La sorella gemella morta che
appare in una visione. Una crisi esistenziale. Un incidente
misterioso. La razionalità che opprime e la fantasia che
libera. Sono gli ingredienti dell’ultimo romanzo di Rizzi.
Che, psicologo di mestiere, gioca con i segreti dell’inconscio
Fabrizio Rizzi, Non c’è ombra più oscura,
Editrice Clinamen, pp.187, Euro 15,30
Mi
piace la forza evocativa di Rizzi. Una capacità quasi mantica,
legata com’è al sogno, ai ricordi e all’immaginario dei suoi
personaggi, dai quali emergono soprattutto emozioni e
agnizioni di pregnanza davvero intensa. Sarà che lui è
psicologo – oltre che narratore – ma psicologo (letteralmente
colui il quale studia la psiche: l’anima) non è appunto chi sa
maieuticamente far emergere dall’altro la propria autenticità
attraverso le parole? Così nel colloquio psicoterapeutico
(bello sarebbe anche in letteratura) la parola si fa vita, è
vita. O, si diceva, evocazione, medium che permette
all’inconscio di fare irruzione nel conscio; che permette ai
morti – qui nell’accezione più ampia e metaforica di chi non è
più presente: del rimosso o del caotico che sta nell’Ombra,
per dirla con Jung – di tornare e mostrarsi, rivelandosi e
rivelandoci.
Il romanzo di Rizzi si apre, non a caso, con
una visione (appare la sorella gemella defunta di Marta, la
protagonista, in una pagina che, da sola, basterebbe a
dimostrare la bravura dell’autore) ed un sogno. E’
interessante questa scelta del sogno. Esso denunzia i limiti
di ogni tentativo razionale volto a comprendere il mondo,
meglio, il nostro mondo attraverso la logica e la supponenza (hybris)
della ragione, mediante lo strumento esaustivo della ragione.
C’è una porta chiusa nel sonno che fa Marta. La protagonista
sente che quella porta si potrebbe spalancare su qualcosa di
significativo e al contempo chiarificatore per la sua vita
così fobica e conflittuale; la porta non cede, ma lei tenta
egualmente di forzarla, dunque di far violenza al suo sogno.
La donna non sceglie di accoglierlo e viverlo, di aprirsi ad
esso. No, semmai vuole aprirlo, vivisezionarlo, dominarlo. E
ovviamente quello rimane chiuso (bisogna dire però che siamo
solo all’inizio della narrazione); la porta resta sbarrata e
indecifrabile. Ci vorrà tempo, tutto il romanzo, perché la
protagonista si arrenda al sogno, allenti le difese e lasci
che la visione – la comprensione – avvenga.
Marta, insomma, è inquieta. Oltre a non
riuscire ad elaborare un lutto (quello per la scomparsa della
sorella), vive una profonda crisi di identità, coniugale,
genitoriale. Una vera e propria crisi a trecentosessanta
gradi, un po’ come la protagonista del primo romanzo di Rizzi
(Diario di bordo – Ed. Bollati Boringhieri). Ma questa volta
chi l’aiuterà indirettamente, lateralmente non è uno
psicoterapeuta bensì un pittore: un eccentrico pittore che coi
suoi affreschi tromp-l’oeil induce la gente a fantasticare e
sognare. Significativo ed incalzante è dunque in questo
romanzo l’invito ad esprimersi, a far emergere quello che sta
accovacciato nell’ombra.
E, per tirare di nuovo in ballo il titolo,
non c’è ombra più oscura di quella che tentiamo di fugare
attraverso troppo facili esorcismi di rimozione o censura, i
quali, oltre a non rischiararla davvero, non ci consentono di
attraversarla, di patirla, di vedere chiaramente (scusate
questo ossimoro paradossale) cosa ha da dirci. Questo romanzo
è quindi un inno all’espressività, i cui apici nel testo sono
simbolizzati dagli squarci poetici – ancora una metafora della
luce nelle tenebre – che punteggiano sia quest’opera che
quella precedente.
Ed è un racconto, nonostante la sua
complessità, godibile e scorrevole. Perché lungo tutti i suoi
capitoli la storia tiene; come si direbbe in gergo da
recensore: è a tenuta di lettore, cioè si fa leggere. Anzi, si
fanno leggere. Poiché si tratta di due storie parallele, ad
incastro. A ben riflettere, del resto, non si dà mai nella
vita di nessuno una storia sola, ma un intreccio: una trama
simile a quella d’un romanzo. Ogni io, infatti, ha sempre a
che fare con un tu. Magari un tu assente, remoto, negato,
misconosciuto.
Qui, dicevo, si raccontano le storie
parallele di due gemelle, di Marta e Viola: la sorella morta
in un enigmatico incidente di cui non dirò altro per non
guastare la sorpresa al lettore. In quanto il romanzo di Rizzi
è il lento districarsi, l’impercettibile sciogliersi di un
grumo enigmatico che lega fra loro Marta, sua sorella Viola ed
il pittore dallo strano nome allusivo di Serendip, giacché –
dice bene Rizzi in una delle tante liriche che punteggiano e
ritmano questa prosa poetica – "non c’è ombra che sia più
oscura/ dell’altro di fronte a noi/ visto con i nostri occhi/
così inevitabilmente miopi".
Francesco Roat