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redarrowleft.GIF (53 byte) Sport Febbraio  2001  
 

Pallone usa e getta

I sintomi della "recessione" nel calcio italiano ci sono tutti. Tra terribili stenti nelle Coppe europee, grandi decadute e allenatori che durano a malapena un anno anche se vincenti. Perché oggi le società vogliono tutto e subito. E il tempo per organizzare piani efficaci non c’è più. La controprova? Le "provinciali" Atalanta, Perugia, Udinese. Che per non soccombere alla follia miliardaria sono costrette a programmarsi per tempo

In calo di risultati e di prestigio, il calcio italiano è in crisi. Vicino a una pesante "recessione" che ricorda l’analogo destino di una new economy tutta clamori mediatici e scarsa sostanza imprenditoriale. I sintomi di questa crisi sono così tanti, che nemmeno si sa da dove cominciare. Cerchiamo allora di circoscrivere i principali.

Iniziando pure dalla Roma. Al comando sì, ma in modo anche troppo clamoroso, considerando che alle sue spalle, dopo nemmeno metà campionato, si allarga un vuoto di ben otto punti prima di trovare la non irresistibile Juventus di questi tempi. Come dire che i giallorossi di Capello sono sicuramente in grande forma, ma sono pure gli unici che possono essere definiti così a tredici giornate dall’inizio del torneo. Le altre, virtualissime "big" si dibattono invece in problemi quanto mai intricati e complessi.

Basta soffermarsi agli allenatori, e questo assunto trova solo conferme. A cominciare da Fabio Capello, che esattamente come la sua squadra, è l’unico mister delle "grandi" ad avere passato indenne, anzi in gloria, questo tremendo scorcio di stagione. Il resto è noto: Sven Goran Eriksson licenziato sei mesi dopo avere vinto lo scudetto con la Lazio; Alberto Malesani messo alla porta da un Parma che il tecnico veronese non è riuscito a far decollare; Marco Tardelli ogni giorno sulla graticola di un’Inter ancora a corrente alternata dopo il fulmineo siluramento di Marcello Lippi; Carletto Ancelotti appena tornato faticosamente in sella di una Juve che un paio di mesi fa soffriva in preda a una galoppante anarchia; il simpaticissimo Fatih Terim sugli scudi dei tifosi viola dopo i lunghi tormenti a lui inflitti dal presidente Cecchi Gori.

Detto di questi, il caso più paradossale ed emblematico riguarda Alberto Zaccheroni, in pratica liquidato dal Milan (il divorzio è già fissato per il prossimo giugno), con i rossoneri virtualmente fuori dalla lotta per lo scudetto, ma ancora in lizza nella Champions’ League. Dove, obbiettivamente, il cammino si annuncia duro, ma non impossibile. Si deve anzi rammentare che, riuscisse a passare il secondo turno, il Milan si ritroverebbe proiettato ai quarti, con il miraggio di una finalissima da giocare in casa, il prossimo maggio. Visto come i giocatori abbiano finora preferito di gran lunga la scena europea alla serie A, non appare per nulla peregrino ipotizzare un Milan lanciato in piena corsa verso il massimo trofeo continentale con in panchina un allenatore a metà.

Si tratta per altro dello stesso "Zac" che, più o meno nelle stesse condizioni di separato in casa, vinse due anni e mezzo fa uno dei più inattesi scudetti della storia rossonera, costringendo il presidente Berlusconi a rimangiarsi un benservito pronto da lunga pezza per il meno amato dei suoi allenatori. Nel segno di una precarietà al vertice che ha contagiato anche il suo successore Eriksson, capace di gettare alle ortiche in pochi mesi tutta la credibilità conquistata con il secondo titolo fatto vincere in 90 anni alla Lazio. Quella in Inghilterra è apparsa come un’autentica fuga da una panchina divenuta così intollerabile da rinunciare perfino al fascino di una Champions’ League, che anche ai biancoazzurri propone ora un cammino ostico ma non proibitivo: un’impresa contro il Real Madrid potrebbe bastare per raggiungere il secondo posto e la qualificazione. Va inoltre aggiunto che, gratifiche personali ed economiche a parte, il nuovo ruolo di ct della nazionale inglese potrebbe rivelarsi a breve termine un nuovo calvario per l’allenatore svedese, atteso da un ambiente poco malleabile e, cosa ancor più grave, da una squadra quanto mai povera di risorse e di speranze. L’esclusione dai mondiali è probabile, ma non ancora certa, e spetterebbe al nuovo ct accollarsene tutto il peso.

Le parabole umane e professionali di Zaccheroni ed Eriksson si fanno dunque leggere come esemplari di un calcio italiano che, perennemente sovraesposto a causa delle pressioni economiche e mediatiche da cui è gravato, è divenuto ormai schiavo dell’utile immediato, del miraggio momentaneo, dell’insofferenza di presidenti tifosi e giornalisti. Le conseguenze di un disagio così diffuso si scontano soprattutto nella mancanza di programmazione che attanaglia da anni, e in modo sempre più grave, il mondo del pallone nostrano. Non a caso alla Roma è bastato pazientare un solo anno, e non un triennio, per consentire al suo allenatore Capello di assemblare con i miliardi del presidente Sensi uno squadrone dato ormai per favoritissimo allo scudetto del 2001. E’ vero che è arrivato in riva al Tevere un asso formidabile come Batistuta, ma è altrettanto vero che lo scorso torneo è stato vissuto come una penosa odissea da tutto l’ambiente giallorosso, frustrato dai successi biancoazzurri, e da qualche balbettio di troppo dei propri beniamini. Fortuna ha voluto per la Roma che il credito di Capello era tale da convincere Sensi a tenerselo per un’altra stagione, con i risultati ora sotto gli occhi di tutti.

E’ proprio l’"anno in più" concesso al mister friulano a costituire l’eccezione nel panorama di un calcio italiano che, ai massimi livelli, si consuma in un forsennato vorticare di "si dice", di "vorrei ma non posso", e di "tutto e subito". Da qui un’impietosa parabola discendente che dalle eclissi di gioco della serie A si estende alle prestazioni sempre meno esaltanti delle nostre squadre in ambito internazionale. L’anno scorso, fra Champions e Uefa, è stato un pianto greco. Quest’anno le premesse sono altrettanto cupe, con Inter e Juve fuori in malo modo dalla League, e Lazio e Milan rimaste a correre, ma con un fiatone sempre più preoccupante. Quanto alla Uefa, gli ottavi di finale del prossimo mese di febbraio, annunciano gatte da pelare di nome Liverpool (per la Roma), Psv Eindhoven (per il Parma), e Alaves (per l’Inter). Non è un quadro da allarme rosso, ma nemmeno da allegre scampagnate.

Resta la Nazionale. Che, guarda un po’, ha clamorosamente sfiorato l’Europeo con una squadra finalmente di "affamati" e non di "appagati" (Nesta a parte, nessuno è andato in Benelux con qualcosa già in tasca). E restano le cosiddette provinciali, dove la continua lotta per la sopravvivenza, fra problemi economici e organizzativi ormai colossali, impone maggiore programmazione, con risultati a volte esaltanti (Atalanta e Udinese), e altre volte ammirevoli. Quest’ultima definizione non vale solo per Perugia, Lecce, Vicenza e Verona. Va estesa anche alla Reggina, dove l’allenatore Franco Colomba è rimasto in panchina anche dopo l’ottava sconfitta consecutiva. Così da tornare prepotentemente in gara per la salvezza, grazie alle ultime due vittorie centrate con Vicenza e Parma. Come dire che il grande calcio italiano ha già in casa le ricette per guarire dai suoi mali.

Stefano Ferrio

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