Un quarantenne che non riesce
a crescere e a staccarsi dalla sua gioventù, rappresentata da
una donna fragile, inquieta e passionale. Così il viaggio
verso la vacanza di Milo assieme alla sua ultima compagna e ai
figli diventa l’occasione per rivedere e ricercare gli anni
perduti. E, forse stavolta da adulto, ricominciare da capo
Alessandro Tamburini, Due volte l’alba,
Marsilio, pp.178, Euro 13,50
Riconoscere
le proprie emozioni; trovare la propria strada lasciando
emergere dal profondo i più autentici vissuti emozionali.
Questa potrebbe essere la chiave di lettura dell’ultimo testo
narrativo di Tamburini. Racconto psicologico quanti altri mai.
Sorta di singolarissimo romanzo di formazione, direi, anche se
il protagonista di questa storia è un quarantenne in crisi di
identità. Ma non è mai troppo tardi per crescere, e forse si
riesce a farlo giusto nel mezzo del cammin di nostra vita,
per dirla con Dante.
Così Milo – a tutta prima uomo soddisfatto
di sé e del suo lavoro di docente universitario – in partenza
per una vacanza al mare assieme alla convivente Silvia ed
all’adolescente figlio di lei, Thomas, si ritrova
all’improvviso a fare i conti con un bilancio esistenziale che
sembra non voler quadrare. Eppure nulla di eclatante ha
sconvolto la routine borghese della sua esistenza un poco
apatica. All’alba egli sta procedendo con la sua auto verso la
riviera romagnola – dove il professore ha trascorso la
giovinezza –, quando all’improvviso un ricordo fa irruzione
nei suoi pensieri con vigore inquietante. Allorché Silvia gli
chiede innocentemente di "fare pipì", e l’uomo si ferma ad una
stazione di servizio, lui si rende conto di rivivere
un’esperienza accaduta anni addietro con un'altra donna: Iana,
il suo primo amore. Iana che "andava e veniva senza logica né
preavviso". Iana, femmina inquieta ma fragilissima, legata a
Milo da un rapporto lacerante, fatto di passionalità ma
insieme di scontri, segnato da bruschi abbandoni seguiti da
riconciliazioni all’insegna di una sessualità compulsiva e mai
sazia, mai del tutto appagante.
Un rapporto all’insegna dunque di
un’ambivalenza e conflittualità che Tamburini riesce a far
cogliere al lettore quasi a livello di pelle, riuscendo a
trasmettergli in presa diretta il disagio emozionale di Milo
che patisce nuovamente quella vecchia storia solo
richiamandola alla mente. Quindi all’improvviso il viaggio
verso il mare diviene viaggio nella memoria e nel tempo;
diventa tragitto emotivamente accidentato, tanto allarmante da
far pensare al professore non già di intraprendere una gita ma
"di stare attraversando un confine, di andare verso una
destinazione ignota".
Del resto Milo incarna in modo esemplare il
tipico single postmoderno, spesso incapace di relazioni
affettive durature. Egli – come Silvia, peraltro – è separato
e, specularmene a lei, ha una figlia adolescente che si
barcamena tra la madre ed il padre. Così l’intervallo al mare
non si rivelerà per nulla una vacanza (nel senso
etimologico di assenza di impegni), bensì un serio lavoro
introspettivo alla ricerca di se stesso o del giovane che era
negli anni universitari. Anni di militanza in una formazione
politica di estrema sinistra, il cui linguaggio, i cui slogan
e la cui Weltanschauung – il climax, insomma – Tamburini
descrive con sottile ed intenso acume narrativo (sono
godibilissime le pagine sull’impegno assemblearistico
di quei tempi davvero andati: tempi di ideologie, parole
d’ordine, comizi con tanto di "striscioni inneggianti al
Vietnam e al Che Guevara" e manifestazioni di
dissenso). Per questo aspetto il romanzo, da intimistico, si
fa corale, meglio: generazionale; quasi epico se mi è
consentito il termine, tuttavia di un’epica ironica ed
autoironica, venata com’è dal disincanto.
Ma torniamo alla laboriosa (introspettivamente
parlando) vacanza di Milo e di Silvia, i quali se la devono
vedere coi rispettivi pargoli, giacché fa capolino sulla scena
Caterina, figlia del professore, il cui ritratto Tamburini
schizza con mano felice, dimostrando di conoscere molto bene
il mondo giovanile, le sue aspirazioni e i suoi tic. Riusciti,
verosimili e coinvolgenti i dialoghi tra padre e figlia
segnati insieme dall’affetto e dalla difficoltà da parte di
entrambi a gettar ponti verso l’altro: a stabilire relazioni
tra il mondo adulto e quello giovanile.
Quindi il viaggio. La scusa (o l’occasione)
è un eritema solare che costringe Milo lontano dalla spiaggia.
In realtà il fantasma di Iana lo visita turbandolo a tal punto
da fargli prendere la macchina e percorrere vie e paesi della
costiera romagnola in cerca del proprio passato. Sullo sfondo
appare così una miriade di luoghi, ora accennati ora descritti
con minuzia calligrafica; quasi con amore, diresti. Ma la
località che più colpisce il lettore è una Rimini
notturnamente cupa, tetra ed affollata da una torma di
solitudini che la rendono agli occhi di Milo aliena e
straniante. E’ questa forse la parte più difficile del
romanzo. Quella in cui si affastellano e irrompono
alternandosi ricordi e riflessioni in un’autoanalisi lucida e
impietosa. Bella la descrizione del primo incontro amoroso fra
Iana e Milo: un abboccamento fatto appunto di baci e sorsate
di vino. Bello lo scavo psicologico dei vari personaggi, anche
minori. Bello il contrasto fra la capacità di esprimersi a
parole – astrattamente – da parte del futuro cattedratico Milo
e quella di saper leggere nel cuore degli altri riuscendo a
cogliere i sentimenti, propria di Iana, che rappresenta la
stagione della giovinezza, della freschezza e del primo amore.
E siamo alla parte centrale del libro, fatta
di sogni, flash back, ricordi, visitazioni di luoghi, grazie
ai quali Milo ripercorre la sua vita le cui stazioni cruciali
sono rappresentate dalle storie significative con tre donne:
Iana, la moglie Ludovica e l’amante Silvia. Talvolta – va
detto – talune digressioni mnestiche del professore fanno
rallentare sino a rischio di stallo il romanzo, ma ben presto
la narrazione torna a scorrere e il ritmo si fa più intenso
dal momento della decisione da parte del protagonista d’andare
concretamente in cerca di Iana. La cui perdita per l’uomo ha
coinciso con quella delle illusioni e utopie giovanili.
Ma qui è opportuno sospendere il discorso,
pur essendo giunti al cuore del romanzo. Bisogna fermarsi qui
per non togliere ai lettori il piacere della sorpresa rispetto
al prosieguo che, come ognuno può prevedere, si rivelerà
carico di agnizioni e radicali mutamenti. Diciamo solo che si
tratta delle pagine più intense, sofferte e partecipi, quando
Milo si trova di fronte a se stesso oltre che di fronte ai
suoi fantasmi e alle sue proiezioni. Il professore dovrà,
infatti, decidersi a crescere una buona volta emotivamente, a
prendere atto della realtà, vivendo il presente senza più
fughe nel passato o sogni ad occhi aperti. E sarà un finale di
apertura e di speranza, allorché una seconda volta all’alba
l’uomo potrà iniziare un nuovo cammino esistenziale più
adulto, nel segno della consapevolezza.
f.r.