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redarrowleft.GIF (53 byte) Lettura ottobre 2001  
 

Nati per uccidere

Dietro alla violenza, anche quando sembrano esserci motivazioni o giustificazioni, l’uomo nasconde sempre l’istinto animale. Con l’aggravante rispetto alle bestie della consapevolezza di fare il male. E’ la tesi pessimistica del sociologo tedesco Sofsky. Che non vede un futuro roseo per una specie cattiva e litigiosa come la nostra

Wolfgang Sofsky, Il paradiso della crudeltà, Einaudi, pp.114, L.18.000

L’aveva già detto Hobbes: "Homo homini lupus": l’uomo è lupo rispetto all’uomo. Ma Wolfgang Sofsky rincara la dose: no, noi siamo ancor peggio delle bestie feroci. Perché la nostra violenza deriva proprio "dalla specifica natura umana"; in quanto gli esseri umani, dotati di autocoscienza e intelletto, che saprebbero tenere a freno gli istinti più bruti, scelgono la violenza non agendola inconsapevolmente come gli animali. Uccidere un nostro simile – sostiene Sofsky – non deriva dal bisogno (tranne in caso di difesa, chiamata a ragione legittima), bensì dalla libera scelta di infliggere la morte e dalla brama di onnipotenza che da questa azione delittuosa deriva.

Si potrebbe obiettare che il soldato, costretto a sparare suo malgrado, non è sempre sospinto dal gusto sadico di uccidere; ma il sociologo tedesco sottolinea come in guerra l’ordine d’attacco abbia solo il risultato di rompere "il tabù della violenza", una volta superato il quale gli esecutori spesso finiscono per spingersi oltre le istruzioni o i comandi ricevuti, permettendosi eccessi di aggressività e barbarie non giustificati dalla necessità di obbedire ai propri superiori. Sarà pur vero, ammette l’autore, che la violenza viene innescata da innumerevoli fattori scatenanti: sia individuali (odio, conflittualità, psicopatologie, deprivazione socio-culturale), sia collettivi (crisi economico-politiche, contrasti etnici, spirito di branco) ma, è la tesi di questo provocatorio libretto, la violenza non deriverebbe da una o più cause specifiche, trovando in se stessa la propria ragion d’essere. Secondo Sofsky, dunque, la crudeltà avrebbe una valenza "assoluta" cioè, come vuole l’etimo del temine (ab-soluta: sciolta da), sarebbe solo apparentemente legata a questa o quella motivazione essendo connaturata all’uomo.

Anche se non le cita espressamente, Sofsky sembra rifarsi alle considerazioni di Konrad Lorenz, che ritiene la violenza umana retaggio del nostro sostrato animale e finisce per giustificarla come naturale tendenza all’aggressione intra-specifica. Insomma, una sorta di destino iscritto nel DNA della specie o un risvolto demoniaco del comune corredo genetico. E non basta. Essendo l’uomo un essere culturale che produce da se medesimo la propria distruttività, egli può incrementare e variare all’infinito le sue potenzialità aggressive. Per tutto ciò il futuro, secondo l’ottica di questo autore, non appare roseo, vuoi per la disponibilità di armi sempre più efficaci e devastanti, vuoi per il proliferare dei conflitti etnici, vuoi infine per l’aumento della povertà, che interessa non solo il terzo mondo.

Che fare allora contro la violenza? Quale etica declinabile al plurale basata su ideali condivisibili fondare? Quale la strategia politica ottimale per rimuovere le cause o concause che favoriscono ostilità e guerre? Ma questi interrogativi, purtroppo, sono del tutto assenti dalla riflessione del pessimista Sofsky, che invece avrebbe fatto meglio a porseli. Infatti, se nessuno oggi può sensatamente illudersi di giungere ad eliminare del tutto la violenza, urge pur sempre il problema di come depotenziarla o arginarla; magari promuovendo un contesto sociale non contraddistinto da competitività ed individualismo, ma all’insegna di solidarietà, con-divisione, rispetto e reciproco aiuto.

Francesco Roat

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