Hanno più di duemila anni e
le usiamo spesso ancora oggi. Senza sapere che a volte certe
parole non vogliono dire quello che noi crediamo. Così gli
epicurei erano persone frugali e non dei gaudenti. E gli
stoici non erano dei supermen resistenti a ogni dolore ma
credevano nel destino e prevedevano il futuro. Filosofi
diversi che avevano però un fine comune, come ci spiega Léyi
nel suo saggio: insegnare l’armonia e la tolleranza
Carlos Lévy, Le filosofie ellenistiche,
Einaudi, pp.247, Euro 17.00
"Carneade.
Chi era costui?" si domanda Don Abbondio nei Promessi
sposi. E forse con lui si pongono ora lo stesso quesito
molti lettori, scordatisi di questo filosofo davvero poco
noto, magari chiedendosi se valga la pena andare a
rispolverare Carneade e le filosofie ellenistiche, come ci
invita a fare Carlos Lévy attraverso uno scorrevole saggio
(non certo solo per addetti ai lavori) alla riscoperta di un
periodo storico-speculativo di grande rilievo, che si sviluppa
tra la morte di Alessandro Magno (323 a. C.) e la fine del
regno dei Lagidi in Egitto (30 a. C.).
Ai giorni nostri, d’altronde, si fa un
grande uso di aggettivi quali: scettico, epicureo o stoico;
tuttavia spesso questi termini vengono utilizzati in modo
assai improprio, mediante indebite generalizzazioni o
banalizzazioni. Oggi, comunemente, per scettico si intende una
persona che non crede a nulla e dubita di ogni cosa; ma la
questione non è così semplice. Ad esempio – afferma Lévy –
ormai da parte degli studiosi "non si vede più nel pirronismo
originario uno scetticismo esclusivamente relativo alla
possibilità che l’uomo giunga a conoscere la realtà". Pirrone,
considerato il padre dello scetticismo, lo è infatti meno dei
cosiddetti neopirroniani, insistendo egli soprattutto sulla
esigenza del silenzio (aphasia), da cui può conseguire
la serenità (ataraxia), più che sulla necessità di
evitare le affermazioni dogmatiche.
Analogamente, nonostante molta gente ritenga
che epicureo voglia significare gaudente e dedito ai piaceri,
va sottolineato come Epicuro si accontentasse di nutrirsi a
pane ed acqua, concedendosi semmai appena il lusso di un
boccone di formaggio. Così, entrare a far parte dei seguaci di
Epicuro implicava aderire ad uno stile di vita basato "sulla
frugalità" ed anche "sull’emulazione nell’esercizio della
virtù", poiché scopo principale del Giardino (la scuola
epicurea) era di giungere alla felicità liberando gli uomini
dalla paura: in primis quella della morte, che secondo il
filosofo di Samo non costituirebbe un vero problema, in quanto
– a suo dire – quando noi ci siamo, la morte non c’è, e
quando essa sopravviene noi non siamo più.
Anche sugli stoici il saggio di Lévy
contribuisce a fare chiarezza, al di là del luogo comune che
vede nel saggio stoico un individuo sobrio, poco credulone ed
esperto nel sopportare di buon grado malesseri o avversità.
Dei seguaci di Zenone, invece, apprendiamo come essi
confidassero in un Dio benevolo e provvidenziale nei confronti
degli uomini; per non parlare del fatto che essi credevano nel
destino e nella possibilità di prevedere il futuro. Nessuno di
loro, precisa in ogni caso Lévy, ha mai nutrito la pretesa di
pervenire ad un controllo assoluto del dolore. Sicuramente
questa idea di considerarli degli atleti nella sopportazione
della sofferenza è nata perché gli stoici romani attraverso
l’allenamento a tale pratica di tolleranza esprimevano appieno
il loro ideale tradizionale di virtus.
E’ comunque ben altro l’aspetto maggiormente
notevole delle filosofie ellenistiche, cioè l’aver dimostrato
(lo stoicismo e l’epicureismo, almeno) un’apertura inedita nei
confronti dell’altro: fosse esso lo straniero, lo schiavo o la
donna. Il loro cosmopolitismo, insomma, unito all’idea di
considerare la natura quale norma assoluta e all’anelito nei
confronti d’una realizzazione – d’una felicità – intesa come
armonia, equilibrio e benessere.
Francesco Roat