Dietro alla violenza,
anche quando sembrano esserci motivazioni o giustificazioni, l’uomo
nasconde sempre l’istinto animale. Con l’aggravante
rispetto alle bestie della consapevolezza di fare il male. E’
la tesi pessimistica del sociologo tedesco Sofsky. Che non
vede un futuro roseo per una specie cattiva e litigiosa come
la nostra
Wolfgang Sofsky, Il paradiso della
crudeltà, Einaudi, pp.114, L.18.000
L’aveva
già detto Hobbes: "Homo homini lupus": l’uomo
è lupo rispetto all’uomo. Ma Wolfgang Sofsky rincara la
dose: no, noi siamo ancor peggio delle bestie feroci. Perché
la nostra violenza deriva proprio "dalla specifica natura
umana"; in quanto gli esseri umani, dotati di
autocoscienza e intelletto, che saprebbero tenere a freno gli
istinti più bruti, scelgono la violenza non agendola
inconsapevolmente come gli animali. Uccidere un nostro simile
– sostiene Sofsky – non deriva dal bisogno (tranne in caso
di difesa, chiamata a ragione legittima), bensì dalla
libera scelta di infliggere la morte e dalla brama di
onnipotenza che da questa azione delittuosa deriva.
Si potrebbe obiettare che il soldato,
costretto a sparare suo malgrado, non è sempre sospinto dal
gusto sadico di uccidere; ma il sociologo tedesco sottolinea
come in guerra l’ordine d’attacco abbia solo il risultato
di rompere "il tabù della violenza", una volta
superato il quale gli esecutori spesso finiscono per spingersi
oltre le istruzioni o i comandi ricevuti, permettendosi
eccessi di aggressività e barbarie non giustificati dalla
necessità di obbedire ai propri superiori. Sarà pur vero,
ammette l’autore, che la violenza viene innescata da
innumerevoli fattori scatenanti: sia individuali (odio,
conflittualità, psicopatologie, deprivazione
socio-culturale), sia collettivi (crisi economico-politiche,
contrasti etnici, spirito di branco) ma, è la tesi di questo
provocatorio libretto, la violenza non deriverebbe da una o
più cause specifiche, trovando in se stessa la propria ragion
d’essere. Secondo Sofsky, dunque, la crudeltà avrebbe una
valenza "assoluta" cioè, come vuole l’etimo del
temine (ab-soluta: sciolta da), sarebbe solo
apparentemente legata a questa o quella motivazione essendo
connaturata all’uomo.
Anche se non le cita espressamente, Sofsky
sembra rifarsi alle considerazioni di Konrad Lorenz, che
ritiene la violenza umana retaggio del nostro sostrato animale
e finisce per giustificarla come naturale tendenza all’aggressione
intra-specifica. Insomma, una sorta di destino iscritto nel
DNA della specie o un risvolto demoniaco del comune corredo
genetico. E non basta. Essendo l’uomo un essere culturale
che produce da se medesimo la propria distruttività, egli
può incrementare e variare all’infinito le sue
potenzialità aggressive. Per tutto ciò il futuro, secondo l’ottica
di questo autore, non appare roseo, vuoi per la disponibilità
di armi sempre più efficaci e devastanti, vuoi per il
proliferare dei conflitti etnici, vuoi infine per l’aumento
della povertà, che interessa non solo il terzo mondo.
Che fare allora contro la violenza? Quale
etica declinabile al plurale basata su ideali condivisibili
fondare? Quale la strategia politica ottimale per rimuovere le
cause o concause che favoriscono ostilità e guerre? Ma questi
interrogativi, purtroppo, sono del tutto assenti dalla
riflessione del pessimista Sofsky, che invece avrebbe fatto
meglio a porseli. Infatti, se nessuno oggi può sensatamente
illudersi di giungere ad eliminare del tutto la violenza, urge
pur sempre il problema di come depotenziarla o arginarla;
magari promuovendo un contesto sociale non contraddistinto da
competitività ed individualismo, ma all’insegna di
solidarietà, con-divisione, rispetto e reciproco aiuto.