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redarrowleft.GIF (53 byte) Varie Sport Luglio  2001
 

Calciatori, il reggae vi seppellirà

E’ già un pallone avvelenato, svenduto, miliardario e ipersponsorizzato. Ora il colpo di grazia: forse vedremo i Mondiali 2002 solo a pagamento. Perché il magnate tedesco Leo Kirch ha comprato tutti i diritti tv. E li vende a cifre folli. Insomma anche qui c’è aria da globalizzazione selvaggia. Allora mentre il football si suicida meglio approfittarne. E fare come faceva Bob Marley, tra uno spinello e un concerto: giocava a calcio con gli amici. E si divertiva moltissimo

Leo Kirch "oscura" i Mondiali del 2002, riservandoli agli abbonati delle pay-tv? Seguiremo i campionati in programma in Giappone e Corea del Sud solo attraverso i tg, a parte gli incontri dell’Italia e le finali, trasmesse per tutti in nome del cosiddetto "interesse pubblico"? Non resta che ricordare Bob Marley. Il quale suonava, cantava, amava, fumava erba, e giocava a calcio. Anche nelle pause fra una prova e un concerto, come avvenne quella famosa volta che venne in tournée a Milano. Mentre aspettava di esibirsi davanti a ottantamila che provavano a essere più fumati di lui, "spallonava" felice sul prato di San Siro assieme ad amici e compagni di musica. Mi viene da rammentarlo sempre più spesso, in un presente che per il calcio non smette di essere triste, avvelenato, venduto, e privo di poesia.

In fondo questo herr Kirch, magnate tedesco delle telecomunicazioni, pronto a fare dei Mondiali asiatici l’Affare della sua vita, dopo essersi assicurato i diritti in esclusiva delle telecronache, altro non fa che mollare il colpo di grazia a un sistema del pallone già ampiamente degenerato, infetto, e gravido di incognite funeree. Se, raggiunto da notizie del genere, voglio ricordare Bob Marley, è perché il re del reggae resta uno dei pochi, spendibili profeti di una giovane e democratica umanità che in questi di G8 giorni interroga il mondo su quale futuro abbracciare, di fronte agli orizzonti obbligati imposti dalla ferrea logica di mercato così cara alle multinazionali. Che non sono probabilmente il Regno del Male, come qualcuno tende a concludere, ma sono destinate a diventarlo in breve tempo, se globalizzazione significherà sopraffazione del più piccolo a opera del più grande e potente.

Uno che di questa battaglia ha fatto una ragione di vita è Manu Chao. Anche lui "musicista totale" come Marley. Anche lui artista dell’Utopia che, seppur sotto contratto per una multinazionale discografica di nome Virgin, inonda il mercato di profonde e rigeneranti scosse multietniche. Anche lui pazzo per un calcio che ha giocato e ha amato senza mai risparmiarsi, soprattutto in strade e piazze importanti quanto gli stadi nel raccontare l’unicità di questo sport, semplice e universale come nessun altro.

Calcio, ovvero Musica. Nel momento in cui, con tutto il rispetto per le leggi del business, Zinedine Zidane si avvia a prendere la via di Madrid per 160 miliardi di lire, e squadre come Fiorentina Bologna e Napoli (non stiamo parlando di provinciali, ma di "grandi" del calcio italiano) sopravvivono a se stesse come dorati parcheggi dove Roma, Inter, Juventus e Parma possono sistemare i pezzi di ricambio delle loro rose di giocatori, c’è davvero bisogno di una Musica in grado di sostenerci con la sua forza e la sua bellezza. Un qualcosa che vada al di là delle serpentine e degli assist dello stesso Zidane, o delle invenzioni di Totti, o delle zuccate di Batistuta, per rammentarci che questa grandezza poetica del calcio non è (per il momento) riducibile solo agli zeri di un contratto, alle clausole di una sponsorizzazione, alle polemiche di una moviola.

C’è "ancora", nel suono debordante di un reggae, o nelle anarchiche filastrocche di Manu Chao, un calcio che giocosamente resiste alle avide angherie di certi procuratori, agli eccessi pretesi e ottenuti dal calciatore-testimonial, alle smanie di potere da cui sembrano accecati i presidenti e i direttori generali di troppe squadre importanti. Ancora si avverte nell’aria la magia di un pallone che comunque rotola verso le due porte improvvisate dalla fantasia in un qualsiasi, invisibile angolo di mondo. Ancora si può restare dolcemente fulminati dall’impeto di uno stadio che esulta per un gol al 90°.

Tutto questo è vero, a patto di aggiungere un doveroso "Fino a quando?". Perché se qualcosa resiste, l’impressione è che molto di più sia già perduto. E che questo invasivo e devastante moto di spoliazione del calcio inteso come gioco, ancora prima che come sport, proseguirà inarrestabile fino alla distruzione totale. All’apocalisse. Alla tabula rasa su cui diventa impossibile erigere nuove fondamenta. In effetti, di fronte a una così realistica prospettiva, serve davvero augurarsi che il signor Leo Kirch trovi un’economica via della redenzione, magari favorita dal populismo di qualche accordo dell’ultima ora fra governi Tv di stato e Fifa? O non è meglio considerare già adesso una soluzione del genere come un inaccettabile compromesso, utile solo a rinviare di quattro anni la catastrofe, e a renderla meno indigesta all’umanità nel 2006, quando i Mondiali avranno come teatro la stessa Germania di cui Kirch è uno dei principali contribuenti?

L’atteggiamento giusto sembra proprio quest’ultimo. Ovvero la presa di coscienza immediata del problema. E della necessità di risolverlo senza limitarsi a fare gli spettatori. Bisogna per lo meno cantare e ballare al ritmo di Bob Marley e Manu Chao. Prepararsi a scendere in strada per il calcio, con la stessa passione che muove l’interetnico popolo di Seattle verso le metropoli scelte per i summit del G8. Mettendo in campo fantasia e senso della storia. Quanto a soluzioni pratiche, non è facile individuare quelle da cui partire. Forse battersi per un’annuale Giornata mondiale del calcio, in cui riappropriarsi della poesia di un pallone che rotola come un reggae, è un’idea che vale la pena discutere. Calcio e musica, esatto. Anzi, Calcio "è" Musica. Vero, Bob?

Stefano Ferrio

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