Qualcuno voleva trasformare
il piombo in oro. Ma molti cercavano qualcosa di più prezioso:
la Panacea, la cura di tutti i mali. Compreso il peccato
originale di Adamo ed Eva. Per questo gli alchimisti del
medioevo assomigliano più a santoni indiani o a buddisti che a
scienziati-stregoni. A caccia di quel legame profondo ma
nascosto che secondo le filosofie orientali lega l’universo
all’uomo
Michela Pereira, Arcana sapienza –
L’alchimia dalle origini a Jung, Carocci, pp. 323, L.39.000
Sull’alchimia
è uscito un saggio di Michela Pereira volto a far luce su tale
«sapere strutturalmente pre-moderno, che culmina nell’età
medioevale» ma che sopravvive fino ai giorni nostri in varie
tradizioni esoteriche. Di quest’antica «arcana sapienza»,
infatti, oggi i più conoscono appena la leggenda della
supposta velleità di trasformare il piombo in oro. Ma per gli
alchimisti non si trattava di ottenere dei metalli preziosi,
ma quella Panacea, Alessifarmaco o Tintura, tramite la quale
si sarebbe dovuta ottenere una «guarigione» definitiva: la
tanto auspicata realizzazione dell'uomo nella sua globalità.
La meta finale dell'opera alchemica era quindi restaurare
innanzitutto la condizione originaria d'innocenza del primo
Adamo, ma non solo; si trattava di ottenere un universo libero
dagli opposti, di pervenire alla condizione originaria del
cosmo, a quell'Uno non ancora frammentato nel molteplice. Di
realizzare la pienezza dell'Atman o del Tao, per dirla con
termini della spiritualità orientale.
Occorreva dunque realizzare ciò che Dorneus
ebbe a indicare come Unus mundus: il mondo aurorale
degli inizi; quando nulla era separato, non esisteva
molteplicità, scissione fra creatore/creatura,
spirito/materia, io/tu. Un'aspirazione metafìsica
paragonabile, nell'ambito della cultura occidentale, all'unio
mystica degli asceti contemplativi, e che si potrebbe
riscontrare piuttosto nell'esperienza estrema del satori
nella pratica del buddhismo Zen o nel samadhi della
meditazione indiana. Alchimia, allora, come ricerca di
un'ambiziosa realizzazione: quell'unità, quell'assoluto
equilibrio che non era tuttavia conseguimento soggettivo,
giacché l'Opus trascende l'individuo per abbracciare
l'intera esistenza nel tentativo di conferire unitarietà,
coerenza all'intero mondo universo, in apparenza teatro
dell'irresolubile tensione di forze opposte, e inconciliabili.
A tale proposito, valga per tutte la
dichiarazione di intenti, espressa da Dorneus nel suo
Theatrum chemicum in modo insolitamente scevro da simboli
ermetici e sibilline immagini allegoriche: «La conoscenza è la
soluzione (o dissoluzione - resolutio) certa e
indubitabile, mediante l'esperienza, di tutte le opinioni che
si avevano concernenti la verità (...) incominciando da noi.
Abbiam detto che la pietas consiste nella conoscenza di
se stessi. Ne risulta che proprio da quest'ultima deve
cominciare la coscienza filosofica. Nessuno però può conoscere
se stesso, se ignora non tanto chi è, quanto che cosa egli
sia».
f.r.