Si chiamava Juan Carlos
Lorenzo. E fra gli anni ’60 e ’80 allenò Roma e Lazio. Con
metodi tutti suoi. Fatti di superstizioni e scaramanzie stile
woodoo. Un abisso rispetto ai tecnici tutti schemi e tabelle
dei giorni nostri. Mentre presidenti e tifosi sono rimasti
uguali a quelli di trent’anni fa. Dimenticandosi che, alla
fine, anche il più all’avanguardia fra gli allenatori d’oggi
ha bisogno della stessa cosa che serviva al buon Lorenzo:
tanta fortuna
La lista dei misteri della panchina è nota,
quanto lunga.
Fra i casi recenti trovi la Juventus, che
scarica il cordiale e sanguigno Carletto Ancelotti dopo due
secondi posti di fila, accumulando più punti di ogni altra
squadra di serie A. Trovi Marcello Lippi, ripreso dalla stessa
Juventus in virtù di antiche glorie, evidentemente poco
offuscate dalla successiva, pessima stagione trascorsa all’Inter.
Trovi Giovanni Trapattoni e Fabio Capello, che stravincono
alla grande solo con le multinazionali del
calcio (per il
primo ci sono le incolori parentesi di Cagliari e Fiorentina,
il secondo nemmeno concepisce di buttarsi alla ventura). Trovi
Francesco Guidolin, così taumaturgico che le "big", forse
perché inquietate dal personaggio, continuano accuratamente a
evitarlo, nonostante sia stato capace di far vincere la Coppa
Italia al Vicenza, portare l’Udinese in Uefa, trascinare al
terzo posto della serie A uno dei Bologna sulla carta più
modesti degli ultimi anni.
Ogni nome rimanda "almeno" a un mistero. E
se solo accenniamo ad aggiungere, fra i primi tornati alla
memoria, quelli di Serse Cosmi, Carlo Mazzone, Giancarlo
Camolese, Franco Scoglio, Emiliano Mondonico, Alberto Malesani,
Dino Zoff e Cesare Maldini, ci accorgiamo che si potrebbe
andare avanti all’infinito. In effetti sedersi dove non batte
mai il sole, sia per la tettoia che per l’ingrato destino
riservato a chi allena da presidenti giocatori e tifosi,
richiede una vocazione tipica dei pazzi.
Fino
a qualche anno fa in questa lista pescavi anche Juan Carlos
Lorenzo, morto il mese scorso, dopo essersi ritirato da un
mondo tremendamente mutato rispetto ai suoi tempi. Un tipo che
dava nell’occhio, "Er Pomata", così soprannominato, nella Roma
dove fra gli anni sessanta e ottanta aveva allenato entrambe
le squadre capitoline, per i capelli lustri di brillantina. Un
mister dal carattere vulcanico e imprevedibile, squisitamente
"argentino", per ricordare che era nato a Buenos Aires nel
1922, e che nell’amatissima città dei tanghi e dei labirinti
di "avenide" era tornato all’età della pensione, chissà quanto
appagato dai sette scudetti vinti in carriera (con Boca Junior
e San Lorenzo in Argentina, con Atletico Madrid in Spagna),
più una Coppa Libertadores (sempre alla guida del Boca), e
l’onore di avere allenato senza grandi risultati la nazionale
del suo Paese.
Ora,
è come se la scomparsa di Lorenzo, famoso per gli eccessi
superstiziosi e le credenze magiche che lo ossessionavano, con
effetti sovente catastrofici sul rendimento della squadra, ci
avesse messo davanti a un bivio. Un crocicchio dove da una
parte si può tornare ai chiassosi splendori di un’epoca
tramontata, avvincente per il senso di perpetua
improvvisazione che la dominava, con sfrenate deviazioni nel
mistico e nel cabalistico ("mago" equivaleva al massimo
complimento rivolto a un tecnico). E dall’altra ci si rimette
a confronto con un presente in cui, pur avendo smesso di
essere additati come stregoni, gli allenatori continuano a
costituire uno dei misteri più appassionanti della società,
spettacolare e schizofrenica, in cui viviamo.
Se consideriamo le tabelle, i grafici, le
consulenze, gli archivi, le telecamere e gli studi scientifici
di cui si giovano i Del Neri, gli Zaccheroni, i Passarella, i
Fascetti e i De Canio dei nostri giorni, si fa davvero fatica
a considerare questi manager degli spogliatoi eredi diretti di
Lorenzo. A suo modo un professionista del calcio che oltre a
corse, partitelle e ginnastica, comprendeva nella preparazione
di una partita le foto delle mogli dei centravanti avversari
infilate nei calzettoni dei propri difensori, le minestre di
anellini ingurgitate fino alla nausea solo perché portavano
bene, più una gallina da dribblare palla al piede per
abituarsi a scansare la iella prima ancora degli avversari.
Di
lui si poteva parlare come di un predecessore degli attuali
signori della panchina più per una certa qual cornice di tic e
di cerimoniali, che per i fondamenti quotidiani del proprio
lavoro. E’ vero che un Renzo Ulivieri somiglia al vecchio
"Pomata" per la scaramanzia di entrare in campo con il
cappotto e la sciarpa anche in agosto, ma l’analogia si ferma
qui. Dopodiché i carichi di lavoro in palestra e le geometrie
del movimento collettivo, care all’"Uli" dalla barba che va e
che viene a seconda dei risultati, appartengono a un concetto
di professionalità totalmente aliena rispetto a quello di
Lorenzo. Condiviso in anni ruggenti del calcio dagli Oronzo
Pugliese, dagli Edmondo Fabbri, dagli Ettore Puricelli, dagli
Heriberto Herrera, dai Giovanbattista Fabbri, dai Bruno
Pesaola, dai Nereo Rocco e dai Manlio Scopigno che vincevano o
perdevano campionati seguendo personalissimi istinti,
filosofie, credenze, più o meno fondate intuizioni di nome
catenaccio, "movimiento", forcing e melina.
Tutto fuorché le scuole di pensiero, gli
schemi ideologici e i fondamenti scientifici su cui fondano il
loro operato gli allenatori dei nostri giorni, solo in parte
annunciati in passato da isolati pionieri, fautori di
invenzioni poi entrate nel codice linguistico del calcio: il
terzino d’ala secondo Roberto Lerici, il libero "staccato"
ispirato a Herrera da Armando Picchi, la squadra corta di
Corrado Viciani, un certo movimento collettivo caro a Tommaso
Maestrelli, il catenaccio-pressing legato alle fortune dello
stesso Trapattoni.
Le grandi
rivoluzioni provocate fra gli anni settanta e ottanta dagli
olandesi prima, e da Arrigo Sacchi poi, hanno scavato una
sorta di voragine nella storia del pallone, separando in modo
traumatico l’epoca dei maghi da quella dei manager delle
panchine. E’ però una frattura di cui non sembrano tenere
conto presidenti e tifosi, che nei fatti e nelle intenzioni
continuano a esonerare e a mettere sotto contratto allenatori
obbedendo alle medesime "regole", anarchiche e pulsionali,
valide per i Lorenzo e i Pugliese di quello stravagante, e in
parte straordinario, passato. Questi Moratti, questi Moggi,
questi Cragnotti, questi Zamparini, questi Gaucci e questi
Galliani sono poco o nulla cambiati rispetto ai loro
predecessori. Assumono e licenziano tecnici con la stessa,
spiccia regola del risultato innanzitutto, applicata sin dai
primordi del calcio.
Quanto agli allenatori, cambiati finché si
vuole, restano essenzialmente dei misteri. Con la stessa
tabella in tasca e il medesimo preparatore atletico alle
costole, funzionano a meraviglia a Torino e toppano
miseramente a Milano. Eccelsi professionisti, ma non al punto
di cancellare da uno spogliatoio quella certa, inconfondibile
magia legata al fascino di un Juan Carlos Lorenzo. Intrisa di
genio, di sudore, e di… una fortuna grande così.
Stefano Ferrio