vittorie centrate con Vicenza e Parma. Come dire
che il grande calcio italiano ha già in casa le ricette per
guarire dai suoi mali.
Stefano Ferrio