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redarrowleft.GIF (53 byte) Varie Sport Ottobre  2001
 

E Al Quaida perse ai calci di rigore

Senza Olimpiadi può essere solo un modo in guerra. Lo dice la storia. Per questo stupisce la insolita partita di cricket fra Afghanistan e Pakistan di questi giorni. Due Paesi ufficialmente nemici fra loro. A conferma che, come è successo molte altre volte, lo sport è l’ultima spiaggia del dialogo e della convivenza

Si ha spesso percezione dello sport come di un insondabile mistero. Di un qualcosa di così importante nella nostra storia da sfuggire a qualsiasi categorica definizione. Millenario specchio delle virtù e dei vizi dell’uomo, lo sport non è esclusivamente riconducibile alle categorie del puro agonismo, della vittoria e della sconfitta. C’è dell’altro, a creare di volta in volta sconcerto ammirazione disagio o sorpresa, negli eventi che hanno come teatro stadi, strade, piscine e palestre del mondo. Un indefinibile intreccio di sensazioni puntualmente ripresentatosi all’indomani dell’attacco terroristico dell’11 settembre scorso.

Poco più di un mese è stato sufficiente perché nelle arene sportive di ogni parte del globo sia accaduto praticamente di tutto. Dalla storica fermata per lutto del baseball americano (era accaduto solo nel ’44), alle coppe europee giocate lo stesso all’indomani della tragedia, alla protesta di Michael Schumacher contro i piloti intenzionati a correre a Monza senza una partenza lenta intensa come omaggio alle vittime delle Twin Towers. Episodi in grado di commuovere, dividere, indignare e interrogare i cosiddetti "spettatori", ben al di là delle attese per il nudo e crudo risultato finale.

Qui soffermiamoci pure da quello che è, in ordine di tempo, l’ultimo evento, ma non per questo il meno importante. Anzi, è forse il più clamoroso. Ci riferiamo alla partecipazione della nazionale afgana di cricket al torneo internazionale di Karachi, nel vicino Pakistan. Succede cioè che, nel pieno di una devastante e sanguinosa invasione militare del proprio territorio, lo stesso Afghanistan messo sotto accusa da parte del Comitato Olimpico Internazionale per il divieto di fare sport imposto alle donne dalla legge coranica, invii una rappresentativa a gareggiare nello stato confinante, diventato ufficialmente nemico dopo l’appoggio garantito agli Stati Uniti nella guerra contro Osama bin Laden e la sua rete terroristica di Al Quaida.

Lo stupore può solo aumentare, considerando come nel Paese dei talebani lo sport totalmente negato al sesso femminile riservi forti limitazioni anche agli uomini, che per esempio non possono giocare a scacchi, in quanto la concentrazione richiesta per muovere alfieri e pedoni distoglierebbe in modo peccaminoso le menti dalla preghiera rivolta ad Allah. Sono invece incoraggiati a praticare il cricket, niente meno che lo sport nazionale dell’odiata Gran Bretagna, i cui bombardieri affiancano dalla prima ora l’aviazione americana nei raid quotidianamente compiuti su Kabul e dintorni.

Quarant’anni di sottomissione alla corona britannica (1879-1919), e ben tre guerre combattute contro gli inglesi prima di ottenere una fragile indipendenza con la salita al trono dell’emiro Aman Ullah, non sono stati dunque sufficienti per sradicare nel Paese la passione profonda verso questa disciplina di mazze e guantoni antenata del baseball, ma rispetto alla sua versione americana ancora più complessa e difficile da seguire. Impossibile non chiedersi il perché di questa contraddizione, offerta dallo spettacolo degli studenti del Corano di bianco vestiti per dedicarsi allo stesso passatempo prediletto nei più opulenti ed esclusivi college universitari del Regno Unito. Una prima risposta arriva in soccorso dalla tormentata storia afgana. Quando cioè si apprende che il cricket fu una delle più importanti armi di colonizzazione culturale adottate dai britannici, non appena ebbero messo sotto il proprio controllo politico questo Paese di pascoli e pastori incassato tra Cina, ex repubbliche sovietiche e subcontinente indiano.

In un 1880 apparentemente così lontano dal nostro presente, delegati e militari di sua maestà usarono lo sport come insostituibile mezzo rivolto a porre le basi di una comunicazione culturale con il popolo di una nazione sottomessa. Il successo della pacifica occupazione praticata con palline e bastoni, è stato enormemente più grande e duraturo di quella violenta, imposta dalla forza militare. Al punto che centoventi anni dopo gli afgani sentono il cricket come qualcosa di squisitamente proprio. Lo praticano come disciplina agonistica compatibile con la religione musulmana, pur avendo avuto origine in una terra di "infedeli".

L’unico totem che il gioco importato dagli inglesi non è riuscito ad abbattere in Afghanistan rimane quello dello sport nazionale, il buzkashi, sorta di autoctona e bellicosa versione del polo, con due squadre di cavalieri chiamate a contendersi il possesso di una carcassa di capra. Un rito arcaico, per certi versi "barbarico", che nei gusti delle masse convive in modo quasi impensabile con i cerebrali estetismi e le estenuanti raffinatezze tipiche del cricket.

Sicuramente lontani dalla concezione della democrazia e dei diritti civili del nemico Occidente, questi afgani che in piena guerra mandano una nazionale a gareggiare in Pakistan dimostrano nella pratica dello sport una coerenza e una dedizione degne di una grande tradizione. La stessa grande tradizione che nell’Inghilterra del cricket è rappresentata da tanti esemplari, e a volte eroici atleti, come il calciatore Bobby Charlton, il mezzofondista Sebastian Coe, il pilota Jackie Stewart. Campioni che però non sembrano avere insegnato nulla ai sei miliardari giocatori del Chelsea di Londra (Desailly, Ferrer, Gallas, Gudjohnsen, Le Saux e Petit), rifiutatisi di volare fino a Tel Aviv per paura di attentati terroristici, in occasione della partita di Coppa Uefa giocata contro l’Hapoel. Col risultato che le loro riserve hanno puntualmente perso in Israele e che l’immagine del Chelsea è uscita quanto meno malconcia da una vicenda nella quale egoismi e paure (queste ultime non incomprensibili, ma insufficienti) hanno pesato molto più dei doveri richiesti a strapagati professionisti.

Sport più che mai senza frontiere. Terra di tutti e di nessuno dove regole, pronostici e aspettative vengono periodicamente sovvertiti dai più imponderabili fattori. Sport destinato di volta a trainare, confermare, contraddire o rivoluzionare gli scenari della politica. Partite di calcio pacificamente portate a termine fra nazioni virtualmente in guerra (Inghilterra e Argentina nell’86, all’indomani delle battaglie alle Falkland, Usa e Iran ai mondiali del ’98), e altre rese impossibili da odi e rancori che resistono per decenni (vedi la recente sospensione di un’"amichevole" tra Francia e Algeria).

Contro preconcetti e muraglie culturali dalle parvenze insormontabili lo sport dimostra periodicamente una capacità strabiliante di rovesciare il tavolo, e di cambiare prospettiva a contesti che sembravano segnati dai crismi dell’immutabilità. Pochi, solo dieci anni fa, potevano immaginare che il mistico Tibet dei monaci e dei più antichi rituali buddisti avrebbe scelto proprio il calcio per mandare a tutto il mondo un messaggio forte e chiaro sull’isolamento politico a cui è costretto dal governo cinese. Eppure è quanto successo la scorsa estate a Copenhagen, dove la nazionale tibetana ha giocato una storica amichevole con quella degli esquimesi arrivati dalla Groenlandia. Intento di entrambe le rappresentative essere ammesse dalla Fifa alle qualificazioni dei prossimi mondiali, considerati occasione impagabile di comunicazione ancora prima che di sport.

D’altra parte, che lo sport sia destinato a rappresentare l’ultima spiaggia del dialogo e della pacifica convivenza è testimoniato in modo lampante dalla grande preoccupazione che già assilla gli Stati Uniti in primo luogo, e tutto il mondo civile di conseguenza: salvare le imminenti Olimpiadi invernali in programma a Salt Lake City, in pieno territorio americano. Nessuno si nasconde, a tre mesi dall’accensione della fiaccola, che le difficoltà sono quanto meno agghiaccianti, con un tasso di rischio terroristico reso elevato dalla formidabile concentrazione di atleti e addetti ai lavori, dall’eccezionale intensità di viaggi e trasferimenti aerei, e dalla grande esposizione mediatica destinata all’evento. Ma è altrettanto chiaro che, come dimostrato dalla storia, senza Olimpiadi può essere solo un mondo in guerra. E per il terrorismo internazionale dimostrare questa possibile verità del nostro domani sarebbe una grande, tremenda vittoria.

Stefano Ferrio

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