Fuerza Ecuador
Crisi di gioco o no, siamo
ancora tra i più forti del mondo. Ma la nazionale di calcio
italiana ha conosciuto anche le sue umiliazioni. Come la
disgraziata sconfitta con la Corea nel ’66, i rischi con Haiti
e le vittorie striminzite con gli Usa. Ora ai Mondiali ci
aspetta la cenerentola Ecuador. Una squadra povera, entusiasta
e colorata contro i nostri divi del pallone straricchi e
annoiati. Sarà un po’ meno facile tifare Italia?
Nel
1966 l’Italia perde ai Mondiali di Inghilterra contro la Corea
del Nord. Oltre all’eliminazione, quella sconfitta provoca uno
choc nazionale di dimensioni iperboliche. Tornarsene a casa
per il gol segnato dal dentista Pak Doo Ik (quella coreana è
una squadra composta solo da dilettanti) apre una ferita che
farà sanguinare a lungo l’orgoglio patrio. Al punto che "E’
stata una Corea" diventa frase di uso comune nella lingua
quotidiana, quando si vuole alludere a qualcosa di disastroso
e irreparabile.
Trentasei anni dopo, la Corea, anche se
quella del Sud, si è così emancipata dal punto di vista
calcistico, che i Mondiali li ospita, assieme al Giappone. A
partire dal 31 maggio (Francia-Senegal) un mese di partite,
miliardi di telespettatori, trentadue squadre al via. L’Italia
naturalmente c’è (non ha partecipato a due sole edizioni delle
fasi finali), e, un po’ come in quel 1966, parte tra le
squadre favorite. Allora le rivali più accreditate erano
Brasile, Inghilterra e Germania, con le ultime due che si
giocarono puntualmente la finale, vinta dalla prima. Oggi si
parla invece di Argentina, Francia e ancora Brasile.
Contro una di queste tre squadre l’Italia
potrebbe disputare la sesta finale della propria storia.
Sempre che naturalmente non incappi in una nuova Corea. In
fondo, dopo la disfatta inglese, gli azzurri, nati più per
difendere che per attaccare, hanno collezionato altre magre
contro avversarie prive di tradizioni. Nel 1970 pareggiano 0-0
con Israele, e nel 1974 battono Haiti dopo essere stati in
svantaggio al 15° del secondo tempo, Quanto al glorioso 1982,
prima di vincere i Mondiali, fanno in tempo a impattare 1-1
con il Camerun, mentre nel 1986 superano solo 3-2 la Corea del
Sud. Dopodiché, nel 1990, pur giocando in casa, rifilano un
misero 1-0 agli Stati Uniti, e nel 1994 perdono contro la
Nigeria fino a quattro minuti dalla fine (finirà 2-1 grazie a
due capolavori di Roberto Baggio).
Guardando
a queste partite, ce n’è abbastanza per dare le ali ai sogni
di qualsiasi avversario. Prendiamo ad esempio l’Ecuador,
allenato da Hernàn Dario Gomez, detto El Bolillo (il panino) a
causa della stazza tracagnotta, più da sergente Garcia dei
vecchi telefilm di Zorro che da sergente di ferro. Il 3
giugno, allo stadio giapponese di Sapporo (ore 13,30 italiane)
farà il suo debutto ufficiale nelle finali mondiali, da
avversario dell’Italia. Mai andati ai Mondiali gli
ecuadoriani, nonostante l’entusiasmo ribollente dei loro
stadi, e una divisa tricolore, gialla rossa e blu, della cui
sgargiante bellezza si è sempre sentito la mancanza nella
massima competizione di calcio internazionale. "Colpa" di un
popoloso girone sudamericano dove, nelle qualificazioni, hanno
sempre trovato il disco rosso del Brasile, dell’Argentina o
dell’Uruguay di turno. Fino allo scorso anno.
Nel 2001 arriva invece la clamorosa novità
di un’ammissione in carrozza alle finali di Giappone e Corea.
Addirittura per il secondo posto conquistato alla fine di un
vero e proprio campionato a dodici squadre. Dietro la sola
Argentina, e davanti a squadroni titolati come Brasile e
Uruguay. Ce n’è abbastanza per agitare i sonni degli azzurri?
Impossibile saperlo prima del 3 giugno. Di certo El Bolillo e
i suoi ragazzi cercheranno di non turbarli più di tanto,
perché possono realisticamente contare solo su un effetto
sorpresa contro lo squadrone dei Vieri, dei Totti e dei
Maldini.
In attesa che arrivi la famosa "risposta del
campo", possiamo intanto girare la domanda a noi stessi, tutti
potenziali tifosi dell’Italia. E magari scoprire che non siamo
turbati per nulla. Anzi, se proprio ci pensiamo a fondo, quasi
quasi… Ecco, forse non arriviamo ad augurarci la sconfitta
della squadra del Trap, però siamo in grado di metterne a
fuoco alcuni caratteri, come il divismo, le ricchezze
esagerate, la capricciosità di qualche suo bulletto, la
stretta appartenenza a una società dello spettacolo dove
esiste molto di sponsorizzato e poco di genuino. Qualcosa che
fa a pugni come su un ring con la strapaesana semplicità di
quelli dell’Ecuador e, soprattutto, ammettiamolo, con
l’eccezionale passione popolare da cui saranno sospinti nello
storico giorno del debutto ai Mondiali.
Insomma,
eccoci a un altro incrocio pericoloso confinante con la
Globalizzazione. O meglio, con quell’allentarsi delle
frontiere di cui, in questo mondo omogeneizzato dalle più
varie forme di comunicazione, la Globalizzazione è una
conseguenza politica eventualmente da combattere. Se pensiamo
a Italia-Ecuador, e a quanto di "local" o, se volete, di "no
global" esprime questa partita inedita nella storia del
calcio, risulta difficile palpitare per gli italiani dei
supercontratti e dei muscoli delicati, piuttosto che per la
coloratissima "Anima" di questi indios cresciuti fra palloni
di fortuna, canne da zucchero e piccoli stadi di cartone
sparpagliati sull’altopiano delle Ande. Perché, se nemmeno il
dubbio ci sfiora, a cosa serve poi ballucchiare al ritmo di
Manu Chao, sfilare per una nuova Genova, e mostrare il pugno
della ribellione ai potenti del G8?
In fondo, se guardiamo agli altri gironi,
nessuna esitazione ci assale di fronte al Senegal che sfida
sua maestà la "France", al Costarica che si gioca la vita con
il Brasil dei Fenomeni, o al Sudafrica che va all’assalto
delle Furie Rosse di Spagna. Ci basta solo togliersi un
istante dalla nostra pelle di italiani per accorgerci che,
prima del fischio di inizio, prima di venire travolti
dall’atavica febbre del tifo, e prima di lasciare che il
migliore alla fine vinca, un "Forza Ecuador" sgorga dai nostri
cuori molto più facilmente di un "Forza Italia"… O no?
Stefano Ferrio