L’incontro fra un ex
sessantottino italiano deluso e rassegnato e di un gigante
russo che cerca, dopo una promessa, la testa del padre
perduta. Il libro di Sergio Pent è soprattutto una fiaba
postmoderna per raccontare un viaggio alla ricerca di sé
stessi e del proprio passato
Sergio Pent, Il custode del museo dei
giocattoli, Mondadori, pp.309, L.32.000
Più
che un romanzo è una fiaba postmoderna "Il custode del
museo dei giocattoli" di Sergio Pent. Una storia
dolceamara, dove il disincanto si alterna alla commozione e il
grigiore del paesaggio metropolitano cede il passo ai magici
panorami della taiga siberiana. Dove alla rassegnata apatia
del protagonista narratore – un italiano ex giovane di belle
speranze, ex sessantottino, ex detenuto, ex presunto
terrorista – fa da contraltare l’entusiasmo tenace e un po’
folle del suo doppio: un gigante russo proveniente
dalla steppa, che gira il mondo per adempiere ad una promessa
che più fiabesca e felicemente insensata non si può.
Sono infatti antitetici ma insieme
complementari i due personaggi chiave del libro, i cui destini
vengono ad intersecarsi come per una sorta di attrazione
fatale tra opposti. Quando si incontrano, l’italiano,
ripiegato su se stesso in un regressivo immobilismo
meditabondo, è alle prese con un suo privatissimo bilancio
esistenziale che egli tenta di far quadrare riandando con la
memoria agli errori e alle disavventure del passato. Il russo
sta invece vagando perennemente senza requie, causa la
promessa fatta al padre: un utopista rivoluzionario il quale,
deluso dal regime sovietico, aveva stabilito che dopo la
propria morte, il suo corpo venisse tagliato a pezzi da
inviare a destinatari sparsi per tutto il mondo. Solo quando
il suo Paese si fosse liberato dal comunismo, il figlio
avrebbe recuperato, riportandole in patria, le sue spoglie. E
così è avvenuto, o quasi. Per ricostruire il cadavere,
infatti, manca ancora la testa che dovrebbe trovarsi a
Salisburgo, dove finiranno per recarsi, insieme, il gigante
Piotr, l’ex detenuto ed il figlio di questi, Daniel, un
ragazzino handicappato, di cui il padre s’è fino a quel
momento assai poco curato.
Quindi il viaggio è l’occasione da un
lato per esplorare i racconti davvero fiabeschi che il russo
narra all’italiano lungo il tragitto, e dall’altro per
ri-scoprire da parte del genitore assente la dimensione dell’infanzia
attraverso un figliolo che, secondo Piotr, ritardato non è
neppur tanto, se è vero che Daniel "seleziona ogni cosa,
cerca il nesso tra le parole e pronuncia quelle
necessarie". Così ha una direzione insieme centrifuga e
centripeta l’itinerario dell’eccentrico trio, in fuga –
a bordo di una vecchia Renault prestata alla combriccola dall’ex
compagna del narratore – verso un’avventura piena di colpi
di scena (sia essa quella che accade ai tre nella
peregrinazione alla ricerca della testa perduta; sia quella
parallela della vita avventurosa del padre di Piotr, rievocata
dal russo) ma anche alla ricerca della propria autenticità,
che i due uomini compiono attraverso una autoanalisi
tratteggiata da Pent con mano leggera, mediante un registro
espressivo ilare e scanzonato ma intenso.
E forse l’utopia – ma pure l’atopia
– cui tende Piotr è poi solo il vagheggiamento dell’infanzia
("un’infanzia protratta all’infinito potrebbe essere
la migliore delle vite possibili"), il ritrovamento di
vitalità, spontaneità e stupore infantili. Non a caso tappa
cruciale del viaggio iniziatico alla scoperta di se stessi
vede i due adulti in un luogo emblematico, il Museo dei
Giocattoli, dove: "Per un istante che rimarrà eterno
nella memoria, ci siamo persi, senza più la volontà di
cercare le inutili risposte del presente".
A quel punto, cosa importa se la testa del
vecchio rivoluzionario non dovesse venir ritrovata all’ultimo
indirizzo di Salisburgo? Ciò che conta – sembra suggerire
tra le righe Pent – è avere una meta, una tensione ideale,
un obiettivo da raggiungere mettendosi in gioco, anima e
corpo, senza riserve. Che poi tale scopo sia "l’impresa
assurda" di Piotr, il compito di divenire finalmente
adulto o di accompagnare il proprio figlio nell’altrettanto
ardua impresa di crescere, oppure un'altra finalità
ulteriore, dipende dalla storia in cui uno è coinvolto. E
questa, che Pent ha saputo così garbatamente orchestrare,
finisce o meglio si sospende proprio qui.