Poveri ma più belli
Se, di fronte all’impellente e devastante
crisi del calcio italiano denunciata da presidenti e illustri
opinionisti, a soccorrerci è uno struggente amarcord, dovrà
pur esserci una ragione più profonda della nostalgia. Vediamo
un po’…
Gennaio
1970, stadio Menti, Vicenza-Cagliari. Una rovesciata di Gigi
Riva all’incrocio dei pali. Una folgore scagliata appendendo
il sinistro al cielo, fra le teste smarrite dello "stopper"
Carantini e del "libero" Calosi. Più che "una", meglio dire
"la" rovesciata di Gigi Riva detto Rombo di Tuono. Così bella
e unica da venire immortalata tra i gol che la televisione
sceglie per raccontare in un baleno di immagini un lungo
passato di partite e di gol. Figurarsi se poi a vederla
entrare nella propria mente si era non davanti a un
teleschermo, ma lì, esattamente lì, gli occhi appiccicati alla
rete metallica del parterre dietro la porta dove quella
pedatoria meraviglia si infila come un dardo degli dei. Con
una tale perfezione, fatta di forza e armonia assieme, che
tuttora, trentadue anni dopo, continua a creare un genuflesso
stupore nella memoria di chi quel giorno c’era, allo stadio
Menti.
Una foto tratta dalla galleria dei prodigi.
Scelta per l’eccezionalità dell’evento, da unire al plusvalore
emotivo della testimonianza diretta. Ciò nonostante rimane una
delle tante, forse infinite immagini che fanno la grandezza
del calcio. Aggiungeteci a piacimento il Pelè che si solleva
fra le nuvole dello stadio Azteca, fino a fermare il tempo
sull’immagine della propria aerea sospensione, inzuccando il
gol che apre le danze in Brasile-Italia 4-1. E poi il Van
Basten che tira al volo dalla linea di fondo il pallone di
Olanda-Russia 2-0. E via di seguito, il tacco di Mancini come
un irridente sfregio nella porta del Parma, il volo in
dribbling del Roberto Baggio giustiziere della Cecoslovacchia,
la punizione-scudetto di Fogli nello spareggio Bologna-Inter,
i sette palleggi di Sandrino Mazzola prima di scaricare il
destro nella rete della Svizzera, un semplice tocco di Gigi
Meroni… Una volta evocata la parola "Calcio" con la maiuscola,
si affolla sulla ribalta dei pensieri una tale congerie di
prodezze, da non avere alcuna possibilità di sistematizzare
quanto affiora dalla memoria, né di rendere giustizia a tutti
coloro che queste meraviglie hanno creato nel domenicale
infinito del nostro ieri.
Gesti,
imprese, e follie che fanno l’Immagine del Calcio. Un qualcosa
di per sé talmente amato, frequentato, omaggiato, venerato,
incorniciato fra i ricordi di milioni e milioni di persone, da
non avere apparentemente bisogno di essere promosso, imposto,
diffuso. Nel 2002 questo è un presupposto solo in parte
valido, e purtroppo inscindibile da ben altro tipo di
considerazioni a proposito del calcio come industria dello
spettacolo. Quest’ultimo si dà oggi a mo’ di catastrofe,
soprattutto in Italia… Teatro di quella che potremmo chiamare
senza tema di esagerare la settimanale Apocalisse degli stadi.
Casse dissestate, 75% degli utili prosciugati dai calciatori,
sistema televisivo imperfetto e molto meno munifico rispetto a
certe aspettative degli anni passati, inflazione di partite,
fuga del pubblico da tribune e gradinate, periodiche ricadute
in black out sociali come la violenza (fisica e verbale)
espressa dai tifosi, oppure etici, come quelli lasciati
intravedere da un ricorso al doping tutt’altro che episodico,
o dalla ricorrente tendenza all’addomesticamento del
risultato, alla combine che concilia gli interessi di più
varia natura, agli esiti di campionati consumati nel segno del
narcisismo arbitrale, delle sospette arrendevolezze e degli
eccessivi giochi sotto banco.
Dunque, l’Immagine del Calcio e l’Apocalisse
degli stadi. Intendendo con questi ultimi i luoghi fisici nei
quali come in nessun altro si dà conto dell’arretratezza, del
pressapochismo, e dei palesi squilibri che minano alla base se
non la sopravvivenza, almeno un minimo, dignitoso sviluppo del
gioco del pallone in Italia. Dove, per un San Siro disegnato a
immagine e somiglianza di mitologiche astronavi si deve tenere
conto delle offensive insensatezze o lontananze dal gioco di
un Delle Alpi, di un San Paolo, di un Olimpico o di un Friuli.
Ora
sì che, mettendo assieme i cocci della presente disfatta, la
necessità di una promozione, o forse di una rinascita di
immagine del calcio italiano si profila, se non addirittura si
impone. Accorgendosi, di fronte alle istantanee del disastro,
che fra i valori più eclissati del Paradiso perduto risplende
con vigore assolutamente singolare un qualcosa chiamato
provincia. Il calcio dei campanili e delle nebbie padane, oh
yes, dove ogni termine inglese serva proprio a rafforzare
un’allusione alla purezza delle origini che anche in Italia
furono segnate da un "made in England" preponderante, non
tanto nel numero dei giocatori di origini albioniche (per
altro molti, e spesso fondamentali, nella storia di società
come il Genoa o il Milan), quanto piuttosto in un’etica del
calcio, squisitamente provinciale, mutuato dalla britannica
terra dove ebbe i natali.
Le stesse squadre venete come il Vicenza,
che pure non si giovarono di stranieri d’oltremanica, col
risultato agonistico di essere escluse soprattutto per questo
motivo dal tavolo dei primi scudetti (anche dopo non andrà
meglio, essendo arrivato il solo tricolore veronese del 1985)
andarono alle prime tenzoni permeate di quel goliardico e
mecenatistico spirito che, sospeso fra parrocchia circoli
ginnici e collegiali atmosfere, irrora dei propri influssi
l’intero baraccone del calcio pionieristico italiano.
All’epoca qualche migliaia di lire in più a disposizione non
fa della Juventus o dell’Internazionale qualcosa di
radicalmente diverso da un Casale, un Vicenza o una Pro
Vercelli. Non a caso sarà proprio quest’ultima, una decina di
anni dopo il Genoa, a segnare nell’albo d’oro tricolore una
seconda, sensazionale serie di vittorie: quattro in cinque
anni, seguita da una quinta nel 1922. Né, alla decadenza dei
vercellesi si accompagna un immediato eclissarsi del calcio di
provincia, a cui il campionato italiano demanda un ruolo
trainante anche nei decenni successivi, questi sì segnati
dalla frattura con le più potenti e plutocratiche società di
impronta metropolitana. Nonostante la comparsa di questo solco
indelebile, ci sarà ancora tempo, nel corso degli anni, per
accogliere sotto i riflettori della serie A piccole squadre
tutt’altro che meteore: il Lanerossi Vicenza rinato negli anni
cinquanta è una delle più importanti, assieme al Padova del
catenaccio di Rocco, all’Atalanta e al Venezia baciate dalla
Coppa Italia, all’Udinese, al Cagliari di Riva, al Verona di
Bagnoli, al Catanzaro e al Cesena degli anni settanta, al
Foggia ribattezzato Zemanlandia. Si va comunque, stagione dopo
stagione, nel senso di un progressivo assottigliarsi del
calcio dei poveri, e di un suo macroscopico scollamento da
quello dei ricchi.
Ecco
perché il Vicenza di Guidolin cinque anni fa, e il Chievo di
Del Neri oggi, sono ancora i correlativi di quella Pro
Vercelli di bianco vestita che piallava a mo’ di
schiacciasassi qualsiasi area avversaria. Ammirate
comprimarie, più o meno invitate ad accomodarsi al banchetto
delle grandi, rispetto alle quali parlano lingue totalmente
diverse in fatto di mezzi, peso politico, seguito, strutture
societarie, fascino mediatico. Ora è interessante osservare
come il radicale confinamento delle provinciali ai margini del
carrozzone italiano vada di pari passo con il catastrofico
ingripparsi del suo motore economico e spettacolare.
Una coincidenza che forse passerà
inosservata a chi si propone di guarire il calcio italiano
blindandolo nel professionismo imperfetto di una massima serie
geopoliticamente spartita fra le grandi e le "medie" di
seguito regionale (diciamo che con il Napoli, il Bari, una
genovese e un’isolana di nuovo in A i giochi sarebbero fatti),
e che risulta nello stesso tempo significativa agli occhi di
quelli, la minoranza forse, che si augurerebbero l’approdo a
un sistema-calcio caratterizzato da un professionismo
finalmente maturo. Quest’ultimo lo si riconoscerebbe da vari
fattori, probabilmente troppi perché oggi possa diventare
realtà (bilanci sani, dirigenze realmente manageriali, riforma
dei procuratori, cultura sportiva moderna, merchandising
avanzato, etc…), ma state certi che non potrebbe prescindere
da una presenza nuovamente forte e trainante del calcio di
provincia.
Come
escludere da uno show business calcistico inteso a reale
misura della società dello spettacolo in cui viviamo ruoli da
protagonisti, e non da tollerate comparse, per le Pro Vercelli
del Duemila? Se guardiamo al modello dello sport americano,
così imprenditoriale e televisivo, ma anche così diversificato
e piramidale (i grandi campionati universitari di basket e
football si alimentano di strapaesane mitologie, innervate con
naturalezza nella roboante mediaticità degli eventi),
nell’Italia del pallone andremo sicuramente nella direzione di
una democrazia compiuta, e non di un’oligarchia di tiranniche
tendenze (ah, quali inquietanti simmetrie con la realtà
politica…).
Se l’Immagine del Calcio si è finora
alimentata dell’amore di un intero Paese, non è stato solo per
le stelle cucite sulle maglie di Juve Milan e Inter, ma anche
per quella R comparsa trent’anni di fila sulle più ruvide
casacche del (Lanerossi) Vicenza. Quella rovesciata Gigi Riva
Rombo di Tuono la fece al Menti, e non a San Siro. Ci sarà
pure un perché.
Stefano Ferrio