Due storie di amori
impossibili ambientati fra il ‘500 e il ‘700. Fra inganni e
passione, illusione ed esagerazione. E dove l’unica certezza è
che il sesso non riesce mai a mettere la parola fine all’anima
inquieta degli uomini
Antonella Cilento, Il cielo
capovolto, Avagliano Editore, pp.170, € 9.30
Il
passato remoto in cui Antonella Cilento ambienta i suoi due
narrativi raccolti sotto il titolo de "Il cielo capovolto" è
appena un pretesto o un fondale da teatro entro il cui
scenario ambientare un paio di storie intorno
all’irrequietudine e all’inappagamento esistenziale che può
spingere verso una passione o una fuga destinata comunque a
concludersi all’insegna dell’eros.
Il primo racconto (più breve ma, a mio
avviso, più riuscito) è calato nella cornice d’un Cinquecento
un po’ manierista, dalle tinte cariche e dai toni sin troppo
cupi. Protagonista della vicenda è Gioacchino, mercante d’arte
invaghitosi del fascinoso Eranio, giovane bisessuale dal
comportamento amoroso assai disinvolto e tendente a perder
facilmente la testa vuoi per un bel ragazzo vuoi per una
prostituta da quattro soldi. Avviene quindi che anche
Gioacchino finisca per perdere la sua e macchiarsi di ben due
delitti pur di tenersi vicino lo scavezzacollo del quale s’è
perdutamente invaghito.
Ma è giusto la diversità ad attrarre i due
uomini: giovane Eranio, anziano Gioacchino; rubacuori
sfegatato il primo, geloso e possessivo il secondo. Così, fra
loro, il rapporto (meglio: il non rapporto) si consuma nel
segno dell’equivoco, del puro gioco deduttivo e, alla fin
fine, del misconoscimento. L’uno non conosce davvero l’altro;
l’uno non comunica sul serio con l’altro. E l’amore, qui, è
solo inganno, sogno e quando si concretizza sa di ruffianeria
o di bordello.
Le esagerate trasgressioni, tuttavia, non
fanno che confermare questa dismisura tra i due. Scorre fin
troppo vino; si frequentano sin troppe meretrici. Anche se
questa sottolineatura della dissipatezza viziosa contribuisce
a rimarcare un effetto di straniamento che consente al lettore
di cogliere la condotta di Gioacchino e compagni all’insegna
non tanto dell’eccesso ma, si accennava, del teatro,
dell’abbaglio e dell’autoinganno. Lo evidenzia lo stesso
mercante asserendo che "la passione è solo illusione". E lo
ribadisce la citazione da Oscar Wilde, posta ad epigrafe del
secondo racconto: "L’unica differenza che corre fra un
capriccio e una passione eterna è che il capriccio è più
durevole". Stavolta però siamo un paio di secoli più avanti.
E’ il Settecento – secolo libertino per antonomasia – il
periodo dove Cilento ambienta la vicenda un po’ hoffmanniana
di Aernestine, cortigiana borbonica "curiosa e insoddisfatta",
alla perenne ricerca di un uomo che la appaghi pienamente. Del
resto incontentabili sono un po’ tutti quanti i personaggi di
questa fantasiosa novella partenopea; in primis le "Maestà"
che governano (o malgovernano) il loro regno "a forma di
scarpa". Il re, capace di far venire a sue spese dal lontano
Tibet un Lama pur di saziare la sua sete di esoticità; la
regina, pronta ad invitare a Caserta Coniraya: un pellerossa
un po’ pirata, nonché collezionista di scale.
Aernestine, infine, è una sognatrice come e
più del mercante cinquecentesco. In ogni caso, sia l’uomo che
la donna attendono dall’altro e dall’altrove una conferma di
senso del proprio esistere che in loro stessi, da soli, non
riescono a trovare. Cercano dunque entrambi l’oltre: un
ambito ulteriore che sa di metafisica, di azzardo e di
tensione al contempo insoddisfatta e fatalmente insoddisfabile.