Otto ore a Venezia fra i
padiglioni della grande mostra di arte contemporanea e le
vecchie calli. Un mix di electronic art e palazzi
seicenteschi, panchine vere e immondizie finte. Per scoprire,
alla fine, che la pittura non esiste più
Ore 10.00, Venezia: scendo dal traghetto a
Giardini di Castello e vedo la biglietteria della Biennale
deserta mentre mi aspettavo la solita fila. Il biglietto
intero costa 25mila lire, quello ridotto15mila (fortuna!!
Rientro nel ridotto). Mi addentro nei vialetti e scorgo i
primi visitatori sparpagliati tra i padiglioni: niente
comitive, tanti single, molte coppie under 30, parecchi
giovani. Mi attrae subito il padiglione pubblicitario della
Telecom, uno degli sponsor ufficiali, dove nuvole in movimento
proiettate ovunque ricordano il desktop di Windows o il
paradiso della Lavazza e introducono in quello che pare essere
il leit motiv di questa biennale: la videoarte. Di arte
elettronica, animazioni, videoscultura, infatti, sono ricchi i
padiglioni di ogni nazione. Tanti
effetti speciali mi confondono... Sono a Gardaland? No, non c’è
Prezzemolino. In compenso però ci sono le 1000 tartarughe,
anzi 970 perché 30 sono state trafugate (per forza i book
shop non hanno niente della biennale se non i cataloghi;
nessuna locandina, non un poster...E che ti porti per ricordo?
La tartaruga di plastica dorata del Cracking Art Group di
Biella). Per gli autori, la lentezza e la saggezza di questi
cheloni millenari giunti dalla preistoria si contrappongono
alla vacuità e all’ignavia dell’uomo. A vivacizzare i
giardini ci sono anche i pavoni di Alys, metafora degli
artisti che si pavoneggiano.
I padiglioni si susseguono: entro e esco in
modo quasi spasmodico. Leggo i nomi, guardo, tocco, entro nei
possibili pseudo giochi.
In preda a un attacco di patriottismo
indugio a lungo nel padiglione italiano e chi ci trovi sulla
piattaforma del pensiero? Ma le penseur di Rodin, seduto
meditabondo circondato da opere africane, indiane, cinesi...boh...Finalmente
vedo un italiano che conosco, Mimmo Rotella: sono fiera di me
stessa perché ho individuato il suo decollage senza aver
letto prima il nome.
Basta, la voglio smettere di andare a
vanvera! Mi rovino, compro il catalogo, cioè il bignami del
catalogo, quello da 10mila lire (il catalogo vero costa
100mila…). Il caldo comincia a farsi insopportabile. A ogni
punto di ristoro mi faccio ora una Ferrarelle, ora una
diuretica Uliveto, ora una gasatissima S. Benedetto. Do una
scorsa veloce al catalogo e mi sento preparata a sentire
qualche opinione altrui: propongo piccole interrogazioni da
seconda media.
Can you tell me at least three names of the
seen artists?
Which is the work that it has hit to you more?
Marito e moglie tedeschi: "HO HO
HO" (si guardano ridendo come Babbo Natale). "I don’t
remember...works? They are too much, i don’t know"
Signora italiana più furba: "Un attimo
che guardo sul catalogo"
Io: "non vale"
"L’opera che mi ha colpito di
più?...Mah, così sui due piedi non saprei dire"
"E’ già stata all’Arsenale?"
"Sì"
"Il bambino gigante l’ ha
visto?"
"No"
(Se vai alla Biennale 2001 e non vedi l’Untitled
Boy di Ron Mueck, simbolo della sfinge maschile che soppianta
quella tradizionale femminile, o sei cieco o è come andare a
Parigi per la prima volta e non vedere la torre Eiffel).
Finalmente adocchio il pollo con la faccia
colta e col cartellino "Stampa" che penzola dal
completino nero minimalista di Gigli.
"Posso farle una domanda?"
(Vado sul concettuale)
"Cosa ne pensa di questa biennale
2001?"
"Di solito le interviste le faccio io,
in ogni modo la potrei definire la biennale delle tre
"a" atematica, asfittica, antitetica. Vuole essere
la piattaforma dell’attuale umanità e per certi versi lo
è. E’ contro la globalizzazione, vuol ripristinare le
naturali e individuali realtà spazio-temporali, ma ci riversa
addosso tonnellate di arte elettronica e animazione digitale.
E tu cosa hai notato?" mi chiede.
"Ehm, che è sparita la pittura"
"E ti dispiace"
"Un po’...non saprei più cosa
appendere alle pareti, ma forse una bella Bang of Ouflsen
piatta non sarebbe male e un proiettore a volte può far
meglio del pittore ...Ma la gente cosa compra? Dove va a
finire il mercato dell’arte?"
"Chiedilo a Szeemann"
(Non so chi sia ma faccio finta di niente,
poi sul catalogo trovo che è direttore della biennale).
Sto camminando da cinque ore senza mangiare.
I bar sembrano spariti, indicazioni zero. Vedo un gruppo di
panchine (Dio fa che non siano opere d’arte!). Mi ci butto
stremata, ma con una certa ansia: nessuno ci si siede.
Finalmente riesco a trascinarmi a una toilette. Dopo tanti
bagni finti, riprodotti nei vari padiglioni, che sembravano
farmi pssss, speriamo che questo sia vero.
Mi attirano i polacchi. Non chiedetemi
perché (si farebbe brutta figura). Trovo splendido il grande
pavimento coloratissimo di Leon Tarasewicz: calpestarlo è
quasi un sacrilegio, ma dà un estremo benessere ai piedi e
agli occhi. Poi ancora tanti altri lavori e vere e proprie
proiezioni di immagini che conquistano lo spazio per
interpretare in maniera nuova le opere del passato e in
particolare quelle di Bill Viola che rivisitano i girasoli di
Van Gogh. Cammino ancora molto, dentro e fuori: mi sembra di
essere arrivata alla fine perché c’è un ponticello con un
canale che taglia in due i giardini. Vedo sacchi di immondizia
e, dopo aver osservato quelli di Gavin Turk, il solito dubbio
atroce mi assale. Sono veri o finti? (Ho due bottigliette
vuote nello zaino, quasi ne approfitto... e se li attaccassi
con la chewingum e le lasciassi col trash?) Ma queste cose non
si devono neanche pensare.
Dopo le immondizie, si apre uno di quegli
scorci di Venezia mozzafiato, quelli che avevano incantato
Hesse. L’acqua del mare entra nel canale che taglia i
giardini. Se la fissi ti accorgi del gioco iridescente
provocato dai guizzi repentini della luce. Il riverbero è
nitido; i colori perlacei, azzurri, verdognoli. Mi guardo
intorno e mi sembra di essere nella bottega di un vetraio.
Credo che l’arte vetraria veneziana sia da ricollegare all’influenza
della laguna. Il senso di appagamento è diverso da quello
provato negli inquietanti padiglioni: questa è un’opera d’arte
che sembra appartenerti. (ma sono pensieri ottocenteschi).
Mi avvio verso l’Arsenale, imponente
complesso di cantieri, officine, depositi che ha avuto un
grande intervento di recupero in occasione della
quarantottesima esposizione internazionale d’arte. Qui il
vocabolario si arricchisce di nuovi termini: si costeggiano le
Corderie, si entra nelle Artiglierie, si parla di Gaggiandre,
grandiosi quartieri acquatici su progetto di Sansovino. Ci si
inoltra nel Giardino delle Vergini e nelle Tese
cinquecentesche. E’ bello l’Arsenale e sono frastornanti
le calli con i panni stesi che fanno tutt’uno con le
locandine della biennale. Ma le locandine dove sono? (Nessuno
le vende e come si può tornare a casa senza la locandina?).
All’Arsenale
Botto&Bruno danno forma all’ingresso delle Corderie con
le immagini delle loro tristi periferie e Joao Onofre fa
sfilare i suoi modelli che recitano una battuta tratta dal
film "Stromboli" di Rossellini, mentre Santiago
Sierra colora di giallo i capelli di duecento extracomunitari
pagandoli per la prestazione. Poi c’è la splendida
videoscultura di Lars Siltberg che lega delle sfere alle mani
e ai piedi del suo maestro di judo e lo fa rimanere in
equilibrio sul ghiaccio, in acqua e aria. Dulcis in fundo di
Nereo Rotelli mille poesie donate da artisti poeti e non poeti
di tutto il mondo affisse alle recinzioni "limite
invalicabile in ferro che creano il muro mobile della
poesia". Fernando Bandini recita "Mi hanno lasciato
solo su questa altura/che incrociavano i cervi volanti sulle
rotte/azzurre del crepuscolo dopo l’ultimo sparo".
Mi pare bello chiudere, con questi versi, la
visita alla Biennale.
Cammino ormai da otto ore ma ce la faccio a
arrivare a S. Marco a salutare i piccioni, poi alla ferrovia.
Mentre la macchinetta della stazione mi frega le 2500 lire
dell’ultima Ferrarelle annunciano il treno in partenza. È
un Intercity, non ho il supplemento (chissenefrega?!).
Ho uno scompartimento vuoto, un sogno, mi ci
chiudo. L’aria condizionata mi sta creando un ambiente da
permagelo. Sono stanchissima e comincio a vedere muschi,
licheni e renne.
A Mestre sono già un Findus.
mcp