L’età dell’anima
C’è l’infanzia, l’adolescenza,
la gioventù, la vecchiaia. Ma c’è anche un altro periodo
della vita: quello in cui, anche per pochissimo tempo, un uomo
normale per amore diventa un vero poeta
Vincenzo
Esposito, La quinta stagione dell’anno, Avagliano Editore,
pp.218, L.22.000
Quale
potrebbe mai essere "la quinta stagione dell’anno"?
Cosa rappresenta quest’ineffabile intervallo di tempo di cui
parla una poesia della Achmatova e che Vincenzo Esposito ha
preso a prestito per dare un titolo straniante al suo secondo
romanzo? Poco importa che la poetessa russa con tale
espressione sembri alludere ai giorni senza fretta della
vecchiaia, dove l’uomo "respira l’ultima
libertà". Ed è parimenti riduttivo prendere alla
lettera le parole dell’io narrante del libro di Esposito
quando definisce come quinta stagione una sorta di
doppia primavera senza fine che il proprio genitore avrebbe
conosciuto in gioventù, durante le prime fasi d’un
innamoramento destinato a durare tutta una vita e che lo aveva
trasformato in poeta solo per una breve, interminabile
stagione: la quinta dell’anno, appunto.
Il lettore non
si lasci quindi tentare dall’urgenza di definire
esaustivamente tale immaginario lasso temporale (o, forse
meglio, atemporale) e si gusti questo romanzo dal tono
garbato, lieve e davvero primaverile intorno all’amore e
alla poesia; intorno alle intermittenze del cuore, ai ricordi
ed alla rievocazione d’un passato recente: quello dell’Italietta
fascista durante gli anni trenta (per la precisione il 1930)
in cui è ambientato questo insolito romanzo di formazione
sentimentale. Anche se la voce narrante descrive la figura del
padre mediante un’altalena temporale in cui la ricostruzione
di quegli anni grami che preluderanno alla tragedia della
guerra è compiuta attraverso salti cronologici in avanti e
suggestivi flash back che vivacizzano la narrazione in barba a
qualunque ordine cronologico.
Poiché, si
diceva, ciò che preme ad Esposito è far gustare al lettore
la magia della quinta stagione in cui un uomo qualunque
(impiegato presso un pastificio) diviene "veramente un
poeta", anche se in seguito "per tutto il resto
della vita non compose più poesie". Anzi, venuta meno la
moglie, l’anziano genitore distrugge quella breve raccolta
di versi scritti su un quaderno a quadretti, giacché quelle
liriche avevano senso in quanto testimoniavano d’un amore
"che ormai apparteneva unicamente a lui e perciò voleva
conservarlo soltanto nel segreto della sua anima". E’
infatti questa la cifra discreta di questo romanzo: un’estrema
pudicizia nel trattare con assoluta delicatezza e devozione
sentimenti come l’innamoramento prima, l’affetto coniugale
poi, senza che la narrazione risulti mai banale o sopra le
righe. Quindi ha un suo fascino sottile questa storia di gente
semplice; questo racconto di vicende quotidiane sul cui sfondo
Esposito non dimentica di tratteggiare un più ampio affresco
generale, che coglie lo stridente contrasto fra proletari alle
prese col problema di mettere insieme il pranzo con la cena e
piccolo-borghesi spocchiosi ma servili coi gerarchi in camicia
nera.
Ma nonostante
vengano sfiorati temi drammatici (vedi l’attentato alla Casa
del Fascio) il registro stilistico è sempre all’insegna d’una
scrittura di grande levità. Talvolta si ha l’impressione
che l’autore abbia optato per una prosa in grado di rendere
quasi palpabile la gioia sottile per le piccole/grandi cose
della vita: un incontro fuggevole con una bella donna, la sana
stanchezza dopo una giornata operosa, una risata che esorcizzi
ogni dispiacere. E sono felici immagini d’un tempo che non
è più: di attività ormai passate di moda (come il ricamo in
compagnia), di idilli sognati, d’innamoramenti vissuti a
livello fantastico o esplicitati solo attraverso uno sguardo.
Così Esposito
ripercorre l’esistenza di questo poeta per una sola, ma
eccezionale primavera. Poiché la quinta stagione dell’anno
pare sì interminabile a chi la vive, tuttavia essa ha pur
sempre una durata. Così il padre del narratore, tornato all’improvviso
consapevole di come il tempo sia trascorso, si sente di colpo
"più vecchio e disincantato". Per cui la poesia che
egli scrive in una notte di tristezza e agnizioni introduce
nel canzoniere "un velo di malinconia" con cui il
romanzo si chiude.
Francesco Roat
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