Un viaggio
nel Medioevo con testi e immagini
(visibili attraverso moltissimi link)
IV SETTIMANA DELLA
CULTURA VICENZA 15-21 aprile 2002
Miti del
Cielo e della Terra: scienza e letteratura alla corte di
Ezzelino da Romano, nella Marca Gioiosa e nei castelli
dell’Europa medioevale
Lo spazio cosmico solcato da
un’astronave
Nel clima nebbioso d’Inghilterra apparve dalle nuvole l’ancora di una nave, la
quale dopo aver girato intorno sette volte rimase agganciata
sotto un mucchio di pietre.
Spaventata la gente si mise a
gridare e in molti notarono la corda muoversi come se qualcuno
stesse tentando liberare l’ancora. Però, malgrado tutti gli
sforzi, l’ancora non cedette; allora nell’aria densa si udì
una voce simile al grido dei nostri marinai quando chiamano
l’ancora impigliata. A questo punto i navigatori volanti
mandarono uno di loro che scese lungo la fune. Tuttavia il
marinaio ‘extraterrestre’, quando aveva già liberato l’ancora,
fu afferrato dai presenti e malmenato. Il poveretto morì
soffocato dalla nebbia e dalla nostra umida atmosfera. Allora
sembra che i marinai celesti si misero a discutere della sorte
del loro compagno disperso e dopo un’ora tagliarono la fune e
vogarono via.
Così Gervasio di Tilbury riferì
-nel 1214- (Otia Imperialia, Decisio I, cap. 13), dell’ arrivo
di una misteriosa “nave celeste” e del linciaggio di uno dei
suoi occupanti da parte della folla. La “nave celeste” sarebbe
giunta sulla Terra proprio navigando in quelle acque
sovracelesti immaginate per attenuare l’intenso calore degli
attriti delle sfere planetarie che ruotavano nel Cosmo, acque
‘stellari’ di cui però un funzionario imperiale come Goffredo
da Viterbo già nel secolo XII negava l’esistenza [1].
Invenzioni prodigiose
Il vascello volante richiama le
note di Ruggero Bacone che, nel 1268, chiedeva a papa Clemente
IV di sostenere le ingenti spese necessarie alla ricerca
scientifica nonché per costruire strumenti e per organizzare
biblioteche [2]. Nella lettera al pontefice si chiedeva di
sostenere il ‘ragionamento inventivo’ perché “si possono
costruire strumenti per navigare senza rematori in modo che le
navi, sia per mare che lungo i fiumi, siano condotte con la
guida di un solo marinaio ad una velocità maggiore che se
fossero piene di rematori. … Si possono fare anche congegni
per volare in modo che un uomo seduto nel centro della
macchina azioni un congegno per mezzo del quale delle ali
costruite artificialmente battano l’aria come se si trattasse
di un uccello che vola” [3].
Il sottomarino
Fu Alessandro Magno a
trasmettere il mito del re non più solo avido di terre, ma
anche insaziabile ricercatore di nuovi orizzonti scientifici.
Si trattava di quel leggendario sovrano che “comandò alli suoi
ingegneri che facessono una gabbia di vetro molto splendiente
sicchè potesse vedere di fuora tutte cose chiaramente. E
comandò che la legassono con catene di ferro. E così com’elli
comandò fu fatto. Allora montò Alessandro in una nave e
missesi in alto mare, poi intrò nella gabbia e fecesi calare
intro il profondo del mare <insieme> alli suoi cavallieri di
quelli di cui più si fidava. E quivi vidde Alessandro di
diverse maniere pesci, e di diversi colori, e molti che si
assimigliavano a bestie terrene e andavano per lo fondo del
mare quelle bestie <e manicavano frutti d’alberi che nascono
nel fondo del mare e quelle bestie> venieno ad Alessandro poi
fuggivano immantenente. E anche vi vidde altre maravigliose
cose che io non voglio dire imperciocchè non sarebbeno
credevoli alli uomini. E quando ebbe tutto questo veduto si
fece tirare su …” [4]
Il racconto divenne simbolo del
sovrano-scienziato che organizza con metodo le indagini.
Infatti Ruggero Bacone esaltò la metodologia sperimentale che
è “di due tipi; una è ottenuta mediante i nostri sensi
esteriori e per tal mezzo noi facciamo esperienza di ciò che
accade in cielo mediante strumenti opportunamente costruiti e
di ciò che accade sulla terra mediante ciò che ci testimoniano
i nostri organi visivi. Le cose, poi, che non possiamo vedere
perché non esistono nei luoghi in cui ci troviamo le veniamo a
conoscere per mezzo di altri sapienti che ne hanno fatta
l’esperienza. Così fece Aristotele che per incarico di
Alessandro Magno inviò duemila uomini nei diversi siti
dell’universo allo scopo di avere una conoscenza empirica
diretta di tutto ciò che esiste sulla superficie della terra
come testimonia Plinio nella sua Storia Naturale” (VIII – 44,
(17) [5].
La disavventura del naufrago
celeste e i progetti scientifici di Ruggero Bacone come
l’avventura del re Alessandro Magno esprimono con efficacia
quanto ampio fosse il sistema di relazioni che, nel Medioevo,
legava la Terra al Cielo e l’Uomo al Cosmo. Tutti questi
rapporti condizionavano i destini della vita dell’uomo e degli
stati; pertanto era necessario scrutare gli astri sia per
studiarne matematicamente i movimenti sia per divinare il
futuro. Gli ampi orizzonti della scienza medioevale sono ben
rappresentati dalle leggende che assegnavano all’astrolabio
[6] sia la proprietà di fissare correttamente l’altezza di un
pianeta a una determinata latitudine sia la capacità di
inviare ordini ai demoni celesti [7].
Dai prodigi celesti alle
gioie terrestri
La vasta dimensione, mentale e
fisica, dello spazio appare dal racconto tramandato dagli Otia
Imperialia che trasmette l’intensità della curiosità
scientifica di un Medioevo connotato da dimensioni
cartografiche estremamente ampie e dalla convinzione
dell’esistenza di esseri dalle forme più diverse come
testimoniato dai Bestiari e dalle stesse rappresentazioni che
figurano sul mappamondo di Ebstorf attribuito proprio a
Gervasio di Tilbury.
Altrettanto risulta in analoghe
elaborazioni geografiche e tra queste la carta del Salterio di
Londra, (British Library, ms. Add. 28681), come il mappamondo
di Hereford, la tavola Peutingeriana, l’Atlante di Andrea
Bianco del 1436, (Venezia, BN Marciana ms. It. Z, 76 = 4783,
f. 10) offrono le dimensioni di uno spazio del Veneto ove
-quando appaiono- Verona, Padova, Venezia, Aquileia sono
rappresentate come parte di un contesto unitario
caratterizzato dalla immensità dell’Adige. Entro questi
contorni cartografici si colloca la Marca Amorosa. Terra ben
collocata all’interno del patriarcato di Aquileia giacché si
legge che:
“v'è la marca di Trevigi,
ch'è nel patriarcato d'Aquilea, / là ov'egli ha diciotto
vescovi, che toccano le parti di /Lamagna, e di Zara e di
Dalmazia su 'l mare” [8].
Di questa Terra l’anonimo
autore dell’Entrée d’Espagne quando si riferisce alla Marca
trevigiana [9] la definisce appunto terra gioiosa. In questo
poema franco-italiano del ‘300, l’espressione joiose, in
associazione con l’attributo cortois, qualificava il vasto
territorio della pianura padana orientale, comprendente le
principali città della terraferma veneta, come luogo
privilegiato della vita cortese e cavalleresca “in cui tra le
insidie e le guerre fiorivano le feste e i tornei”
accompagnati dalla “poesia trobadorica” [10].
E ‘Giocosa’ si chiamava la casa
di Mantova dove nel 1423 Vittorino da Feltre insegnava ai
figli di Gianfrancesco Gonzaga, ‘giocosa’ perchè in quel luogo
si studiava e si giocava e perchè alle pareti vi erano dipinti
giovani intenti al gioco [11] che trasmettevano quella stessa
gioia che si rileva nell’osservare i ragazzi che si tirano le
palle di neve negli affreschi della Torre dell’Aquila di
Trento [12]. E proprio Gianfrancesco Gonzaga incaricò il
Pisanello di decorare la Chiesa di Santa Croce con i cavalieri
della Tavola Rotonda che incontrano i nobili mantovani.
E ‘amorosa’ è la tradizione del
Decameron di Boccaccio (Decima giornata – Novella V) ove si
racconta che in Friuli, paese quantunque freddo, lieto di
belle montagne, di più fiumi e di chiare fontane vi fosse una
donna bella e sposata che subiva le pressanti attenzioni di un
nobiluomo.
Ora la dama, volendo liberarsi
da questa situazione imbarazzante, promise di cedere alle
insistenze del corteggiatore qualora ella avesse potuto
ottenere -nel mese di gennaio- un giardino pieno di verdi
erbe, di fiori, e di fronzuti alberi, non altrimenti fatto che
se di maggio fosse. Fu così che messer Ansaldo Gradense si
mise in contatto con un nigromante che realizzò per
grandissima quantità di moneta uno dei più bei giardini che
fosse mai stato visto.
Il poeta esprimeva così quell’entusiasmo
che lo colse nel vedere diversi giardini [13] incantati sparsi
per un’ Italia medievale dedita alla cura e all’osservazione
della Natura. Tra questi parchi spiccava per la sua bellezza
quello di Castellamare di Stabia che attrasse anche Carlo I d’Angiò.
E testimonianza di questi miti ce la offre lo stesso Chrètien
de Troyes che descrive un verziere che “non era cinto né da un
muro né da uno steccato, ma solo dall’aria che circondava
interamente il giardino per negromanzia, sì che non vi si
poteva entrare che per un unico accesso, proprio come se fosse
stato cinto da un’inferriata. Vi maturavano fiori e frutti sia
d’inverno che d’estate che, per incantesimo, si lasciavano
mangiare solo là dentro, e non permettavano che li si portasse
fuori. Chi avesse voluto prenderne uno non sarebbe mai
riuscito a uscire e non avrebbe raggiunto il varco finché non
lo avesse rimesso al suo posto.
...E la terra per tutta la sua
estensione non produce spezia o pianta medicinale tale da
guarire qualunque malattia, che non attecchisse in quel
verziere e non vi crescesse in gran quantità” [14] .
L’atmosfera di una Natura che
rende gioiosi i luoghi della Marca connoterà molte dei testi
che tramandono le storie delle corti dell’Italia
settentrionale.
Tirannia e cortesia nelle
città della Marca
Infatti la tradizione del nome
felice che designava la Marca Trevigiana si inserì anche nei
testi di mago Merlino che profetizzerà:
“la Marca amorosa diventerà
dolorosa e Lombardia e Romagna e Toscana ne sentirà e saranno
altresì dolorose, ivi appresso che la Marca il suo nome arà
cambiato d’amorosa in dolorosa /.../ la Marca amorosa arà uno
sì malvagio signore che sarà temuto dalla gente come una
folgora.
E sotto la sua signoria non
potrà lo padre parlare allo figliuolo né l’uno fratello
all’altro per paura della morte: ma egli arà una usanza buona
che egli non vorrà in suo’ terre né ladri né traditori ...
della sua superbia parlerà tutta Italia e ognuno lo temerà ...
” [15]. Non a caso, in questo contesto, risalta un manoscritto
del Roman de Merlin (Parigi, B.N., ms. fr. 15211) ‘visitato’ a
Padova dal Petrarca. Non a caso si ripercorre un’alternanza di
nomi già presenti nel ciclo arturiano quando Lancillotto
“entra nella Dolorosa Guardia; et cacciònne fuore la dama del
/castellano et tutta l'altra gente che non volse préndare
battesimo; / et rimutò il nome del castello et volse che fusse
chiamato / la Gioiosa Guardia; et fe disfare tutti e' loro
tempî, et / fêvi fare una ricca et bella chiesa” [16].
Immagini efficaci di affreschi,
di cronisti, di testi scientifici e letterari così come di una
vasta trattatistica giuridica, che confermano l’idea di queste
contrade gioiose espressione che è entrata persino nella
toponomastica veneta.
Tutta la Marca appare pervasa
da un ideale armonico della vita delle città e degli uomini
che si enuclea negli statuti di Treviso del 1313 [17] dove in
una premessa si sostiene che la concordia et unitas animorum
dei cittadini è una disposizione che dovrà corrispondere ai
criteri musicali dell’ armonia canora.
E’ Treviso quella città dove
ogni anno si svolgevano le battaglie del Castel d’Amore [18];
proprio nel corso di una di queste iniziative festose -nel
1214- il gioco degenerò in una piccola guerra di Troia.
Generalmente si trattava di un appuntamento ludico che vedeva
affrontarsi gentiluomini e dame. Per quell’incontro si costruì
un finto castello nel quale si fecero prender posto le
fanciulle, la struttura era dotata di difese ‘cortesi’:
ornamenti d’ogni genere, drappi e baldacchini. Dal loro canto
gli assedianti si servirono di proiettili altrettanto ‘gentili’:
datteri, frittelle, fiale di balsamo e ogni genere di fiori
[19]. Ma in quell’anno la rivalità tra padovani e veneziani
degenerò e il gioco licenzioso portò a un vero e proprio
confronto armato [20].
Non sempre i giochi erano
gradevoli. Alcuni di questi divertimenti assunsero il
carattere di una vera e propria danza macabra come quando
Alberico da Romano –nel 1250- fece impiccare 25 persone e per
far divertire i presenti costrinse trenta donne (le mogli, le
madri, le sorelle e le figlie dei condannati) a passeggiare
seminude tra le gambe degli impiccati [21].
Le fonti letterarie, al di là
delle aspre note di frà Salimbene, sottolineano che la Marca è
terra di gran diletti come cantava Niccolò de’ Rossi nel sec.
XIV [22] e così Fazio degli Uberti nel Dittamondo:
“Noi trovammo Trevigi, nel
cammino, / che di chiare fontane tutta ride/ e del piacer
d'amor, che quivi è fino” [23]; ma è terra in cui, per
Petrarca, “la bella contrada di Trevigi / Ha le piaghe ancor
fresche d'Azzolino” [24], si tratta del ... “ gran Lupo
rapace, / crudel Tiranno, Azzolin di Romano, / il quale ancora
a tutta gente spiace...” [25].
Dello stesso avviso era stato
Fazio degli Uberti che aveva descritto come fosse poco ameno
il colle dei da Romano; infatti:
“Tra Asolo e Bascian, da quella
proda / un monte sta vedovo e orfanino, / che del peccato
altrui poco si loda. / Di lassù scese in quel tempo Azzolino”
[26]. Sono queste quelle terre della Marca ove l’opposizione
tra crudeltà e cortesia vien messa in risalto da molti
commentatori danteschi giacchè si legge:
“In sul paese ec. Cioè, che in
sulla Marca / Trivigiana, dove corrono questi due fiumi, cioè
/ Adige e Po, si soleva trovare liberalitade, magnanimitade, /
e cortesia; ma ora nulla si fa di quello; e / questo è stato,
poi che Federigo, cioè lo Imperio, / briga ebbe con la Chiesa.
Or vi può passare ogni / cattivo” [27].
Si trattava di cattiveria
mitigata dalla passione per la lettura in quanto il tiranno
era un personaggio che tuttavia indulgeva ai piaceri della
vita cortese tanto che nel Novellino si legge che: Messere
Azzolino di Romano avea un suo favolatore, al / quale facea
favolare la notte quando erano le notti grandi / di verno”.
Una sera però il cantastorie
era stanco e cercò di evitare il compito raccontando di un
gregge che si trovava a dover attraversare lentamente un guado
e quando il narratore, preso dal sonno si interruppe “e non
dicea più. Messere Azzolino / disse: / “Andè oltra”. / E 'l
favolatore disse: / “Messere, lasciate passare le pecore, poi
conteremo il fatto” [28].
I sovrani leggevano o si
facevano raccontarie le ‘storie’: Mahaut contessa di Artois
inviava nel 1300 i suoi ordini per comprare un Tristano nonché
un Roman de Troye [29].
A conferma di ciò sappiamo che
“gli inventari delle biblioteche delle grandi dinastie
settentrionali – i Savoia, gli Sforza, i Gonzaga e gli Estensi
– riportano i titoli dei manoscritti, i libri di conto
attestano le spese per la loro acquisizione e la loro
conservazione, ma soprattutto le corrispondenze illuminano con
vivacità gli aspetti della loro fruizione, in quanto
letteratura di evasione che veniva gustata sia nell’intimità
della propria camera da letto, sia durante letture ad alta
voce in occasione di riunioni mondane, o di lunghi viaggi. Un
corollario importante di questo interesse per le storie
bretoni fu anche l’uso di trarne lo spunto per la scelta dei
nomi di battesimo dei propri figli” [30].
L’ epica permea ogni aspetto
della vita medioevale e le storie di Troia appaiono nelle
decorazioni che ornano i cavalieri
La dimensione di una vita
istituzionale del Medioevo caratterizzata dagli stili della
letteratura cortese risulta bene dal privilegio di Bruges in
cui la città si sottomette al re Filippo VI: il documento (ms.
The Hague, KB, 75 D7) mostra ben miniate sia l’atto di
dedizione della città sia alcuni aspetti della vita cortese in
cui sono evidenti falconi e musicanti.
L’imitazione dei cicli epici
Per comprendere a cultura delle
corti del ‘200 occorre apprezzare quella mentalità fatta di
immagini poetiche e architettoniche con cui ci si dilettò ad
imitare e a riprodurre eventi della Storia reinterpretati
spesso con la mediazione dei cicli epici .
La Chanson de Roland come le
imprese dei cavalieri della Tavola Rotonda furono e sono libri
affascinanti che furono letti e rappresentati anche nella
Marca:le tracce di questa pittura laica sopravvivono nei cicli
pittorici della chiesa di Sesto al Reghena [31] (Pordenone),
negli affreschi di Treviso (Museo Civico) così come in molti
castelli dell’Italia settentrionale.
Spiccano tra queste
raffigurazioni artistiche e letterarie: Castel Rodengo
(Merano) con il ciclo di Ivano e Castel Roncolo (Bolzano)
quest’ultimo costruito anche in forza di un instrumentum del
notaio imperiale di Federico II; nelle sale del castello
appaiono sia i cicli epici con le rappresentazioni di Carlo
Magno [32] e Artù e Tristano sia la descrizione dei giochi con
la palla e dei tornei come le scene con musicanti) e
falconieri [33].
Altrettanto efficaci sono i
cicli figurativi con le storie dei cavalieri della Tavola
Rotonda nel castello di Frugarolo (Alessandria) ove c’è un re
Artù che istruisce all’arte della falconeria [34].
Cicli questi ripresi anche
dalla tradizione manoscritta arturiana così ben appare dal
manoscritto di Yale 229 riccamente miniato [35] .
In tutte queste
rappresentazioni risultano ricorrenti le immagini
naturalistiche, la presenza di scene cortesi; frequentissime
le immagini di falconieri che fanno in modo che si possa
rappresentare un contesto unitario della vita cortese che ben
si lega all’affresco bassanese di Palazzo Finco ove si notano:
un giullare con la viella, un giovane misterioso, un Federico
II che offre sorridente una rosa a una dama, verosimilmente la
regina Isabella, che con un guanto da caccia sorregge un falco
[36].
La scena richiama un passo del
Tristano ove si descrive una scena gioiosa in cui si trova il
principe “nella [camera] della /reina co llei insieme, e la
reina arpava e diceva una canzone / ch'ella avea fatta” [37].
I rapporti tra tradizione
letteraria e amministrazione delle corti medievali appare
intenso e interdipendente: come nei Gei celtici, come nel
Perceval e nel Lancelot o nella Vengeance Raguidel i sovrani
agiscono come gli eroici cavalieri. I signori accompagnano i
loro propositi con ‘voti’ che ne simboleggiano la
determinazione: Filippo il Buono –nel 1454- si impegna a non
dormire sino a quando non avrebbe sfidato a duello il Turco.
Al tempo stesso la Marca
compone la sua tradizione gioiosa con la fama della forza dei
suoi cavalieri che vengono reclutati anche da altre regioni.
Si legge così che:
“Nel detto anno MCCCXXI i
Fiorentini mandarono /in Frioli per cavalieri a soldo, e
vennono in Firenze / del mese d'agosto CLX cavalieri a elmo,
con altrettanti / balestrieri a cavallo tra Friolani e
Tedeschi, molto / buona gente d'arme, ond'era capitano Iacopo
di / Fontanabuona grande castellano di Frioli” [38].
In queste immagini pittoriche e
poetiche vi è la sintesi della vitalità pensiero politico e
scientifico del secolo XIII. Infatti la cultura medioevale si
caratterizzò proprio per il vicendevole intrecciò di
discipline: i poeti dovevan sapere di scienza così come i
giuristi non potevano esimersi dal conoscere la poesia.
Le fonti iconografiche e
letterarie evidenziano un mondo del pensiero estremamente
interdipendente e lontano da ogni settorializzazione ove
poesia, scienza e politica si mescolano fra loro. E le fonti
storiografiche legano a radici antiche le tradizioni epiche
friulane che raccontano ancora nel Basso Medioevo le imprese
del condottiero Maximus che la leggenda vuole sia stato l’avo
di re Artù. Infatti nel volgarizzamento dell’opera di Orosio
si legge come l’imperatore romano intervenne proprio a
Aquileia contro “quello suo nemico grande e crudele, chiamato
Massimo, / e che addomandava i trebuti e gli spendi, /
solamente per paura del nome delle crudeli genti / di Germania
ch' avea seco” [39].
Poesia e filosofia esaltano
le virtù dell’uomo sapiente
Questo intersecarsi di
interessi è cantato da Ruggiero Pugliese che vanta la
polifilia medievale:
“Tant' aggio ardire e
conoscenza / ched ò agli amici benvoglienza /e i nimici tegno
in temenza; / ad ogni cosa do sentenza / et ag[g]io senno e
provedenza / in ciascun mestiere: / k' eo so bene esser
cavaliere / e donzello e bo[n] scudiere, / mercatante andare a
fiere, /cambiatore ed usuriere, / e so pensare. / So piatare
et avocare, / cherico so' e so cantare, / fisica saccio e
medicare, / so di rampogne e so' zollare” [40].
Il tutto risulta bene da un
manoscritto che generalmente viene studiato come se i due
testi rilegati assieme fossero stati uniti per caso; un chiaro
esempio della unitarietà della cultura medievale è
rappresentato dal ms. oxoniense della Bodleian Library, Digby
23 che presenta due opere distinte: il commento di Calcidio al
Timeo e la Chanson de Roland. Su questa linea anche il ms.
Bodley 264 che racchiude diversi libri delle meraviglie tra
cui le imprese di Alessandro e i viaggi di Marco Polo.
Testi per noi diversi
accomunati già nel sec. XIII da un unico intento dal legatore
ed evidentemente dal lettore perchè, come recita una chiosa,
in quodam libro in Timeo exortabatur homines ad virtutem (c.
3rA). Si intende evidentemente accostare uella stessa armonia
che pervadeva corpi celesti ed elementi caratterizzava anche
le gesta di Orlando giacché gli astri influiscono sulle virtù
dei cavalieri e gioiscono o patiscono quando il paladino vince
o soffre. E difatti nella Chanson con ‘il Sole fu bello’ si
segnala la disposizione di Dio a tutelare i cavalieri, si
indica dove sta il diritto e dove la ragione; ma quando
Orlando muore ‘A mezzogiorno vi sono grandi tenebre: / non v’è
chiarore, se il cielo non si fende’ e tutto è accompagnato dai
rumori degli uragani e dei terremoti che indicano la fine del
mondo.
L’intreccio tra cultura
scientifica e letteraria è testimoniato da numerosi
manoscritti che circolarono in area patavina e questo dato è
rafforzato dalla presenza di poeti della Marca come Uc de
saint Circ che avevano studiato a Montpellier, città
universitaria nota per gli studi di medicina, mentre Sordello
da Goito migrò verso la Provenza dopo il suo soggiorno nella
Marca [41].
E che la cultura cortese fosse
fondata su di un mescolarsi di discipline è ben testimoniato
proprio da Galvano, cavaliere di re Artù. Infatti dell’eroe si
racconta che “sapeva meglio di chiunque altro guarire le
piaghe”. E quando si accorse di un cavaliere ferito “Vede in
una siepe un’erba molto efficace contro i dolori da ferita, va
e la coglie”. Poi si avvicina alla damigella disperata e solo
dopo aver constato che “il polso è buono, che la bocca e la
gota non sono troppo fredde” dice:
“Questo cavaliere, damigella, è
vivo, siatene certa: ha buon polso e buon respiro e le sue
piaghe non l’ uccideranno. Ho portato un’erba da cui avrà
beneficio, credo, che diminuirà i suoi dolori appena l’avrà
sentita. Non v’è erba migliore per medicare le ferite.
I libri dicono ch’essa ha tanta
forza che se la si legasse alla corteccia di un albero molto
vecchio, ma non ancora del tutto disseccato, le radici
riprenderebbero vita e l’albero diverrebbe sì sano che sarebbe
tutto coperto di foglie e fiori” [42].
La tradizione cortese è
intessuta di riferimenti ai trattati di medicina giacchè anche
Isotta si mette a curare disperatamente Tristano “e quanto la
ferita più medicava più pegiorava” eppure l’intervento
disperato alla fine riuscì [43]:
“Isotta si procaccia assa' pur
di trovare tutte le cose che a questa / fedita fanno mistiere,
e ffecie venire erbe e ffae inpiastri /e ppogli sopra la
fedita, sì che Tristano si sentia in poca / d'ora meno dolore.
E disse: «Damigiella, questa
medicina /pare che mi guerisca». Ma tanto si procaccia Isotta
/ che guerio Tristano. E dissegli: «Cavaliere, salteresti tue
/ ancora?» E Tristano disse che ssie e quella igli dicie: «Or
/ salta il più che ttue unque puoi ora, che tti voglio
vedere». / E allora Tristano sì salta e ssaltoe XXII piedi. /
Allora la fedita sì s'aperse e la damigiella sì incomincioe /a
medicare Tristano …
/ Or dicie lo conto che Issotta
sì fecie saltare / Tristano perchè no le parea che ffosse bene
guerito dela / fedita. Ma da ivi a nove dì Tristano sì fue
molto bene guerito / e Isotta gli disse: «Sì salta anche,
cavaliere, una /fiata, al più che ttue puoi». E Tristano sì
salta e ssaltoe / piedi da XXXII. E allora gli disse Isotta:
«Tristano, tu / ssee bene guerito, ma io non vidi unqua
cavaliere che / ttanto saltasse quanto voi» [44].
La competenza medica di Isotta
nasce da un fallimento di un’altra regina; infatti:
“Essendo questa Isotta davanti
allo re suo padre, egli / le disse: - Figlia mia, qui si è uno
cavaliere di lontano paese, / il quale èe inaverato
sconciamente, e di sua navera non / truova alcuno aiuto nè
rimedio di guarire. E però io ti prego, / bella figlia, che
tue lo prenda a tua cura; e ciò voglio / facci per lo mio
amore. Isotta allora rispuose: - Padre / mio, cotesto farò io
molto volontieri - . E se alcuno volesse / saper perchè lo re
Languis non diede in cura Tristano a sua / dama, la reina
Lotta, la quale era più saputa medica del mondo, / io diròe
che dal dì in qua che l'Amoroldo suo fratello / morì, ella non
volle più medicare, per grande dolore che ella / avea, chè dal
dì medesimo l'avea curato e non lo potè campare; / sicchè per
questo ella non voleva più impacciarsi in medichería; / anzi
diceva: - Poi ch'io non potei campare lo mio / fratello, non
piaccia a Dio che niuno altro io voglia guarire né / curare -
; e per questa tale cagione, medicava alcuna volta / questa
sua figliuola Isotta. Dice che mirando Isotta la ferita / di
Tristano, tantosto conobbe com'ella era attossicata; e allora
/ lo medica in altra guisa e maniera; e tanto fece colle sue
buone / medicine, che in trenta giorni Tristano fue quasi come
/guarito”.
L’esperienza medica così
acquisita appare però insufficiente quando Tristano fu ferito
a morte e l’insuccesso è sottolineato dal consulto dei medici
chiamati da una: “dolente reina Isotta, la quale era assai
trista / e dolorata; e sì torna al castello Dinasso, e tanto
tosto si mise / nello letto, e assai medici sì vi furono, ma
niuno nolli sapea / dare conforto: tanto era la ferita
pericolosa. Imperò che sappiate, / che lo colpo che lo re
Marco diede a Tristano, sì fu / mortale e pericoloso e molto
dannoso” [45].
Linguaggio attento alle
terminologie mediche anche quando Yvain preso da follia vede
il prevalere della ‘melancolia’ e poi rinsavisce grazie ad un
unguento dalle proprietà magiche [46].
E ancora l’intreccio tra
medicina amore appare in Lancillotto.
Infatti nell’ambiguo gioco di
specchi in cui romanzi sembravano riflettere la vita la quale
a sua volta si proponeva di imitare i romanzi, l’oggetto -
splendido e ricco di fascino evocativo – tra le mani della
dama o del cavaliere rifletteva ad un tempo la vita e il
romanzo.
Toccò proprio a Lancillotto,
mentre cavalcava con una damigella, scorgere “… una fonte in
mezzo a un prato. Sul masso che vi era accanto non so chi
aveva dimenticato un pettine d’avorio dorato. Mai un saggio
dai tempi di Isore ne vide uno più bello. E colei che se ne
era servita vi aveva lasciato tra i denti almeno un mezzo
pugno di capelli…”.
Allora Lancillotto desidera
regalare il pettine alla damigella “…ma prima di porgerglielo
ne trae i capelli con tale delicatezza che non ne spezza
neanche uno solo. Mai occhi umani potranno vedere portare
tanto onore a una cosa: egli prende ad adorare quei capelli e
li avvicina agli, alla bocca, alla fronte e al viso almeno
centomila volte; non tralascia alcuna manifestazione di gioia
se ne rallegra e si sente arricchito. Infine li ripone sul
petto, accanto al cuore tra la carne e la camicia; non li
avrebbe barattati con un carro colmo di smeraldi e diamanti.
Si sente al riparo da ulcerazioni e da ogni altro male,
disdegna elettuari preparati con perle, teriaca o rimedi
contro la pleurite…[47]”.
Ecco ben evidente come nella
letteratura cortese la forza del simbolo d’Amore garantisce la
salute e si tramuta in Scienza segnalando una cultura cortese
multiforme e interdipendente.
La ‘ricostruzione’ della
Natura
E’ degno di nota che Galvano
non solo sia coraggioso, ma abbia letto (e verosimilmente
anche Isotta) quei libri [48] che appartengono alla tradizione
degli erbari medievali e alla circolazione latina del trattato
di Dioscoride cioè di quel medico militare che scrisse in
greco il celebre De Materia Medica ove sono descritte e
raffigurate circa 600 piante medicinali. In quei disegni
miniati si ravvisa l’intento di avere uno strumento
utilizzabile e quindi ben ordinato e questo si riscontra anche
nel tentativo di raffigurare in modo realistico le piante
catalogate così come risulta anche dal codice di Vienna del De
materia medica che influì sull’erbario medico del sec. VII
(Napoli, BN, ms. gr. 1) e quindi nelle stilizzazioni della
copia del Dioscoride del sec. XIII-XIV (Padova, Biblioteca del
Seminario, ms. 194). Dal testo del Perceval appare anche
l’esistenza di scuole di medicina presso la corte del sovrano.
Infatti quando Keu dopo essere stato sconfitto dal cavaliere
affascinato dalle gocce di sangue che spiccano sul candore
della neve viene soccorso. “Allora il re, che ama il
siniscalco, gli invia un dottore esperto e tre damigelle
istruite alla sua scuola, che riducono la clavicola e i
frammenti dell’osso del braccio che non mancano di bendare”
[49]
Dunque contrariamente a quanto
notava Dante c’era affinità tra tradizione cavalleresca e
letteratura scientifica: Galvano e Isotta avevano letto testi
di un mondo che non gli sarebbe dovuto essere affine.
La necessaria diversità tra
campi di indagine appare in un passo del Convivio ove si
legge:
“Ancora: dare cose non utili al
prenditore pure è bene, in quanto / colui che dà mostra almeno
sé essere amico; ma non è perfetto bene, / e così non è
pronto: come quando uno cavaliere donasse ad uno medico / uno
scudo, e quando uno medico donasse a uno cavaliere inscritti /
li Amphorismi d'Ipocràs o vero li Tegni di Galieno. Per che /
li savi dicono che la faccia del dono dee essere simigliante a
quella / del ricevente, cioè a dire che si convegna con lui, e
che [li] sia utile: / e in quello è detta pronta liberalitade
di colui che così dicerne / donando” [50].
E proprio gli antichi modelli
iconografici degli erbari avrebbero influito su quella
tipologia delle immagini tesa a rappresentare ea que sunt
sicut sunt e che traspare sia dal De arte venandi cum avibus
(ms. Roma, BAV, Pal. lat. 1701) sia dalla cosiddetta Bibbia di
Manfredi (ms. Roma, BAV, Vat. lat. 36 e in particolare ms.
Torino, BN, E IV 14) opere che circolarono ampiamente
nell’ambito svevo e ghibellino. Conforta questa tesi la
testimonianza offerta dalle miniature degli ‘erbari gemelli’
(mss. di Vienna cod. 93 e di Firenze, Laurenz. 73.16) frutto
dell’editoria scientifica promossa da Federico II e Manfredi.
In tutto ciò se Galvano parla
con il linguaggio dei medici, Aimerico –nel prendere in giro
Sordello da Goito- ripercorre gli echi arturiani: così
Sordello poeta della Marca è un ruffiano, un matto, uno che
riesce a prendere un boccale in testa in un modo non s’era mai
visto nemmeno ai tempi di re Artù [51].
La critica giocosa e
irriverente si accompagnò nella Marca a un atteggiamento di
pensiero che non riposava più sulla mera fiducia nei confronti
delle ‘autorità’ del passato. Infatti il medico Bruno da
Longoburgo, attivo a Salerno e poi a Padova e nella Marca,
dichiarò con nettezza, nella sua Chirurgia Magna (terminata
nel 1252), che avrebbe seguito il pensiero dei ‘classici’ solo
dopo che quei risultati fossero stati confermati dalla ragione
e dalla esperienza (testimonio rationis et exercitio ultimo)
[52]. Esperienze talora rischiose visto che nel 1290 la corte
inglese –itinerante- dovette rimborsare un abitante di
Winchester che ebbe la casa bruciata per un incendio esploso a
causa di un esperimento del magister e physicus Ralph medico
reale [53].
I segni di sventura
In questo quadro tutte le forze
della Natura debbono essere ben scrutate perché quando si
scatenano appaiono devastanti come nell’occasione del
terremoto che colpì il Friuli per punire gli ‘usurai’. Così
–nel giorno della conversione di san Paolo- dell’anno 1347 “a
ora / ottava e quarta appresso vespro, che viene ore / cinque
in fra la notte, furono grandissimi tremoti, / e durarono per
ispazio di più ore, i quali non si / ricordano per niuno uomo
vivente simili. In prima / in Silici la porta di verso Friuli
tutta cadde.
In Udine parte del palagio di
messer lo patriarca / cadde, e più altre case; e cadde il
castello di / san Daniello in Friuli, e morironvi più uomini /
e femmine. Caddono due torri del castello di Ragogna, / e
iscorsono infino al fiume del Tagliamento, / così nomato, e
morironvi più genti.
In Gelmona / la metà e più
delle case sono rovinate e / cadute, e 'l campanile della
maggiore chiesa tutto / si fesse e aperse, e la figura di san
Cristofano / intagliata in pietra viva si fesse tutta per lo
lungo.
Per gli quali miracoli e paura,
i prestatori a / usura della detta terra convertiti a
penitenzia, / feciono bandire, che ogni persona ch' avesse
loro / dato merito e usura, andasse a loro per essa; e / più
d' otto dì continuarono di renderla.
In Vincione / il campanile
della terra si fesse per mezzo, / e più case rovinarono; e il
castello di Tornezzo /e quello di Dorestagno e quello di
Destrafitto caddono / e rovinarono quasi tutti, ove morì molta
/gente [54].
Studiare, interpretare e
rappresentare i segni della Natura appare l’obiettivo di una
scienza pluridisciplinare che tentò anche di riprodurre i
meccanismi di una machina mundi perchè così si segnalava
l’efficacia dell’ imperatore, del dominus Mundi.
Al tempo di Federico II e di
Ezzelino da Romano ciascun momento della vita privata e
pubblica era organizzato ispirandosi ai principi per cui tanto
l’organismo del corpo umano quanto il meccanismo, la machina,
della vita sociale rispondevano alle armonie celesti e tutto
ciò doveva essere apprezzabile dai cittadini (non a caso gli
affreschi astrologici del Palazzo della Ragione di Padova [55]
testimoniano una realtà ove la giustizia civile era
amministrata in un quadro sovrastato dal diritto celeste).
La rilevanza assegnata dal
render pubblica la sintonia con la Natura di chi guida
l’Impero fu manifestata dalla messa in opera di veri e propri
eventi propagandistici. Un esempio significativo di queste
scenografie è quanto accadde -secondo la testimonianza di due
cronisti- durante le nozze, combinate dalle trattative di Pier
della Vigna (ca. 1190-1249) che per questo fine si recò in
Inghilterra [56], tra la sorella del sovrano inglese Enrico
III e Federico II.
Gli accordi prematrimoniali
furono intessuti tra il novembre 1234 e il febbraio 1235; le
trattative iniziarono con una lettera di Federico II ove si
premette quanto queste unioni siano necessarie per ottemperare
all’armonia della Natura [57].
E quando poi si celebrarono le
nozze, nel febbraio del 1235, Isabella d’Inghilterra venne
accolta a Colonia dove le strade erano cosparse di fiori e su
quel terreno, per excogitatum ingenium, le si fecero incontro
delle navi che sembrava che veleggiassero, ma che in realtà
eran mosse da cavalli nascosti da onde di seta che coprivano
anche i clerici suaviter modulantes [58]. Il cronista evoca
qui delle immagini di cui possiamo cercare un riscontro nella
sequenza dei disegni che raffigurano nel manoscritto che
tramanda le storie di Tristano i preparativi per le nozze con
Isotta: in quelle carte si possono osservare navi che
accolgono damigelle elegantemente vestite e che imbarcano
ceste che fanno intuire la gran festa [59].
Storie d’amore illustrate e
cantate come quella di Robin e Marion (Bibliothèque Méjanes
Ms. 166 Rés Ms 14; Paris BN fr. 25566) ci fanno ricostruire i
caratteri della cultura cortese medievale [60] che fu favorita
anche dal re Roberto d’Angiò (1309-1343), figura politica
eminente, tra i cui meriti culturali si ricorda la
costituzione di una vastissima biblioteca di corte tanto che a
Napoli soggiornarono Boccaccio e Petrarca; mentre Marchetto da
Padova gli dedicò il Pomerium artis musicæ mensuratæ e
Philippe de Vitry un proprio mottetto (riportato nel Codice di
Ivrea). E benchè siano piuttosto scarse le notizie
sull’evoluzione della musicadurante il periodo angioino;
tuttavia è ben noto un lungo soggiorno napoletano di Adam de
la Halle, giunto nel 1283 al seguito di Roberto II. Per la
corte angioina, che lo ospitò sino alla morte; proprio in quel
contesto il musicista compose Le jeu de Robin et Marion, primo
esempio di teatro medievale; inoltre Adam dedicò al re Carlo I
un incompiuto poemetto epico, Le roi de Sezile [61].
Astrologia e astronomia
nella vita pubblica e privata
La cronaca delle nozze di
Federico II con la regina Isabella permette di apprezzare una
caratteristica della vita cortese che appare sempre attenta ai
moti dei pianeti. Infatti i cronisti sottolinearono come l’
Imperatore nella prima notte che passò con la nuova moglie
noluit eam carnaliter cognoscere donec competens hora ab
astrologis ei nunciaretur. Venne quindi il momento propizio e,
consumata carnali commixtione summo mane, l’Imperatore allora
si disse certo che il concepito fosse un maschio, il che non
fu.
In questo caso le cronache
evidenziano la teoria di un Federico II che sentiva la
paternità come un dovere di natura. Non a caso le trattative
per il matrimonio iniziarono con una lettera dell’imperatore
ove si premette quanto queste unioni siano necessarie per
ottemperare all’armonia della Natura; infatti: Matrimoniorum
sacra solempnia ex institutione divina induxit necessitas.
Necessario enim oportebat genus humanum in successorum
propagine vivere ne sublatione presentium perpetui casui
subiaceret.
E’ pur vero che il discorso e
le trattative non tralasciarono di discutere di danari [62],
tuttavia l’imperatore svevo esordisce affermando un principio
di ordine bioetico. Per di più i testi mostrano un sovrano
svevo che a Aquileia si fece singolare finanziatore di una
donna che era nota per i suoi parti gemellari tanto da
riuscire ad avere ben quarantadue figlioli [63].
Celebrate le giuste nozze
Federico II, confortato dai buoni auspici astrali e carnali,
si recò a Magonza dove sfruttò l’ottima natura del momento per
sviluppare la sua azione legislativa [64] poi espressa nella
Constitutio Pacis dove dispose che sub felici nostrorum
temporum statu vigeat pacis et iusticiae moderamen.
L’astrologia e l’astronomia
erano scienze indispensabili al sovrano e ne orientavano le
scelte. Così astrologi come Guido Bonatti e Salione da Toledo
furono attivi nella Marca. Proprio in un trattato di Salione
si insegna a stabilire secondo criteri astrologici come si
possa a rispondere a domande quali: se si avranno figli o
meno, in che periodo della propria vita si potrà essere
affetti da malattie, se ci si sposerà o meno, come scegliere
un itinerario, come si comporterà un re, un amico, un nemico.
La tipologia delle domande appare molto simile ad analoghi
quesiti riportati nel Liber Introductorius (Oxford, Bodleian
Library, ms. Bodley 266) di Michele Scoto astrologo imperiale.
Sempre Salione propone anche
come identificare astrologicamente il momento migliore per
procreare secondo determinate scelte cosmiche e questo ci
riporta alla mente la tecnica utililizzata anche da Federico
II dopo il matrimonio con Isabella d’Inghilterra.
Il testo, al di là
dell’improbabile validità astrale, appare un valido strumento
per tentare di intendere quali fossero le preoccupazioni
dell’uomo medievale. Infatti Salione nel rispondere a diversi
quesiti: a chi chiede di sapere se un figlio sia legittimo o
prodotto da un adulterio, a chi vorrebbe conoscere se il
nascituro sarà sapiente o un bruto, come si interpretino i
segni del volto nonché gli occhi ytalicorum vel gallicorum, ci
fa intendere quali fossero le possibile ansie di chi si recava
a chiedere di interpretare i destini celesti. Del resto nel
manoscritto si susseguono le domande sulle possibilità di vita
di un neonato (se riuscirà a nutrirsi, se crescerà, se morirà
subito dopo il parto). si assegna l’influsso dei diversi
pianeti sull’indole di ciascun neonato (ad es. Mercurio
contribuirà a farne un uomo di legge, di buone qualità
oratorie, appassionato alle antiquas res gestas, e quindi
dimostrerà un intelletto veloce e avrà molti libri).
L’astrologo inoltre insegna a riconoscere i signa: stulticie,
ystrionum, fidelitati, scelerum, latronum, fornicationum
virorum et mulierum, sodomitarum, impudicicie, castitatis… etc
L’astrologo di Ezzelino appare
estremamente attento all’analisi dei temperamenti umani e di
come questi possano essere regolati dai pianeti (ad es. quando
domina Marte la persona sarà di colore rosso con occhi bianchi
di grande statura e naso di notevoli dimensioni, con un buon
ingegno, ma con un cuore che lo induce a pensare e a parlar
male). In questo contesto si legge come l’influsso del Sole e
della Luna in Marte porteranno il nascituro ad avere grandi
possedimenti, dignità et habebit auxiliatores et sequaces et
scribas et portabuntur vexilla ante ipsum et perficitur
mandatum eius a populo [65].
Emerge da queste note
l’importanza di una scienza astrologica che per Michele Scoto
permetteva ai suoi artefici di conoscere multa secreta Dei e
di ottenere posti di prestigio presso magnates et barones
perchè riesce a sollevare dalle ansie gli uomini di potere
[66].
Ecco perché presso Ezzelino da
Romano operava anche Gherardo da Sabbioneta e della sua
attività abbiamo testimonianza in un codice della Biblioteca
Apostolica Vaticana [67]. Dal manoscritto emerge che
l’astrologo nel suo responso, intitolato significativamente De
exercitu et bello, escluse come non propizio alla battaglia
–sulla scorta dell’auctoritas di Aristotele - il giorno 22
agosto.
Il quesito dovrebbe
corrispondere all’azione militare che portò poi Ezzelino a
mezzogiorno del 25 agosto del 1259 a lasciare Brescia per
tentare di occupare Milano la più ricca ed irriducibile nemica
dell' Impero; un analogo quesito fu riferito da Rolandino da
Padova per una data successiva al 23 agosto [68]. Con questo
vaticinio Gherardo avrebbe dunque annunciato la possibiltà di
una sconfitta essendo il quadro astrologico sfavorevole “pro
exercitu ficiendo neque pro bello”; infatti Marte si sarebbe
trovato in angolo ascendente rispetto allo Scorpione e dunque
secondo l’autorità di scienziati come “Hali philosophus” (Ali
ibn Ridwan che commentò l’opera di Tolomeo) e degli astronomi
Zahel ibn Bishr e di Alkindi in posizione non favorevole alle
imprese belliche [69].
E anche per questo che i
palazzi del principe sono edifici dedicati al Sole, così
sembra esser stato per Castel del Monte che si pensa fosse
anche un osservatorio astronomico giacchè la capacità di
controllare e leggere gli astri era arte indispensabile al
sovrano. Non a caso nel Perceval si mette in risalto che
Galvano nel suo peregrinare verrà ospitato in un castello in
cui "la sala grande era protetta con arte e incantamento
poiché un chierico dotto d'astronomia che la regina vi
condusse ha installato nel palazzo macchine tanto meravigliose
che mai se ne videro di simili” [70].
Ancora una volta la tradizione
letteraria testimonia la vitalità delle esperienze
scientifiche applicate alla difesa del sovrano: è il Roman d’Eneas
che spiega come Didone avesse difeso Cartagine con una
triplice fila di enormi magneti che avrebbero inesorabilmente
attratto e bloccato gli uomini armati [71].
La morte dei tiranni
La stessa morte di Ezzelino
(1194-1259) assumerà nel cronista Rolandino da Padova il senso
di una vittoria della Natura sul tiranno che aveva stravolto
le regole del diritto delle genti. Alla sconfitta di Cassano
d’ Adda il popolo si radunò con clamore, come talvolta sono
soliti fare gli stormi di uccelli garruli e minacciosi.
In quelle drammatiche
circostanze la popolazione assisteva ai vani tentativi dei
sapienti; vani perché la medicina in qualche caso può
allontanare la morte, pur essendo impotente nell’evitarla.
Nonostante tanto affanno arrivò
la morte con quel morso finale che altitudinem spernit,
potenciam vilipendit, divitis preterit, superbiam calcat
pedibus, nobilitatem deridet.
Il cronista, nell’offrire
l’impietoso racconto, sottolineò come l’intervento della morte
sia portatore di eguaglianza giacchè corpora quoque cuncta
sive deformia sive speciosa deformat, suumque dominium
infallibile triumphaliter monstrat in cunctis gentis super
terram [72].
E ancor più dettagliata, e
compiaciuta, fu la descrizione de morte pessima Friderici
nella Vita Innocentii IV: infatti l’ imperatore laborans
gravibus dissenteriis, frendens dentibus, spumans, et se
discerpens, ac rugiens immensis clamoribus, excommunicatus et
depositus miserabiliter expiravit /.../ mors enim peccatorum
pessima et finis eorum interitur terminatur [73].
Era un destino terribile
riservato a chi, non contento di aver costruito latrine e
bordelli in luogo delle chiese, aveva coltivato la passione
della sodomia.
La morte di Federico II
rappresentava così la fine di colui che, come aveva notato il
cronista Saba Malaspina, aveva creduto con la sua arte
matematica di eguagliare la natura di Dio.
La sofferenza della fine era
indirizzata a cancellare materialmente le gioie di chi aveva
goduto di beni materiali. Fu così anche per Cangrande della
Scala ‘il più gran tiranno dopo Azzolino da Romano’ che per
Jacopo della Lana visse e morì percorrendo un itinerario già
tracciato dal mago di Federico II, infatti:
fu adempiuta la profezia di
maestro Michele /Scotto, che disse che 'l Cane di Verona
sarebbe signore /di Padova e di tutta la Marca di Trivigi. Ma
come piacque a Dio, e le più volte pare ch'avegna / per lo
piacere di Dio e per mostrare la sua potenzia, / e perché
niuno si fidi in niuna felicitade umana, che / dopo la grande
allegrezza di messer Cane, adempiuti / gli suoi intendimenti,
venne il grande dolore, che /giunto lui in Trevigi, e mangiato
in tanta festa, incontanente /cadde malato, e il dì de la
Maddalena, dì / XXII di luglio, morì in Trevigi, e fune
portato morto /a soppellire a Verona, e di lui non rimase né
figlio né / figlia legittimo, altro che due bastardi.... [74].
E per di più Cangrande morì durante una festa colpito dallo
stesso destino che aveva provocato l’assassinio del conte di
Gorizia [75].
La morte del tiranno fu, nel
pensiero medievale, contornata da segni profetici; in tal
senso si orienta la chiusura dell’opera di Rolandino: qui si
attribuirà ad Ezzelino da Romano un sogno ove con un’immagine
efficace appare quanto fosse inscindibile il vincolo tra
armonia della Natura e ordine dei Governi.
Infatti in quella visione il
colle di Romano cum castro et hedificio cominciò ad elevarsi
verso il cielo per poi tramutarsi in neve e dissolversi nel
nulla [76]; si annunciava così -con la rottura delle valenze
primordiali che connettevano in mixtiones i quattro elementi e
quindi con il dissolversi dei composti- la fine del Governo di
una famiglia che era stata accusata più volte di aver infranto
l’ ordo Naturae [77].
Tuttavia Ezzelino si ribellò
anche alla sconfitta e nonostante la clemenza dei vincitori
che portarono al suo capezzale i medici più sapienti non
permise ai dottori di farsi visitare e infine propriis manibus
sua vulnera laceravit [78].
Lo attendeva l’Inferno (If. XII)
di Dante, ma lo stesso Immanuel Romano poeta ebraico alla
corte dei Cangrande collocava all’ Inferno coloro che usarono
la Sapienza per la loro fama e promossero il loro nome sulla
terra /.../ perciò a mezzogiorno brancolano nella notte;
uomini diversi dai saggi delle nazioni del mondo che scelsero
tra tutte le fedi le opinioni che erano giuste e misero al
servizio di tutti la loro Sapienza e che sono in Paradiso
[79].
E proprio Dante incontrò nel
Paradiso (IX, 32) Cunizza da Romano sorella di Ezzelino III
donna che sembrò ritenere scandaloso non concedere il proprio
amore a chi glielo chiedesse e dunque amò erroneamente gli
uomini pur salvandosi perché riuscì ad indirizzare la forza
del suo sentire verso Dio riscattando in parte quella ‘terra
prava’ che per Dante era la Marca Trevigiana e che per
Francesco di Vannozzo era regione che con ‘Aquilea’ era terra
‘rea’.
E che la Marca e il Friuli
fossero terre accomunate dai vizi appare in Jacopo della Lana
che scrive: “qui biasema gli omini della Marca Trivisana e de
Friuli termenadi / da qui' fiumi de che fa mentione: sí caçuti
in vitii, che no i / nasse in quelle terre persone de chi dopo
la prima vita romagna / fama né mentione, sí che morta la
persona morto omne so onore / e fama. E noma la contrada per
li soi circustanti, çoè per quella / aqua che è appellada lo
Toiamento, che va e termena dall' una / parte, e per quell'
altr' aqua che è appellà l' Adige, che va dall' altro / lado e
fa so corso” [80].
Gli astri orientarono i destini
della Marca e del Friuli tanto che Matteo Villani notò che
–per il 1351- il passaggio di una cometa nel segno del Cancro
avrebbe provocato devastazioni. Fu allora che “alcuni
pronosticarono morte di grandi signori, overo per
decollazione, e avenimento di signore. Noi stemmo quell'anno a
vedere le novità che più singulari e grandi apparissono onde
avere potessimo novelle, e in Italia e nel patriarcato d'Aquilea
furono molte dicollazioni di grandi terrieri e cittadini, che
lungo sarebbe a riducere qui i singulari tagliamenti. E
mortalità di comune morte in quest'anno non avenne” [81].
Un Medioevo
multidisciplinare
Il mondo sovraceleste, la
scienza, la poesia, la politica appaiono formare un nucleo
compatto della cultura medievale volta a cogliere armonie
celesti e terrestri.
Ecco perché in una prospettiva
che voglia comprendere quanto le mentalità dei sovrani
medievali fosse condizionata dalla ‘filosofia della Natura’ si
dovrà presentare un ordine della società della Marca
Trevigiana fondato su un delicato equilibrio di genti diverse,
apparentemente opposte tra loro come gli ‘elementi’, tuttavia
tutte unite dal sovrano e dalla passione per i libri cantata
da Riccardo di Bury.
E’ questo il quadro offerto da
Immanuel Romano [82] che, esaltando la vita di corte di
Cangrande della Scala, presentava l’intreccio di popoli e di
discipline che caratterizzarono tutta la Marca; così la
lettura del Bisbidis può servire da efficace commento
dell’affresco del palazzo abbaziale di San Zeno a Verona [83];
infatti il poeta cantava:
...
Baroni et marchesi Di tutti
i paesi,
Gentili et cortesi, Qui veddi arrivare.
Quivi Astrologia Con Philosophia,
Et di Theologia Udrai disputare.
Quivi Tedeschi Latini et Franceschi
Fiamengi e Ingheleschi Insieme parlare;
E fanno un trombombe Che par che rimbombe
A guisa di trombe Che pian vol sonare
Chitarre et liuti Viole et fiauti
Voci, alti et acuti, Qui s’odon cantare.
...
Qui boni cantori Con
intonatori,
Et qui trovatori Udrai concordare.
...
Quivi babbuini, Romei,
peregrini,
Giudei, Sarracini Vedrai capitare.
...
Istruzzi et buovi Selvaggi
ritrovi
Et animai novi Quant’ huom pò contare.
Qui sono leoni, Et gatti mammoni;
Et grossi montoni Vedut’ ho cozzare.
...
Qui son altri stati Sì ben
divisati,
Che tra li beati Sen può ragionare.
Sono versi straordinari che
rendono evidente quanto siano ingiusti e ingiustificati quegli
interventi di storici improvvisati (ma anche affermati il che
è più grave) che, in questi giorni drammatici, parlano spesso
di ‘integralismo medievale’.
Piero Morpurgo
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- A Connecticut Yankee in King
Arthur's Court.
Note:
1 Si rinvia qui a P. Morpurgo,
L’armonia della natura e l’ordine dei governi – Studi sulla
cosmologia e sulla politica dei secoli XIII-XIV, Micrologus 4,
Turnhout – Firenze 2000; ulteriori riferimenti bibliografici
in http://www.morpurgo.wide.it; una versione ridotta di questo
testo è nella sezione Didattica in
http://www.edscuola.com/archivio/didattica/federico_ii.html
2 Sulla tecnologia medievale
http://scholar.chem.nyu.edu/~tekpages/Subjects.html sulle
invenzioni
http://www.smith.edu/hsc/museum/ancient_inventions/hsclist.asp
3 Ruggero Bacone, I segreti
dell’arte della natura, F. Bottin trad., Rusconi Milano, 1990,
p. 217.
4 G. Grion, ed., I nobili fatti
di Alessandro Magno. Romanzo storico tradotto dal francese nel
buon secolo ora per la prima volta pubblicato sopra due codici
magliabechiani, Bologna 1872,pp. 1-7, 12, 35, 140-143,
160-161; a proposito di questi passi si vedano le note
introduttive di Corrado Bologna (e i testi editi) in M.
Liborio - P. Dronke, Alessandro nel Medioevo Occidentale,
Fondazione Valla, Firenze 1997, pp. 46, 49, il ‘bucefalo’
aveva “la coda come quella del pavone, tutta striata, / e la
testa di un bue e gli occhi di un leone I e il corpo di un
cavallo” pp. 87, 109.
5 Ruggero Bacone, La scienza
sperimentale, trad. it. cit., p. 135.
6Cfr.
http://astrolabes.org/
7 Su questi temi si veda il
sito Scientific Instruments of Medieval and Renaissance Europe
che raccoglie diverse collezioni museali:
http://www.mhs.ox.ac.uk/epact/
8 Anonimo [1300], Tesoro di
Brunetto Latini volgarizzato [Libri III, IV e V] (Brunetto
Latini, I libri naturali del "Tesoro" emendati colla scorta
de' codici, commentati e illustrati da Guido Battelli,
Firenze, Successori Le Monnier, 1990, p. 28.
9 Canzone di gesta composta tra
il 1330 e il 1340 da autore padovano anonimo, in cui si
racconta la campagna di Spagna di Carlomagno e dei dodici
paladini. Entrée d’Espagne, A. Thomas, ed., Paris 1913, 2
voll. (SATF, 60), vv. : «Je qe sui mis a dir del neveu
Carleman | mon nom vos non dirai, mai sui Patavian, |d e la
citez qe fist Antenor le Troian, | en la joiose Marche del
cortois Trivixan». Sulla delimitazione del territorio
designato come Marca Trevigiana in questi versi cfr. F.
Torraca, L’Entreé d’Espagne in Studi di storia letteraria,
Firenze 1923, pp. 164 e sgg; qui si riprende l’ampio
intervento di M. Calzolari, Le contrade gioiose. La tradizione
del ciclo bretone in Italia e in Friuli, in F. Cavalli, et al.
edd, Atti del convegno. Gli Echi della terra. Presenze
celtiche in Friuli, Gorizia, qui si rinvia ai suoi
approfondimenti bibliografici cfr.
http://www.celtifriuli.it
10 M. Boni, Poesia e vita
cortese nella Marca, in Studi ezzeliniani, Roma, Istituto
storico per il medioevo, 1963, pp. 163-188.
11 A. Rizzi, Ludus/ludere.
Giocare in Italia alla fine del medio evo, Roma-Treviso,
Viella, 1995, p. 158.
12 G. Sebesta, Il lavoro dell’
uomo nel ciclo dei mesi di Torre Aquila, Trento, Servizio Beni
Culturali, 1996, sub voce Gennaio; cfr. anche
http://montaperti.supereva.it/Links_file/links.asp
13 Cfr. sui giardini medievali
:
http://www.gardenvisit.com/got/6/3.asp e la bibliografia
in
http://www.msc-smc.ec.gc.ca/airg/pubs/vegarch.pdf. Inoltre
http://www.lehigh.edu/~jahb/herbs/medievalgardens.asp.
dove si riporta un passo di Alberto Magno contro i giardini
del piacere.
14 Chrétien de Troyes, Erec e
Enide, trad. it. di G. Agrati e M.L. Magrini, Mondadori
Milano, 1983, p. 86.
15 I. Sanesi, La Storia di
Merlino di Paolino Pieri, Bergamo 1898, pp. xcv, 36 e 74-75;
cfr- P. Morpurgo, La cultura scientifica nella Marca di
Ezzelino, in C. Bertelli - G. Marcadella, Gli Ezzelini Signori
della Marca nel cuore dell’Impero di Federico II, Milano,
Skira, 2001, pp. 157-167, ivi p. 157.
16 La Tavola Rotonda o
l'Istoria di Tristano a cura di Filippo Luigi Polidori,
Bologna, Romagnoli, 1864, p. 26.
17 B. Betto, ed., Gli statuti
del Comune di Treviso, Roma 1984-1986, vol. I, pp. 19-20. Su
questi temi cfr. P. Morpurgo, La filosofia federiciana negli
Statuti cittadini dell’Italia settentrionale, in C.D. Fonseca
- R. Crotti, edd., Federico II e la civiltà comunale del Nord,
De Luca, Pavia – Roma, 2001, pp. 485-506.
18 Il soggetto è stato
ampiamente rappresentato nel Medioevo si veda ad esempio la
collezione di avori al Museo del Bargello di Firenze in
http://www.sbas.firenze.it/bargello/index.html con data
base.
19 G. Folena, Tradizione e
cultura trobadorica nelle corti e nelle città venete, in
Storia della cultura veneta, I, pp. 453-562, ivi 515; cfr.
Rolandino da Padova, Cronica, I, cap.xiii, in Bonardi, ed.,
pp. 24-25, in MGH, SS, XVIIII, pp. 45-46; G. Peron, Rolandino
da Padova e la tradizione letteraria del castello d’amore, in
L. Bortolato, ed., Il castello d’amore. Treviso e la civiltà
cortese, Treviso 1986.
20 G. Folena, Tradizione e
cultura trobadorica nelle corti e nelle città venete, in
Storia della cultura veneta a cura di G. Folena, Neri Pozza
Vicenza, I, pp. 453-562.
21 G. Ortalli, Gioco e
giustizia nell’Italia di Comune, Viella, Treviso-Roma, 1993,
p. 199.
22 Nicolò de' Rossi, Canzoniere
Sivigliano, a cura di Mahmoud Salem Elsheikh, Milano-Napoli,
Ricciardi 1973, p. 234.
23 Fazio degli Uberti, Il
Dittamondo e le Rime, a cura di Giuseppe Corsi, vol. I, Bari,
Laterza, 1952, p. 189.
24 Rime disperse di Francesco
Petrarca o a lui attribuite, a cura di Angelo Solerti,
Firenze, Sansoni, 1909, p. 194.
25 Delle poesie di Antonio
Pucci, voll. I-IV, a cura di Ildefonso di San Luigi, in
Delizie degli eruditi toscani, tt. III-VI, Firenze, Cambiagi,
1772-1775, p.117.
26 Fazio degli Uberti, Il
Dittamondo, p. 170.
27 Ottimo Commento della
Commedia (L'), t. II Purgatorio (a cura di Alessandro Torri,
Pisa, Capurro, 1827, p. 291.
28 Guido Favati, Genova, Bozzi,
1970, p. 198.
29 M. Vale, The Princely Court.
Medieval Courts and Culture in North-West Europe, Oxford, OUP,
2001, p. 209.
30 Cfr. M. Calzolari, Le
Contrade gioiose, cit., : P. Rajna, Contributi alla storia
dell’epopea e del romanzo medievale. V. Gli eroi bretoni
nell’onomastica italiana del sec. XII, in “Romania”, XVII
(1888), pp. ;G. Carducci, Della poesia cavalleresca del
Medioevo al mezzogiorno d’Europa, in Opere di Giosuè Carducci,
Ed. naz., vol. V, Prose giovanili, Bologna 1942, III. Scritti
di letteratura e di erudizione, pp. 415-440, spec. pp.
428-429; G. Serra, Le date più antiche della penetrazione in
Italia dei nomi Artù e Tristano, in “Filologia Romanza”, II
(1955), pp. 225-237; A. Viscardi, Eroi e miti della tavola
rotonda, con traduzioni di A. Finoli e C. Cremonesi, Milano,
Dalmine, 1960, F. Ferruzzi, I Manodori dalla leggenda alla
storia, in I Manodori la famiglia e il territorio, a cura di
Gino Badini, Reggio Emilia, Fondazione Cassa di Risparmio,
2001, p. 17 e sgg.
31 G. C. Menis - E. Cozzi, edd.,
L'Abbazia di Santa Maria di Sesto. L'arte medievale e moderna,
Edizioni GEAPprint, Pordenone 2001.
32 Sulla leggenda di Carlo
Magno cfr.
http://www.bulfinch.org/legends/welcome.html
33 A. Bechtold, ed., Castel
Roncolo. Il maniero illustrato, Bolzano, Athesia, 2000, pp.
100, 132-150, 83-85.
34 E. Castelnuovo, ed., Le
stanze di Artù. Gli affreschi di Frugarolo e l’immaginario
cavalleresco nell’autunno del Medioevo, Milano, Electa, 1999,
p. 142.
35 Ulteriori immagini si
trovano nel sito
http://www.princeton.edu/~lancelot/ della Princeton
University che intende organizzare un archivio multimediale su
Lancillotto e temi correlati e che rinvia a diversi codici :
MS A = Chantilly, Musée Condé 472;MS C = ("Guiot"), Paris,
Bibliothèque Nationale de France, fonds français 794; MS E =
Escorial, Real Monasterio de San Lorenzo M.iii.21 (Under
Construction);MS F = Paris, Bibliothèque Nationale de France,
f. fr. 1450 ;MS G = Princeton, Firestone Library, Garrett
125;MS I = Paris, Bibliothèque de l'Institut de France 6138 (formerly
4676) (Under Construction) ;MS T = Paris, Bibliothèque
Nationale de France, f. fr. 12560 ;MS V = Vatican, Biblioteca
Vaticana, Regina 1725;U = Text of the Foulet-Uitti edition .
36 M. E. Avagnina, Un inedito
affresco del secolo xiii a Bassano, Giornata di studi di
Storia Bassanese in memoria di Gina Fasoli, “Bollettino del
Museo Civico di Bassano”, 13-15 (1992-1994) pp. 75-95.
37 Tristano Riccardiano (Il) (a
cura di Ernesto Giacomo Parodi, Comm. testi di lingua,
Bologna, Romagnoli-Dall'Acqua, 1896, p. 384.
38 Giovanni Villani, Nuova
Cronica, a cura di Giuseppe Porta, 3 voll. (I. Libri I-VIII;
II. Libri IX-XI; III. Libri XII-XIII), Parma, Fondazione
Pietro Bembo / Ugo Guanda Editore, 1990-1999. lib x cap. 135,
p. 335.
39 Giamboni Bono, Delle Storie
contra i Pagani di Paolo Orosio libri VII, a cura di Francesco
Tassi, Firenze, Baracchi, 1849, p. 503, qui si rinvia
all’intervento di Chrys Snyder From Aquileia to Camelot in Gli
Echi della Terra... cit.
40 Ruggieri Apugliese, Rime
(Poeti del Duecento, a cura di Gianfranco Contini,
Milano-Napoli, Ricciardi, 1960, t. I, pp. 890-911, ivi p. 890.
41 Su questi contatti
francoveneti cfr. P. Marangon, Alle origini dell’aristotelismo
padovano (sec. XII-XIII), Padova, Antenore, 1977.
42 Chrétien de Troyes, Perceval,
trad. it. di G. Algrati e M.L. Magini, Milano, Mondadori,
1993, p. 94; cfr. http://www.mystical-www.co.uk/arthuriana2z/p.asp
.
43 Firenze, BNF, ms. Pal. Lat.
556, cc. 18v-19r.
44 Anonimo, Il Tristano
Riccardiano a cura di Ernesto Giacomo Parodi, Comm. testi di
lingua, Bologna, Romagnoli-Dall'Acqua, 1896.
45 Anonimo, La Tavola Ritonda o
l'Istoria di Tristano a cura di Filippo Luigi Polidori,
Bologna, Romagnoli, 1864, p. 75; cfr p. 163-164: “E quella
notte si riposarono in uno ricco e nobile/ letto; e a quel
punto, Isotta, la quale era fine medica, in uno/ punto guarì e
sanò Tristano d'ogni pensiere, e rendègli la / vita e la
allegrezza”; cfr. anche pp. 172 e 189 e p. 497.
Riferimenti alle erbe in Les
deux rédactions en vers du moniage Guillaume : chansons de
geste du XIIe siècle. Tome 2 / publ. d'après tous les ms.
connus par Wilhelm Cloetta, Firmin Didot, Paris, p. 268.
46 Cfr. http://www.chez.com/littmedievale/Lm044.asp
47 Chrétien de Troyes,
Lancillotto, edd. G. Agrati – M.L. Margini, Mondadori Milano
1983, pp. 24-26.
48 Sulla tradizione del ‘noi
leggiamo’ in Chrétien de Troyes cfr. F. Bruni, Testi e
chierici del medioevo, Marietti, Genova 1991, pp. 137-139.
49 Chètien de Troyes, Perceval,
ed. cit., p. 60.
50 Dante Alighieri, Convivio
(Il) (a cura di Franca Brambilla Ageno, Firenze, Le Lettere
(Società Dantesca Italiana. Edizione Nazionale), 1995, tomi 3.
p. 32.
51 Folena, Cultura trobadorica,
cit., p. 500.
52 Marangon, Alle origini, cit.,
p. 55 e n.
53 Vale, The Princely Court,
cit., p. 142.
54 Giovanni Villani, Cronica,
Ignazio Moutier, voll. I-VII, Firenze, Margheri, 1823, VII,
273.
55 P.L. Fantelli – F.
Pellegrini, edd., Il Palazzo della Ragione in Padova, Padova,
Editoriale Programma, 1990.
56 J.L.A. Huillard-Bréholles,
Vie et Correspondance de Pierre de la Vigne, Paris 1865,
Reinheim 1966, pp. 20-23.
57 Le trattative e le relative
lettere sono in MGH, LL, II, pp. 307-311.
58 Matteo di Parigi, Ex
Cronicis Maioribus, in MGH, SS, XXVIII, pp. 128-131; Ruggero
di Wendover, Chronica, H.O. Coxe, ed., London 1831-1844, IV,
pp. 333-339
59 Firenze, BNF, ms. Pal. Lat.
556, cc. 31r-32v.
60 Il testo è disponibile in:
http://www.byu.edu/~hurlbut/dscriptorium/aix166/index.html
e in http://virga.org/robin/
61 Ulteriori informazioni
bibliografiche in:
http://www.chez.com/littmedievale/Lm008.asp
62 Le trattative e le relative
lettere sono in MGH, LL, II, pp. 307-311.
63 Antonio Medin, Una redazione
Abruzzese della Fiorita di Armannino giudice di Bologna
(1325), AIVeneto, LXXVII, 1917-1918, pp. 487-454:
“Come al tempo del dicto
Federigho fu una donna in Aquilea la quale mirabilmente fu
faconda in generare. In questo tempo [fu] una donna Antonia
chiamata de la provinçiad' Aquilea. Costei inançi ch' ella
avesse XL anni avea partoriti efacti de Paulino suo marito
XLIJ figliuoli. Racontase che mai costei in suo parto ne fece
meno de dui ad una volta: ad un corpo ne partorio VIJ, e due
fiade ne partorio quando IIIJ e quando IIJe quando dui. Tanto
erano simigli quelgli di ciascuno portatoinsiemi che etiamdio
dal padre e da la madre dificile a loromolto era a
ricognosciarli. Li dicti figliuoli tucti fuorchè [...]vennaro
a età perfecta di XXV anni. Fuorono da Federigo imperadorela
molglie e 'l marito con tucti loro figliuoli levati et[r]atti
d' ogni spesa de comune e tucti loro filgli erano bailiti
enutricati a le spese del dicto imperio. Poi diede loro grandi
poderie riccheççe, non volendo che i dicti mogli' e marito
badassaro altro che a 'ngenerare.
64 E. Kantorowicz, Federico II
imperatore, Berlin 1931, trad. it. Milano, Garzanti, 1976, pp.
408-411 e 439-440; T. C. Van Cleve, The Emperor Frederick II
of Hohenstaufen, Oxford, Oup, 1972, pp.380-383, cfr. MGH, LL,
Const., II, n. 196, p. 241.
65 P. Morpurgo, scheda del ms.
di Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. lat. 6, 108, cc.
42v-44r; 52r; 54r; 55r; 69 r ; 74r-76r; 92r in
Bertelli-Marcadella, edd., Gli Ezzelini, cit.; cfr. L.
Thorndike, A third translation by Salio, in “Speculum”, 32
(1957), pp. 116-117.
66 P. Morpurgo, Note in margine
a un poemetto astrologico presente nei codici del Liber
Particularis di Michele Scoto, in “Pluteus” 2(1984), pp. 5-13,
ivi p. 9.
67 M. Calzolari, scheda del ms.
Roma BAV, Vat. Lat. 4083, c. 16 r., in Bertelli-Marcadella,
edd., Gli Ezzelini, cit.
68 Cfr. M. Pastore Stocchi,
Ezzelino e l’astrologia, in G. Cracco, ed., Nuovi Studi
Ezzeliniani, Roma 1992.
69 Cfr. F. Carmody, Arabic
Astronomical and Astrological Sciences in Latin Translation,
Berkeley 1956.
70 Chrétien de Troyes, Perceval,
trad. it. di G. Algrati e M.L. Magini, Milano, Mondadori,
1993, 102.
71 John A. Yunck's translation
(Eneas: A Twelfth-Century French Romance), NY: Columbia U
Press, 1974, pp. 63-64; vv. 407-440; cfr. Eneas: roman du xiie
siècle., J-J Salverda de Grave,ed.,Les Classiques Français du
moyen age, 44 and 62, Paris, Champion, 1925-1929.
72 Rolandino da Padova,
Chronicon. Lib. xii, in MGH, SS, XIX, 142, in A. Bonardi, ed.,
in R.I.S.2 VIII/1, Città di Castello 1905-1908, p. 165; su gli
aspetti della ritualità legata alla scomparsa dei sovrani si
consulti N. Pollini, La Mort du Prince - Rituels funéraires de
la Maison de Savoie (1343-1451), Lausanne 1994; D.L. D’Avray,
Death and the Prince. Memorial Preaching before 1350, Oxford
1994.
73 A. Melloni, Innocenzo IV. La
concezione e l’esperienza della cristianità come “regimen
unius personae”, Bologna 1990, pp. 278-279.
74 Giovanni Villani, Nuova
Cronica, a cura di Giuseppe Porta, 3 voll. (I. Libri I-VIII;
II. Libri IX-XI; III. Libri XII-XIII), Parma, Fondazione
Pietro Bembo / Ugo Guanda Editore, 1990-1999, II, p. 694.
75 Nel detto anno 1323 il dì di
calen di Maggio, / il conte di Gorizia essendo in Trivigi
stato a / nozze e a festa, subitamente morì: dissesi, che /
messer Cane di Verona il fece avvelenareGiovanni Villani,
Cronica, a cura di Ignazio Moutier, voll. I-VII, Firenze,
Margheri, 1823., Libro 9 cap. 200.
76 G. Cracco, Da Comune di
famiglie a città satellite (1183-1311), in G. Cracco, ed.,
Storia di Vicenza, Vicenza, Neri Pozza, 1988, p. 94; Rolandino
da Padova, Chronicon, in MGH, SS, XIX; in R.I.S.2,VIII/1, pp.
172-173.
77 Saba Malaspina, Liber
Gestorum, in G. Del Re, Cronisti e scrittori sincroni
napoletani, 2, Napoli 1845-1868, rist. Bologna, Forni, 1976,
II, p.224.
78 A. Murray, Suicide in the
Middle Ages. The Violent against Themselves, Oxford, Oup, p.
54.
79 Immanuello Romano, L’Inferno
e il Paradiso, G. Battistoni, ed., Giuntina, Firenze 2000, pp.
28 e 84.
80 Jacopo della Lana [1328],
Chiose alla "Divina Commedia" di Dante Alighieri. Paradiso in
La Divina Commedia nella figurazione artistica e nel secolare
commento, vol. III, a cura di Guido Biagi, G. Luigi Passerini,
E. Rostagno, U.Cosmo, Torino, UTET, 1939, p. 210.
81 Matteo Villani, Cronica,
Firenze, Per il Magheri, 1825, vol. I, L. II, c. xliv, p. 245.
82 Manuello Giudeo, Bisbidis,
in C. Cipolla - F. Pellegrini, edd., Poesie minori riguardanti
gli Scaligeri, “Bullettino dell’ Istituto Storico Italiano”,
24 (1902), pp. 51-55.
83 F. Zuliani, Gli affreschi
del palazzo abbaziale di San Zeno a Verona, in M.S. Calò
Mariani, ed., Federico II. Immagine e potere, Venezia,
Marsilio, 1995, pp. 113-115.
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