Pochi gol, partite noiose,
botte e nervosismi, vecchi schemi, supersquadre in affanno e
provinciali corsare. Anche in Francia e in Italia, che almeno
presentano nazionali decenti. Gli altri Paesi? Vincono nelle Coppe
europee, ma Bayern e Leeds giocano a chi fa il catenaccio più
efficace e il Brasile punta ancora sul vecchio Romario. Insomma
sempre più soldi e sempre meno calcio vero. Colpa del "tutto-e-subito"
che impera per garantire tv assatanate, sponsor e calendari
isterici
Più li fai, e più i conti non tornano.
Cominciamo dalla Francia. Improvvisamente, dopo un albo d’oro
semideserto per un secolo, diventa campione del mondo nel 1998, e
campione d’Europa nel 2000. Si consacra così nella storia del
calcio come autrice di uno "slam", mondiale più
europeo, riuscito solo alla Germania di Muller e Beckenbauer (in
senso inverso, perché vinse prima il titolo continentale, e poi
quello iridato) nel 1972 e nel 1974.
E’ dunque una Francia che "tremare il
mondo fa", neanche fosse quel leggendario Bologna per il
quale negli anni ’30 fu coniato il celeberrimo detto. Ma è
nello stesso tempo, questa del 2001, una Francia poco diversa,
appena un po’ più nobile, quanto a produzione interna di
football, della Francia di venti, trenta, quarant’anni fa, quasi
sempre destinata a ruoli di damigella d’onore perfino quando
giocava Michael Platini, grazie al quale (complice una papera del
portiere spagnolo Arconada) vinse, e in casa propria, solo il
titolo europeo del 1984.
Oggi ai transalpini bastano i fuoriclasse
ingaggiati all’estero per furoreggiare in modo quasi irridente
in tutte le passerelle, ufficiali o amichevoli, riservate alle
nazionali, oscurando i limiti di una Premiere Division dove, a
parte un pugno di "big" con i loro naturali alti e
bassi, il livello medio compete con la serie B italiana. Non a
caso, anche se ciò fa terribilmente piacere agli amanti del
calcio di provincia, in queste due ultime stagioni sono
puntualmente giunte alla finale di Coppa di Francia formazioni
dilettantistiche da purissimo palla lunga e pedalare: il Calais
nel 2000, l’Amiens (che potrebbe addirittura vincere la finale
contro il disastrato Strasburgo, neoretrocesso in B) nel 2001. E
non a caso il neopromosso Lilla ha conteso l’attuale scudetto a
Nantes e Lione fino a tre giornate dal termine del campionato.
Né finisce qui. Sempre questa Francia si avvia
a partecipare ai Mondiali 2002 di Seoul e Tokyo con le stimmate
della favorita, non scorgendosi nell’attuale panorama dei cinque
continenti una nazionale in grado di fronteggiare sulla carta uno
squadra con due stelle splendenti al pari di Zidane e Thuram,
circondate da un così solido collettivo, dall’elevato tasso
tecnico. A dire il vero, se ne intravede una, ed è proprio l’Italia
appena presa in dote dal ct Giovanni Trapattoni, dopo la sconfitta
patita alla finale europea di Amsterdam, sotto la precedente guida
di Dino Zoff, solo per l’indimenticabile golden gol segnato ai
supplementari dal francese Trezeguet. Con la quale Italia il
discorso incominciato dalla Francia non può che proseguire,
rivelando una sua inattaccabile coerenza. Trattasi infatti della
medesima Italia calcistica che a livello di club, una volta finito
il glorioso ciclo del Milan di Sacchi (e Capello), con la
Champions League vinta nel 1994 ad Atene contro il Barcellona, ha
cominciato a scivolare lungo la china di un declino inesorabile,
intervallato dalla Champions juventina del ’96, dall’ultima
Coppa delle Coppe della storia, conquistata dalla Lazio nel ’99
(con conseguente Supercoppa strappata al Manchester United), e
dalle due Uefa arrise a Inter e Parma negli anni 1998 e ’99.
Le stagioni di coppe conclusesi nel 2000 e nel
2001 sono state addirittura catastrofiche, con finali
rigorosamente negate al made in Italy ed edizioni in corso di
Champions’ e Uefa giunte alle semifinali senza alcuna squadra
della nostrana serie A. A fronte di questa prolungata Caporetto
sul versante dei club, si erge come recente contraltare la
parziale rinascita di una nazionale azzurra che, dopo gli
sconquassi provocati dalla conduzione di Cesarone Maldini, ha
ripreso ad assumere autorevolmente quel ruolo da protagonista già
rivestito negli anni ’80 e ’90 con Bearzot, Vicini e Sacchi in
panchina. Forte in difesa, dignitosa in mezzo (il punto debole),
assolutamente inimitabile in attacco, dove nel 2002 qualcuno fra
Vieri Totti Inzaghi Montella Chiesa Del Piero e Roberto Baggio
dovrà essere lasciato a casa dal Trap (!), quest’Italia può
oggi mettere sotto qualsiasi altra nazionale, Francia compresa. A
testimonianza di ciò, all’argento europeo del 2000, il
neocommissario tecnico ha subito aggiunto una confortante striscia
di vittorie, unite a ragguardevoli prestazioni corali, così come
il suo collega Claudio Gentile sembra avere perfettamente
ereditato da Marco Tardelli una Under diventata campione d’Europa
non più tardi di un anno fa.
Ma, come asserito all’inizio, i conti non
tornano. A parte il colore delle divise, quasi identico, gli
azzurri italiani e i blues transalpini si avvicinano infatti ai
primi mondiali d’oriente accomunati anche da ruoli di favorite
per nulla coerenti al calcio attualmente praticato in Italia e in
Francia. Dove non sembrano un caso, bensì un segno dei tempi, i
titoli nazionali ormai vicini a una Roma cacciata fuori ai quarti
della Uefa da un Liverpool appena discreto (sta faticando a
qualificarsi per la Champions’ in una Premiere League dove cede
il passo perfino all’Ipswich), e a un Nantes che dovrebbe
dannarsi per superare l’attuale Piacenza allenato da Novellino,
rispettabile capolista della serie B italiana.
Ché in realtà, ed ecco i conti cominciare
tristemente a tornare, questo Piacenza "brutto sporco e
cattivo" di Ramon Novellino (tanto per usare una metafora
ereditata dal western all’italiana) si ritrova poco da imparare,
e caso mai molto da insegnare, nel calcio contemporaneo. Vedi il
Bayern Monaco, destinato a eliminare il Real Madrid dalla finale
della Champions’ praticando un football di noia devastante, puro
catenaccio con tre palle a partita lanciate verso le punte Elber e
Jancker. Vedi il Brasile, ancorato alle reti del trentacinquenne
Romario (suo il pari siglato contro il Perù, ala maracanà!) per
arrabattarsi al quarto posto del girone sudamericano di
qualificazione ai mondiali. Vedi la simpatia straordinaria di un
Alaves che si gioca la Uefa contro il Liverpool grazie all’abilità
dimostrata nell’assemblare presunti campioni come Jordie Cruijff
mandati a "rottamare" dagli squadroni spagnoli. Vedi le
imprese internazionali ripetutamente compiute da un Galatasaray
che, con tutto il bene che si può volere all’entusiasmo del
calcio turco, si è affidata per vincere anche al talento di un
nonno come il romeno Hagi, sfruttato fino alla soglia del ritiro.
Vedi le fortune europee di una squadra inglese come il Leeds,
difensivista che sembra allenata dall’Oronzo Pugliese, mago
anti-retrocessioni dei nostri più operai anni ’60. Dovesse
giocarsi la Champions’ in finale con il Bayern, si rischierebbe
di andare ai rigori sullo zero a zero e con tre tiri in porta per
squadra.
Meglio fermarsi qui. Perché se in qualche modo
tornano, i conti di questo calcio dopato, iperpagato,
istericamente sponsorizzato, gonfiato dalla Tv, e costretto a
turnover massacranti di partite divise fra campionati, coppe e
nazionali, lo fanno nel senso di un’inevitabile improvvisazione
dettata dai tempi frenetici di un sistema dove imperano
comandamenti agonistico-economici come il "tutto e
subito", il "primo non prenderle", il "palla
lunga (picchiare) e pedalare", "la legge del più
ricco" (e non del più forte), il dilagante "tre-cinque-due"
inventato per mascherare il più delle volte un opprimente "cinque-cinque-uno"
dove quell’"uno" deve prima di tutto saltare e
afferare la palla sul rinvio del proprio portiere (per far salire
la squadra, si dice). E, "dopo", può anche segnare.
Stefano Ferrio