Sport Marzo 2001
L’apartheid del
pallone
Una
squadra di dilettanti arriva alla finale della Coppa di Francia.
In Gran Bretagna un team di serie C è in semifinale con il
Liverpool in Coppa d’Inghilterra. E in Italia? Non succederà
mai. Perché nei palazzi del calcio nostrano vige un rigido culto
delle gerarchie che prevede diritti inviolabili per gli squadroni
ricchi. Che devono comunque prevalere sugli altri. Anche se queste
giocano meglio. Così, il disastro italico nelle Coppe insegna,
non sono le squadre più brave ad andare in Europa
In
questi giorni il calcio inglese fa festa e, soprattutto,
"comunica" festa all’intero mondo del pallone, grazie
all’impresa di una sua piccola squadra. Anzi, come da noi si
suol dire, di una "squadretta". Si chiama Wycombe
Wanderers, gioca in un minuscolo paese del Buckinghamshire, e
milita "naturalmente" in Second Division, l’equivalente
della C1 italiana. Ebbene, grazie a una sensazionale partita
giocata, e vinta, in trasferta, sul campo teoricamente proibito
del Leicester, nuova potenza di Premiership, sospesa in classifica
fra zona Champions’ League e zona Uefa, il Wycombe ha
conquistato il diritto a disputare una delle due semifinali della
prestigiosa Coppa d’Inghilterra, manifestazione che per gli
inventori del calcio è addirittura più importante del
campionato. Per l’esattezza, ai Wanderers tocca ora in sorte il
confronto con i Reds di Liverpool, da incontrare a viso
apertissimo l’8 aprile prossimo, sull’erba vellutata del Villa
Park di Birmingham (occhio alla possibile diretta dell’avvenimento,
su una delle reti digitali di Stream, che in Italia ha l’esclusiva
della Coppa inglese).
In questi stessi giorni di albionica gloria per
il Wycombe, il calcio italiano va istericamente interrogandosi sui
propri disastri internazionali. C’è chi spiega la Caporetto
europea, culminata con l’eliminazione del Milan dalla Champions’
League, aggrappandosi al fatale stress del nostro campionato (la
famosa "pressione", senza pari al mondo). Chi preferisce
chiamare in causa l’estenuante lunghezza della stagione, e chi
punta il dito sugli esagerati, demotivanti contratti strappati dai
giocatori e dai loro procuratori.
Hanno
tutti una qualche ragione (soprattutto gli ultimi), anche se
nessuno dimostra il coraggio di un affondo al cuore, malato, del
nostro sistema: la serie A. E’ in questo cuore che si annida
infatti un arido e asfissiante senso di "protezionismo",
estraneo agli altri massimi campionati europei. L’intero palazzo
del pallone italiano è pervaso da un rigido culto delle
gerarchie, secondo le quali i cosiddetti "diritti" degli
squadroni sono inviolabile asse di riferimento per tutte le altre
società. In chiave di cieca sudditanza, si intende. Con relativo
adeguamento a una non provata, ma molto presunta logica
spartitoria che in questi ultimi anni alternerebbe i titoli
nazionali e i piazzamenti validi per le coppe, obbedendo a un’ottica
assolutistica priva di qualsiasi compromesso con le regole
meritocratiche dello sport.
E’ quanto sarebbe successo negli ultimi tre
tornei di serie A, con scudetto finito nel’ 98 alla Juve (e non
all’Inter, brutalizzata a Torino nella sfida decisiva), nel ’99
al Milan (e non alla Lazio, superata in una volata a due viziata
da qualche ombra pesante), e nel 2000 alla Lazio (e non alla Juve,
finita nel trabocchetto della partita di Perugia, prolungata dalla
pioggia e dall’arbitro Collina). Per quanto riguarda il 2001,
possono già fare testo certe pubbliche dichiarazioni di Francesco
Sensi, presidente della capolista Roma, preoccupato di avere il
via libera, per un trionfo annunciato, nelle ipotetiche stanze dei
bottoni dove tutto si deciderebbe sulle patrie sorti del calcio.
Da
ciò consegue, almeno a livello percettivo, una sorta di
imbalsamazione di certi valori acquisiti, con annesso svuotamento
del reale senso agonistico delle due principali competizioni: il
campionato e la Coppa Italia. Le quali finiscono con il consegnare
all’Europa formazioni migliori "a priori", per i soldi
che hanno in cassa, per le azioni che muovono, e per l’audience
che attirano, con opulenti sponsor al seguito. In un’ottica
così snaturata gli arbitraggi, le polemiche, i veleni, e le
parvenze di inchieste ora in corso e ora insabbiate, non fanno
altro che perpetuare la sensazione di un copione prestabilito, all’interno
del quale si contemplano come uniche eccezioni possibili, e
riconosciute come fisiologiche, i casi di squadre divenute "motu
proprio" ingovernabili, come ad esempio l’Inter di Moratti
(recuperabile, ben che vada, in zona Uefa) e il Napoli della
strana coppia Corbelli-Ferlaino, forse condannata alla serie B
anche se dovesse intercedere a suo favore un miracolo di San
Gennaro.
Per il resto, dalla zona scudetto a quella
retrocessione, passando per Uefa e Intertoto, tutto sembrerebbe
obbedire alle intoccabili gerarchie che assegnano titoli,
qualificazioni e salvezze. Con un vizio di fondo che assume forme
ancora più evidenti in occasione della Coppa Italia,
manifestazione limitata alle serie A e B più le dodici migliori
piazzate della C, e giocata quasi con sufficienza dalle
"big", salvo poi accorgersi, diciamo dai quarti di
finale in avanti, che magari è diventata l’ultima spiaggia per
un posto in Europa. Ciò a volte succede troppo tardi (vedi la
vittoria del Vicenza, nel 1997), ma senza comunque sgarrare dalla
serie A come "classe" di appartenenza dei vincitori. Il
solo Napoli se la aggiudicò, nel 1962, militando in serie B.
La funzione di esame di riparazione per gli
squadroni condanna ineluttabilmente la coppa nazionale a stadi
semivuoti, e a livelli di share televisivo quasi sconsolanti.
Diverso sarebbe il discorso se in Italia si applicasse il medesimo
modello, aperto e con eliminazione secca, in vigore in
Inghilterra, Germania e Francia. Ciò significa partecipazione
estesa alle divisioni del calcio dilettantistico, con naturale
coinvolgimento di tutti i tifosi del Paese. A maggior ragione se
poi le "squadrette" hanno da esaltarsi con la
formula-lotteria della partita secca, magari da giocare in casa
propria, sfruttando in modo "estremistico" i vantaggi
del fattore campo.
Un
anno fa, grazie a questo modello, nacque la leggenda del Calais,
piccola società di dilettanti francesi approdata alla finale
della Coppa di Francia, persa al 90° su rigore contro il Nantes,
dopo avere superato squadre professionistiche di nome Cannes,
Strasburgo e Bordeaux (allora campione di Francia in carica)! Lo
stesso miracolo va ora ripetendosi per gli inglesi del Wycombe, la
cui vittoria ai quarti di finale, sul campo del Leicester,
possiede elementi così strabilianti da sembrare quasi
incredibile. Valga su tutti il gol decisivo, segnato al 92°, dall’attaccante
ghanese Essandoh, disoccupato fino a dieci giorni prima dopo una
fallimentare stagione in Finlandia, e assoldato dai Wanderers,
rimasti privi di punte, tramite un s.o.s. calcistico lanciato via
internet.
Mentre, da oggi all’8 aprile, ci sarà da
sognare nuove follie assieme agli eroi del Wycombe, risulta
addirittura impensabile immaginare analoghi momenti di gloria per
italici "Wanderers" che giocano con le maglie di
formazioni chiamate Tricase, Nardò, Viribus Unitis, Puteolana,
Fanfulla e Poggese. No, sembra proprio non esserci posto per una
finale Juventus-Torres in un Paese dove la Lazio può prima
vincere lo scudetto schierando irregolarmente per tutto il
campionato un fuoriclasse di nome Sebastian Veron, e poi trovare
avvocati difensori che, dalle colonne dei più letti giornali
nazionali, la rassicurano con frasi tipo "La Lazio rischia al
massimo una penalizzazione o forte multa, ma non la perdita del
titolo, non essendoci stato ricorso di una contendente nei
quindici giorni immediatamente successivi alla fine di quel
campionato…". No, teniamoci rigorosamente per il Paese dei
sogni una finale di coppa Milan-Giulianova. Vinta ai rigori dal
Giulianova, si capisce.
Stefano Ferrio |