I vu’cumprà
di Piazza Affari
Nel 2000 hanno
detto sempre di comprare. Vendere? Mai. Ma le Borse sono
precipitate e i risparmiatori hanno perso interi capitali.
Così negli Usa sta addirittura indagando una commissione
statale. Perché quello del conflitto d’interessi fra gli
analisti di Borsa sta diventano un vero problema. Motivo:
parlare bene di un’azienda muove soldi e fa diventare ricche
le società di intermediazione per cui lavorano. Anche in
Italia
Un
argomento pericoloso. Tanto da far muovere perfino il
congresso degli Stati Uniti che ha messo in piedi una apposita
commissione di indagine. Motivo: scoprire come mai l’anno
scorso fra le previsioni degli analisti di Borsa e il reale
andamento delle quotazioni ci sia stato un abisso. In parole
povere mentre la stragrande maggioranza degli analisti
consigliava di comprare strizzando l’occhio con aria furba
("Strong buy, mr. Smith…", "Comprare,
comprare, signor Smith…"), il Nasdaq, l’indice dei
titoli hi-tech, precipitava con un botto lasciando sparso per
il terreno quasi il 60 per cento del valore. Una gaffe
madornale costata miliardi di dollari. O forse qualcosa di
peggio di una gaffe?
Il problema in fondo è
semplice, due paroline che noi italiani conosciamo fino alla
noia: conflitto di interessi. Piccolo esempio raccontato in un
articolo di Abcnews: Tom Brown, per anni uno dei migliori
esperti di Borsa americani, ha perso il lavoro perché lui,
uno dei pochissimi, nel 2000 consigliò ai suoi clienti di
vendere. Aveva ragione, ma le società quotate in Borsa delle
sue analisi ora non ne vogliono più sapere. Un paradosso
chiaro come il sole: fare analisi sempre positive significa
portare denaro. Molto denaro. Quasi banale: una previsione
buona porta investimenti, una cattiva no. Per Brown fare
brillanti rapporti su una certa azienda aiuta ad avvicinare le
società di intermediazione (di cui gli stessi analisti fanno
parte) alle aziende stesse. "Parlare positivamente di una
compagnia o di un settore serve da traino - ha spiegato Brown
– Così la società di intermediazione ha più possibilità
di mettersi in affari con quella stessa compagnia".
Possiamo dire così: nelle Borse (nessuna esclusa) si sente
solo il consiglio di comprare e quasi mai quello di vendere.
Ma allora che razza di mercato è? O meglio: dov’è il
trucco?
Da qui la necessità di una
commissione d’inchiesta, per capire fin dove arriva questo
conflitto di interessi fra analisti-società intermediarie e
aziende. E stabilire degli standard in grado di evitare l’eccesso
di "Buy, mr. Smith", quando il mercato suggerirebbe
l’inverso. "Quello che ci aspettiamo è che gli
analisti facciano analisi – ha commentato il presidente
della sottocommissione governativa Usa responsabile dell’inchiesta
– Non che facciano i rappresentanti…".
A dire il vero nemmeno i grandi
nomi di Wall Street sono rimasti a guardare. Le 14 maggiori
società riunite nella Security Industry Association hanno
redatto una specie di "manuale del buon analista".
Dove fra le altre cose chiedono che non ci siano legami
diretti fra le società di intermediazione e gli analisti (ad
esempio una percentuale per ogni transazione portata a
termine). I più l’analista deve anche dire chiaramente se
possiede o meno azioni di quella società.
Belle parole. Ma quello
restano. Per questo forse c’è chi ironizza: ora che la
commissione comincia ad indagare, è il sospetto, ecco che le
industrie se ne vengono fuori con un codice di
autoregolamentazione. Tanto per mettere le mani avanti. E a
dirlo non è un comitato di piccoli risparmiatori, ma Arthur
Levitt, ex presidente della Security and exchange commission.
Insomma se non è un conflitto d’interessi, è una cosa che
gli assomiglia molto.
Va bene, questo negli Stati
Uniti. E da noi Piazza Affari è un cristallo? Uno specchio di
virtù? No, stesso problema. Come scrive sul Il Sole 24 Ore
del febbraio scorso Guido Plutino: "In sintesi i termini
del problema ricordano la storia dell’oste, al quale è
ingenuo chiedere se il vino è buono dal momento che si trova
lì per venderlo. La questione riguarda l’esistenza di
conflitti di interessi non dichiarati. In molti casi gli
analisti fanno parte di gruppi che svolgono anche attività di
intermediazione e partecipano ai collocamenti. Capita dunque
che esprimano giudizi su azioni che si trovano nel portafoglio
del loro gruppo o dei quali partecipano al collocamento".
In pratica le stesse cose che
hanno costretto la commissione Usa ad indagare: "Sul
banco delgi imputati – continua Plutino – si trovano in
particolare i target price (cioè gli obbiettivi di prezzo
giudicati coerenti con le prospettive delle aziende). Questi,
in molti casi, non solo si sono discostati sensibilmente dall’andamento
dei titoli ai quali si riferivano, ma essendo talvolta
espressi da parti in qualche modo coinvolte hanno portato
molti a gridare che il re è nudo".
Esempi? Tantissimi. Su tutti
Tiscali: prezzo fissato (dopo il frazionamento della società)
di 150 euro da Abn Amro e Banca Leonardo con tanto di
consiglio di comprare, prezzo attuale sui 20 euro. Oppure
e-Biscom: Merril Linch e molte altre sparano il loro "buy"
con un prezzo di 250 euro, dimezzato nella realtà fino a 114.
E così molte altre, scatenando nei piccoli risparmiatori
riprovevoli desideri di giustizia sommaria. Economica, per
carità, tipo "da voi non vengo più".
Così
stesso problema, stessa necessità di fare pulizia. La Consob,
l’istituzione che controlla la correttezza della Borsa, ha
modificato il Regolamento intermediari anche con una serie di
raccomandazioni (ma sono previste sanzioni o sono solo
consigli?). Tipo la trasparenza sui rapporti fra l’analista
e le società che promuove, di qualsiasi genere siano; o
riportare i giudizi precedenti su quel titolo per un tempo
sufficiente, per capire così se la valutazione era onesta o
forzata. D’accordo anche gli analisti sulla "glastnost"
dei conflitti d’interesse. In più chiedono il
riconoscimento della figura professionale dell’analista.
Ma bastano un po’ di
"raccomandazioni"? E’ la solita storia dell’autoregolamentazione,
del "mercato che si regola da solo"? L’impressione
per ora è quella. Come negli Usa, è un gioco fra chi non
vorrebbe controlli confidando nella forza della "libera
concorrenza" e chi pensa che senza un codice penale anti
furbi sia tutto inutile. "Analyzing the analist" l’hanno
chiamata quella commissione statunitense: "Analisi degli
analisti". Bel nome, potrebbe servire anche qui in
Italia. Ma, per favore, non con l’ennesima inutile
commissione parlamentare, Anche perché da quelle parti, leggi
Palazzo Chigi, non riescono a risolvere nemmeno un conflitto d’interessi
da Guinness dei primati.
Alessandro Mognon
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