Calciatori, il
reggae vi seppellirà
E’ già un
pallone avvelenato, svenduto, miliardario e ipersponsorizzato.
Ora il colpo di grazia: forse vedremo i Mondiali 2002 solo a
pagamento. Perché il magnate tedesco Leo Kirch ha comprato
tutti i diritti tv. E li vende a cifre folli. Insomma anche
qui c’è aria da globalizzazione selvaggia. Allora mentre il
football si suicida meglio approfittarne. E fare come faceva
Bob Marley, tra uno spinello e un concerto: giocava a calcio
con gli amici. E si divertiva moltissimo
Leo
Kirch "oscura" i Mondiali del 2002, riservandoli
agli abbonati delle pay-tv? Seguiremo i campionati in
programma in Giappone e Corea del Sud solo attraverso i tg, a
parte gli incontri dell’Italia e le finali, trasmesse per
tutti in nome del cosiddetto "interesse pubblico"?
Non resta che ricordare Bob Marley. Il quale suonava, cantava,
amava, fumava erba, e giocava a calcio. Anche nelle pause fra
una prova e un concerto, come avvenne quella famosa volta che
venne in tournée a Milano. Mentre aspettava di esibirsi
davanti a ottantamila che provavano a essere più fumati di
lui, "spallonava" felice sul prato di San Siro
assieme ad amici e compagni di musica. Mi viene da rammentarlo
sempre più spesso, in un presente che per il calcio non
smette di essere triste, avvelenato, venduto, e privo di
poesia.
In fondo questo herr Kirch,
magnate tedesco delle telecomunicazioni, pronto a fare dei
Mondiali asiatici l’Affare della sua vita, dopo essersi
assicurato i diritti in esclusiva delle telecronache, altro
non fa che mollare il colpo di grazia a un sistema del pallone
già ampiamente degenerato, infetto, e gravido di incognite
funeree. Se, raggiunto da notizie del genere, voglio ricordare
Bob Marley, è perché il re del reggae resta uno dei pochi,
spendibili profeti di una giovane e democratica umanità che
in questi di G8 giorni interroga il mondo su quale futuro
abbracciare, di fronte agli orizzonti obbligati imposti dalla
ferrea logica di mercato così cara alle multinazionali. Che
non sono probabilmente il Regno del Male, come qualcuno tende
a concludere, ma sono destinate a diventarlo in breve tempo,
se globalizzazione significherà sopraffazione del più
piccolo a opera del più grande e potente.
Uno che di questa battaglia ha
fatto una ragione di vita è Manu Chao. Anche lui
"musicista totale" come Marley. Anche lui artista
dell’Utopia che, seppur sotto contratto per una
multinazionale discografica di nome Virgin, inonda il mercato
di profonde e rigeneranti scosse multietniche. Anche lui pazzo
per un calcio che ha giocato e ha amato senza mai
risparmiarsi, soprattutto in strade e piazze importanti quanto
gli stadi nel raccontare l’unicità di questo sport,
semplice e universale come nessun altro.
Calcio,
ovvero Musica. Nel momento in cui, con tutto il rispetto per
le leggi del business, Zinedine Zidane si avvia a prendere la
via di Madrid per 160 miliardi di lire, e squadre come
Fiorentina Bologna e Napoli (non stiamo parlando di
provinciali, ma di "grandi" del calcio italiano)
sopravvivono a se stesse come dorati parcheggi dove Roma,
Inter, Juventus e Parma possono sistemare i pezzi di ricambio
delle loro rose di giocatori, c’è davvero bisogno di una
Musica in grado di sostenerci con la sua forza e la sua
bellezza. Un qualcosa che vada al di là delle serpentine e
degli assist dello stesso Zidane, o delle invenzioni di Totti,
o delle zuccate di Batistuta, per rammentarci che questa
grandezza poetica del calcio non è (per il momento)
riducibile solo agli zeri di un contratto, alle clausole di
una sponsorizzazione, alle polemiche di una moviola.
C’è "ancora", nel
suono debordante di un reggae, o nelle anarchiche filastrocche
di Manu Chao, un calcio che giocosamente resiste alle avide
angherie di certi procuratori, agli eccessi pretesi e ottenuti
dal calciatore-testimonial, alle smanie di potere da cui
sembrano accecati i presidenti e i direttori generali di
troppe squadre importanti. Ancora si avverte nell’aria la
magia di un pallone che comunque rotola verso le due porte
improvvisate dalla fantasia in un qualsiasi, invisibile angolo
di mondo. Ancora si può restare dolcemente fulminati dall’impeto
di uno stadio che esulta per un gol al 90°.
Tutto questo è vero, a patto
di aggiungere un doveroso "Fino a quando?". Perché
se qualcosa resiste, l’impressione è che molto di più sia
già perduto. E che questo invasivo e devastante moto di
spoliazione del calcio inteso come gioco, ancora prima che
come sport, proseguirà inarrestabile fino alla distruzione
totale. All’apocalisse. Alla tabula rasa su cui diventa
impossibile erigere nuove fondamenta. In effetti, di fronte a
una così realistica prospettiva, serve davvero augurarsi che
il signor Leo Kirch trovi un’economica via della redenzione,
magari favorita dal populismo di qualche accordo dell’ultima
ora fra governi Tv di stato e Fifa? O non è meglio
considerare già adesso una soluzione del genere come un
inaccettabile compromesso, utile solo a rinviare di quattro
anni la catastrofe, e a renderla meno indigesta all’umanità
nel 2006, quando i Mondiali avranno come teatro la stessa
Germania di cui Kirch è uno dei principali contribuenti?
L’atteggiamento
giusto sembra proprio quest’ultimo. Ovvero la presa di
coscienza immediata del problema. E della necessità di
risolverlo senza limitarsi a fare gli spettatori. Bisogna per
lo meno cantare e ballare al ritmo di Bob Marley e Manu Chao.
Prepararsi a scendere in strada per il calcio, con la stessa
passione che muove l’interetnico popolo di Seattle verso le
metropoli scelte per i summit del G8. Mettendo in campo
fantasia e senso della storia. Quanto a soluzioni pratiche,
non è facile individuare quelle da cui partire. Forse
battersi per un’annuale Giornata mondiale del calcio, in cui
riappropriarsi della poesia di un pallone che rotola come un
reggae, è un’idea che vale la pena discutere. Calcio e
musica, esatto. Anzi, Calcio "è" Musica. Vero, Bob?
Stefano Ferrio
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