La
globalizzazione. O meglio, "questa" imperante e
contestata globalizzazione, che non è né unica né perfetta,
coltiva menzogne e mistificanti alterazioni del reale? Lo
sport sembra dirci molto spesso che non è un’impressione
sbagliata.
Prendiamo un giorno molto qualsiasi dell’estate
italiana raccontato dalla prima pagina della Gazzetta dello
Sport. Dunque, c’è il mister turco Fatih Terim che
"disegna" un nuovo Milan, con Albertini in campo,
Serginho più avanzato, e il connazionale Umit Davala in
arrivo dal Galatasaray. C’è Pippo Inzaghi che si gode la
Piacenza delle proprie origini come una specie di
prepensionato del pallone. C’è Gabriel Omar Batistuta non
ancora sazio dei suoi 227 gol italiani. Tornano a far parlare
di sé, e del loro
Napoli alla deriva, perfino due picareschi separati in casa
come "i presidenti-padroni" Ferlaino e Corbelli.
Campeggia un Michael Schumacher mai così vicino al record dei
gran premi detenuto da Alain Prost. E ancora si aggira sullo
sfondo del ciclismo un Marco Pantani che, pensa un po’, si
ritira pure al Giro del Friuli. Insomma, tante belle facce e
molta roboante celebrità. Ma, quanto a quelle
"notizie" che dell’informazione sarebbero il sale
indispensabile, nemmeno l’ombra.
Ah, dimenticavamo, una "new"
spunta fuori, anche se quasi invisibile: soccombendo di due
punti contro la Croazia in uno spareggio
di qualificazione degli Europei turchi, l’Italia del basket
maschile perde in un colpo solo la faccia, il titolo
continentale vinto due anni fa a Parigi, l’ammissione ai
Mondiali 2002 di Indianapolis, e il ct Boscia Tanjevic,
costretto dalla disfatta ad anticipare le proprie dimissioni.
Come dire una specie di catastrofe nazionale per milioni di
tifosi e praticanti che in Italia mettono la pallacanestro sul
cocuzzolo del proprio mondo.
La Gazzetta dello Sport è un grande
giornale. Detto con la devozione dei lettori che, sin dagli
anni dell’oratorio e delle figurine raccolte dentro gli
album Panini, non hanno più smesso di trovare nella
"rosea" una quotidiana ricchezza fatta di notizie,
commenti, punti di vista, libera circolazione di idee. Ma,
proprio perché la Gazzetta è grande, proprio perché
costituisce un’insostituibile "Bibbia" rivolta a
chi ama lo sport, i suoi eventi e i suoi eroi, essa diventa
autorevole anche per quanto riguarda un certo ordine che la
informa, dalla prima all’ultima pagina. Proprio perché fa
testo per centinaia di migliaia di lettori, essa si lascia
leggere e sfogliare come una sorta di Codice, a cui riferire
un Sistema in odore di immutabile eternità.
Ed
eccoci al punto. La globalizzazione, "questo"
imperante modello di globalizzazione, assegna allo sport un
ruolo di sacrale dipendenza da un mercato di riferimento dove
a far numero e a pesare non sono i numeri generati dalla
passione, bensì quelli determinati dagli indotti economici e
pubblicitari. Quello acquistato in edicola è un grande
giornale, lo ribadiamo. Pensato però per lettori
"clienti" prima ancora che tifosi. Se stessimo alle
famose cifre che tanto infiammano i sermoni di professori,
opinionisti e sacerdoti dell’economia contemporanea, non ci
sarebbe alcun dubbio. I milioni di italiani pazzi per il
basket, tutti accomunati dalla sconfitta rimediata sul
Bosforo, andrebbero gratificati con squillante diritto di
precedenza. Essi costituiscono di gran lunga un segmento più
lungo e affollato di quelli aggregabili non attorno al calcio
o al ciclismo, bensì agli amarcord di Batistuta, alla saudade
piacentina di Inzaghi, e alle incessanti batoste collezionate
dall’ex Pirata delle due ruote. Tutte e tre non-notizie
nettamente sovrastate dalla forza d’urto della sola
"new" degna di tal nome.
Invece no. A malapena in caso di vittoria
della nazionale azzurra, il popolo della pallacanestro può
sperare in un momentaneo sovvertimento di valori, in base a
cui ritrovare i propri trionfi in una copertina condivisa
comunque con domenicali dei del pallone adirati per i mancati
superpremi promessi dopo lo scudetto, oppure contesi fra
presidenti non ancora stanchi di sperperare miliardi. E’
successo nel 1999 a Parigi, quando lo straordinario miracolo
compiuto dalla squadra di Myers e Meneghin sortì un clamore
tale da occupare le prime pagine dei giornali, e da trascinare
la Rai a trasmettere in extremis le dirette degli ultimi
incontri, grazie alla magnanimità di Tele+. Di quegli europei
la pay-Tv milanese possedeva infatti l’esclusiva,
esattamente come di questi, che nemmeno il ruolo di campioni
in carica aveva riportato nei palinsesti della Tv pubblica.
La
morale della favola rimane quella di un calcio reso tirannico
sovrano del mercato (informazione compresa) dalla strapotenza
di un affare mediatico-pubblicitario che mette in gioco
diritti televisivi, sponsor e "share" da milioni di
telespettatori a partita. Le sole eccezioni ammesse da questo,
calciocentrico modello di globalizzazione, sono rappresentate
dall’automobilismo. Che nell’Italia della Ferrari (e della
Fiat) è non a caso l’unico sport in grado di contendere
agli stadi del pallone, per una ventina di domeniche all’anno,
la leadership di un Sistema fondato sulla ricchezza dell’indotto
economico. Il magic moment del motociclismo, accentuato dalla
nazionalità italiana dei piloti e non delle marche in gara,
risulta assolutamente compatibile con un teorema del genere.
Al di fuori dell’asse calcio-motori si
esce di norma solo in occasione delle grandi corse ciclistiche
a tappe (il mondo della bicicletta profuma ancora di denaro,
anche se sotto la pesante cappa del doping) e delle Olimpiadi,
quando le proporzioni mondiali dell’affare, molto prima dei
valori sportivi in senso stretto, impongono la copertina
perfino a medaglie vinte in discipline da "notizie in
breve" come il tiro al piattello, la mountain-bike e il
nuoto sincronizzato. In Italia esistono poi le varianti
determinate dalle momentanee fortune di uno sport rispetto
agli altri, anche se si tratta di exploit che, nei templi
della comunicazione di massa, continuano a soggiacere a
precise gerarchie di marketing. In tal senso state pur certi
che i trionfi di uno sciatore, in grado di influenzare indotti
remunerativi come quelli dell’abbigliamento sportivo,
terranno la scena con successo maggiore rispetto alle imprese
(qui l’ordine è volutamente decrescente) di un tennista, di
un centometrista e di un pugile.
Una
delle conseguenze generate da questo rigido e globalizzante
Sistema (che solo negli Stati Uniti prevede diverse
discipline, ma inquadrate in una gerarchia altrettanto chiusa,
con football e basket al vertice, seguiti da baseball e hockey
su ghiaccio), ricade in Italia sugli sport di squadra,
confinati dal calcio a paradossali ruoli da comparse,
nonostante i successi ottenuti periodicamente da nazionali
come quelle del volley e della pallanuoto. In un quadro così
immutabile e inflazionato le sporadiche affermazioni dell’Italbasket
non possono perciò che trovare un’eco quasi casuale e
disperata, assolutamente estranea al successo popolare di una
disciplina che nel nostro Paese gremisce ogni settimana
migliaia e migliaia di spettatori negli infuocati palasport
delle serie A1 e A2, per non parlare delle autentiche febbri
agonistiche di massa provocate da eventi come i play off per
lo scudetto o le finali delle coppe europee.
Una volta preso atto di ciò, e in attesa
che prima o poi qualcosa succeda (anche se il timore è che
accadrà in relazione a un’ineluttabile crisi del calcio, e
non a un qualche, "antiglobalizzante" movimento
proveniente dal basso, dalla base della cara vecchia passione
sportiva), ci si può quanto meno munire di occhialini a raggi
x nei confronti della Tv, la quale pretenderebbe di sostenere
un proprio naturale adeguamento a presunte leggi dello
spettacolo sportivo imposte dall’audience.
Viene
in mente un maestro come Renzo Arbore, che quando sente la
parolina in questione storce elegantemente il naso, abbozzando
una nostalgia per il soppresso "indice di
gradimento" dell’allora vituperata, monopolistica Tv in
bianco e nero. A prescindere dall’opinabile numero dei
"contatti", che dire, tanto per parlare di sport
neglettissimi, del primo piano di una fiorettista prima dell’assalto
decisivo, dell’eccitante adrenalina sparsa da un testa a
testa fra ciclocrossisti, della fantastica danza interpretata
dalle ragazze del volley (disciplina di squadra squisitamente
femmina), o del thrilling di una maratona che si risolverà in
volata? Sono davvero uno "spettacolo" a cui
rinunciare, sempre e comunque, nel confronto con Totti che si
sistema la fascetta (non quando segna certi gol, per carità)
o con Alex Del Piero che inciampa sul pallone per ricordarci
come si possono perdere certi titoli europei? Persi, va
sottolineato, per formazioni pensate, perfino da un buon uomo
come Dino Zoff, obbedendo a un certo modello di
globalizzazione. Più gradito a Gianni Agnelli che a Manu Chao.