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redarrowleft.GIF (53 byte) Cinema Maggio 2002


 I film di Maggio 2002

Panic Room {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Di David Fincher con Jodie Foster, Forest Whitaker

Dopo "Fight Club" David Fincher, all’epoca ancora non in predicato per dirigere "Mission Impossible 3", doveva riuscire a misurare se stesso con qualcos’altro. La sua regia di pellicole come "The game", "Seven" e "Alien 3" doveva potersi confrontare con un soggetto diverso e "nuovo". Questo richiedevano i suoi fans e questo, in fondo in fondo, doveva chiedere anche lui in prima persona a se stesso.

Così quale occasione poteva essere migliore di "Panic Room" un film per la cui sceneggiatura, la Columbia aveva pagato a David Koepp (autore di "Carlito’s way," "Mission Impossible" e "Il mondo perduto") ben quattro milioni di dollari con nientedimeno che Nicole Kidman come protagonista? Fincher era molto incuriosito da un copione in apparenza minimalista che vedeva due donne chiuse in una stanza segreta ad osservare tramite dei monitor i movimenti di tre misteriosi intrusi nella casa in cui erano andate a vivere proprio quel giorno. La macchina da presa e i suoi movimenti (aiutati dal computer per quello che riguarda i passaggi attraverso i buchi delle serrature, i condotti dell’aria condizionata e le fessure del muro) erano essenziali per la riuscita di questo thriller psicologico. Così Fincher era rimasto attaccato al progetto anche quando la sua star era diventata Jodie Foster, reduce dalla doppia delusione di non avere potuto realizzare come regista "Flora Plum" (per colpa della spalla malata di Russell Crowe) e – al tempo stesso – non avere partecipato alla gran baracconata, pur sempre multimiliardaria al box office di "Hannibal". Claustrofobico, appassionato, per certi versi spaventoso nonostante qualche perdonabile ingenuità narrativa di matrice strettamente "hollywoodiana", Panic Room è un film impressionante sotto molti punti di vista. La regia di Fincher la fa da padrone sfruttando ogni dettaglio della dimensione spaziale e temporale del set. Le atmosfere visive affidate prima al direttore della fotografia Darius Khondj e poi a Conrad Hall Jr. (nessun commento ufficiale sulla dipartita del primo dal set…) connotano "Panic Room" in maniera affascinante creando un’intrigante contaminazione tra lo stile di "Seven" e quello di "American Beauty". La pioggia battente l’esterno dell’abitazione di Manhattan delimita uno spazio narrativo che sa tanto di arena post moderna, in cui una madre arrabbiata, ferita e – forse – perfino in cerca di vendetta per i tradimenti del marito "fetentone", farà di tutto pur di non farsi mettere in piedi in testa da un altro uomo. Rapinatore o male intenzionato che sia. Del resto Jodie Foster con la sua enigmatica, ma anche al tempo stesso dinamica interiorità è in grado di stupire lo spettatore nel trasformarsi lentamente, ma inesorabilmente da professionista ferita (una madre tornata single come tante altre) in una virago pronta a tutto (perfino di imbrogliare la polizia) pur di fare andare le cose per il verso giusto. Il duello fino allo spasmo fisico portato avanti lungo le scale e nelle stanze piene di scatoloni della casa è un teatro di guerra anche di natura emotiva dove tra inganni, bugie, trabocchetti e incertezze una donna sola è in lotta contro un nemico sconosciuto e imprevisto. In questo senso la sceneggiatura di David Koepp ha qualcosa di davvero geniale: il gioco con gli archetipi come quello dell’Uomo Nero flirta vistosamente con il senso tutto americano della proprietà privata e dell’abitazione inviolabile così come è stato sancito dagli emendamenti della Costituzione. Un misto moderno e ancestrale per stuzzicare le paure ataviche degli spettatori, rimescolando fatti, film e situazioni già viste in un’amalgama visiva e narrativa nuova, dove lo spazio minimalista assume la dignità del campo di battaglia vissuto sotto diverse angolazioni. Panic Room sin dai suoi titoli di testa in cui i nomi degli attori e della troupe sono inseriti come scritte pubblicitarie nel contesto urbano di New York dimostra di essere una pellicola diversa. Una scommessa autoriale vinta da Fincher in cui Jodie Foster torna agli splendori del passato con quel misto di freddezza e vulnerabilità che tanta fortuna le hanno portato in pellicole come Il silenzio degli innocenti e Contact. Pur restando un film in cui la regia è tutto così come è capitato di recente per Alì di Michael Mann e Black Hawk Down di Ridley Scott.

L’ora di religione – il sorriso di mia madre {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Di Marco Bellocchio con Sergio Castellitto, Toni Bertorelli, Gigio Alberti,

L’identificazione di Marco Bellocchio nel personaggio interpretato da Sergio Castellitto e le digressioni oniriche di una sceneggiatura sforzata smorzano sensibilmente la riuscita di un film che identificando dei buoni duri e puri e dei cattivi troppo palesi, sfinisce lo spettatore con la sua presunzione. Pur appoggiando Bellocchio nel suo sostegno incondizionato al laicismo, gli scarsi dubbi dei protagonisti, le loro granitiche certezze, il loro affrontare in maniera surreale situazioni realistiche, rendono "L’ora di religione" un film spento che brilla solo per pochi elementi: la recitazione di Castellitto, l’enigmatica bellezza di Chiara Conti, l’affascinante fotografia di Pasquale Mari e la splendida colonna sonora realizzata da Riccardo Giagni. Il resto è pura congettura per un cinema a tesi troppo complesso e artefatto per essere apprezzato in un’integrità ridondante, che puntando il dito contro l’abnormità di certe situazioni, perde di vista una realtà drammatica che non ha bisogno di orpelli, ma che presentata nella sua scarna veridicità sarebbe ancora più spaventosa.

Il Re Scorpione {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Di Chuck Russell con The Rock, Kelly Hu, Michael Clarke Duncan

Diretto dal regista di The Mask e di La mossa del diavolo, più vicino alla saga di Conan il Barbaro che alla serie de La mummia da cui è derivato Il Re Scorpione è un film divertente e sexy, girato alla James Bond sulla scorta dell’eredità dei famosi "sandaloni". Un po’ Maciste, un po’Golia e un po’ 007 Il Re Scorpione del titolo, che gli spettatori conoscono per l’apparizione nel recente blockbuster La mummia – il ritorno, è figlio dei nostri tempi cinematografici con un’intrigante contaminazione etnica. Un po’ bianco, un po’ nero, un po’ nativo americano, un po’ indiano The Rock è la perfetta impersonificazione di qualsiasi tipologia umana. L’attore hawaiano ex campione di wrestling, è così il protagonista di una storia scontata e prevedibile sin dall’inizio, che trova nella sua regia e nelle sue scelte del cast, una forza narrativa notevole. Un film veloce e divertente per un genere commerciale sicuramente, ma almeno fatto bene e scacciapensieri. Il film che ci avrebbe divertito tutti vedere a quindici anni con una curiosità in più: la compagna di The Rock, la veggente che l’eroe deve conquistare per avere ragione dell’altrimenti imbattibile nemico, è nientedimeno che la Kaori di una pubblicità nefasta. E dire che se avesse sfoderato quel fisico perfetto anche in Tv, anziché fare la scenetta forse, le vendite sarebbero aumentate…gli spettatori dei cinema, sicuramente la noteranno.

Hotel Dajiti §

Di Carmine Fornari con Francesco Giuffrida, Flavio Bucci, Sarah Baumann, Piera degli Esposti, Michele Venitucci

Roma, 1938. Andrea è un illusionista che lavora in teatri di periferia e vive di espedienti al limite della legge. Per uno sgarro fatto alla polizia deve scappare ed accettare una scrittura in Albania al Grand Hotel Dajti, un albergo che prende il nome dall’omonima montagna alle spalle di Tirana. Incontra una giovane ragazza albanese che tenta di violentare e che in seguito sposa. Rintracciato dalla polizia scappa con la moglie e il piccolo figlio di nome Emir. E’ il 1944: e la donna viene colpita mentre sta per salire sul traghetto che li porta in Italia, scomparendo tra i flutti marini.

Quaranta anni dopo, per caso, un giovane pugliese di nome Pinuccio viene scambiato per Emir e mandato alla ricerca del padre.

Finanziato con i soldi dello Stato, "Hotel Dajti" è una pellicola da dimenticare. A parte la presenza di Flavio Bucci e Piera Degli Esposti che "fanno quel che possono" il film è un’accozzaglia di situazioni senza senso pieno di errori, incertezze e dubbi, peggiorati da un montaggio al limite del demenziale. Dove andrà Pinuccio con il nonno di sera sull’ape piaggio? Non lo sapremo mai, visto che nella scena precedente saltava fuori da una finestra (ma era giorno) e in quella successiva balla con gli amici in una discoteca (e il nonno?). Sono questi gli esempi di un film che infonde nello spettatore un senso di profonda depressione. Pochi i mezzi, ancora più scarse le idee con Francesco Giuffrida che seppellisce il ricordo di "Così ridevano" di Gianni Amelio, sotto una coltre di faccette inespressive e di battute senza senso. Un film pessimo, con una sceneggiatura mediocre che non tiene conto dei salti temporali, del montaggio, della scansione drammaturgica, con un Venitucci costretto a fare l’albanese che parla italiano. Piccolo particolare: l’attore ha un fortissimo accento emiliano… Una storia d’amore, ammantata da una serie di orpelli registici patetici, con una recitazione noiosa e sopra le righe. Straziante, poco credibile, ma soprattutto inutile. Il momento da non dimenticare del film? Squilla il telefono e la seconda domanda della persona che chiama è "dove sei?". La prossima volta non a vedere un film del genere.

Showtime {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Robert De Niro – Eddie Murphy – René Russo – William Shatner Sceneggiatura Keith Sharon & Alfred Gough & Miles Millar Regia Tom Dey Anno di produzione USA 2002 Distribuzione Warner Bros.

Basterebbe il cameo di William Shatner nei panni di T.J.Hooker a convincere il pubblico ad accorrere a frotte nei cinema per vedere questa divertente commedia in cui lo stile tristemente noto de Il grande fratello incontra i meccanismi dei reality shows sui poliziotti americani. In realtà c’è qualcosa di più che rende Showtime uno dei migliori film in circolazione in questo periodo. Dopo Quindici minuti De Niro interpreta un ruolo di segno completamente opposto con un poliziotto costretto a posare dinanzi alle telecamere di un programma chiamato Showtime incentrato sulle sue operazioni e su quelle del collega che gli viene appioppato. Eddie Murphy è, invece, un attore fallito che ha indossato per caso la divisa e che come poliziotto è un vcro pasticcione. Una strana coppia per antonomasia in cui tra i due attori scatta una vera e propria alchimia facendo di Showtime non solo una divertente e divertita riflessione sul successo televisivo, ma anche una commedia estremamente brillante con una serie notevole di rimandi cinematografici. De Niro gioca a fare il "pessimo attore", mentre Murphy riprende la grinta del passato che tanta fortuna gli aveva portato in pellicole come quelle della serie 48 ore o della saga di Beverly Hills Cop peraltro appena rieditata integralmente in Dvd. Dopo Bowfinger l’interprete nero torna alla grande in un ruolo che gli si addice perfettamente con una verbalità istrionica che lo porta quasi a sovrastare il grande De Niro. Merito parziale anche del doppiaggio italiano di un Tonino Accolla più in forma che mai e di una pellicola che seppure più tarata verso la commedia, sembra raccogliere in pieno e maniera più che degna l’eredità vacante di Arma Letale.

L’era glaciale (Ice Age) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Di Chris Wedge – Film d’animazione Sceneggiatura Michael Berg & Michael J.Wilson Anno di produzione USA 2002 Distribuzione Twentieth Century Fox Durata 90’

Risposta al cinema d’animazione in computer grafica di Pixar e Pdi, L’era glaciale è un film divertentissimo che appassionerà in particolare gli amanti della fantascienza per la serie di citazioni insite nel film che vanno da La cosa dell’altro mondo a Star Trek. La favola ecologista e la fiaba della tolleranza dei tre animali preistorici impegnati a fare di tutto per salvare un bambino da un branco di tigri feroci, è temprata da un umorismo da cartone animato con personaggi simpaticissimi impegnati in imprese impossibili. Una slapstick comedy costruita con animazioni digitali molto intriganti, che non si accontenta – come spesso capita – di essere un film per bambini, ma si rivolge ad un pubblico molto vasto composto anche di adulti che potranno apprezzare alcuni dettagli più raffinati. Divertente, ma anche agrodolce il film è una riflessione comica sull’istinto degli animali, sull’amore, sulla sopravvivenza. Sulla necessità di un mondo dove gli esseri viventi si rispettino tra loro: in barba alla crudeltà, all’ipocrisia e – soprattutto – all’indifferenza. Dopo Monsters & Co. e Shrek un altro capolavoro che poteva essere girato in qualsiasi maniera data la bontà della sceneggiatura e l’intelligenza dei suoi autori.

Il segno della libellula (Dragonfly) {Sostituisci con chiocciola}

Kevin Costner – Joe Morton – Kathy Bates Sceneggiatura David Seltzer, Mike Thompson & Brandon Camp Regia Tom Shadyack Anno di produzione USA 2001 Distribuzione Buena Vista Durata 90’

Sulla scorta del successo de Il sesto senso, il film diretto dal regista di Patch Adams sui casi di morte apparente esaminati nei saggi di Raymond Moody Jr. è un’intrigante contaminazione tra le ansie metafisiche e i dubbi di ciascuno di noi, con fenomeni che non riusciamo a spiegare con la pura interpretazione razionale. Purtroppo, però, un’occasione mancata per un sempre monolitico Kevin Costner dalla carriera ormai in caduta libera. La storia del medico che riceve messaggi dalla moglie morta attraverso i bambini malati di tumore che hanno esperienze di pre-morte, potrebbe risultare intrigante se Costner non fosse l’attore meno capace al mondo di esprimere una variegata gamma di pulsioni e incertezze. I toni New Age del film e l’elemento profondamente umano della storia sono affogati in una narrazione efficace, che impatta contro l’inespressività congenita di Costner e il suo estremo compiacimento.

Senza alcuna fragilità, senza coinvolgere mai il pubblico Il segno della libellula è un ibrido nato lungo la terra di confine tra il cinema della tensione e la cronaca quotidiana. Una pellicola che poteva dirsi riuscita solo a patto di mantenere un equilibrio sottile tra mistero e fede, speranza e incertezza. Un processo invalidato dalla presenza goffa e inutile di un Kevin Costner che come attore non ha davvero più niente da offrire.

Don’t say a word {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}

Michael Douglas – Sean Bean – Famke Janssen – Brittany Murphy Sceneggiatura Antony Peckam Regia Gary Fleder Anno di produzione USA 2001 Distribuzione MEDUSA Durata 114’

Per tre quarti abbiamo il dubbio di stare assistendo ad un grande film. Un montaggio serrato e delle situazioni originali rendono claustrofobica e narrativamente forte la storia di uno psichiatra obbligato a tirare fuori da una paziente schizofrenica un codice richiestogli da dei misteriosi rapitori che minacciano di uccidere sua figlia.

Poi, l’azione e i suoi protagonisti si spostano maldestramente e poco verosimilmente nelle strade di New York e Michael Douglas getta il camice dello scienziato per diventare il supereroe e il superpapà di tanti pessimi film americani che francamente preferiremmo ignorare. Fino a quando la pellicola riusciva ad essere "contenuta" Don’t say a word aveva il pregio di un’ottima riuscita, convincente nel suo essere comunque poco verosimile. Poi, pian piano accade il disastro. Esattamente come era accaduto qualche anno per Il collezionista con Ashley Judd e Morgan Freeman, il regista Gary Fleder, già autore di Cose da fare a Denver quando sei morto non è riuscito a trattenersi, lasciando che la trama gli si sfilacciasse in mano cadendo nella banalità e nel deja vu. E dire che se avesse insistito in più sul contrasto psicologico tra Douglas e la giovane Brittany Murphy già apprezzata in Ragazze interrotte, I marciapiedi di New York e i ragazzi della mia vita il risultato avrebbe potuto essere ben diverso. La barriera mentale della giovane, la sua malattia vera o simulata che sia, conduce lo spettatore in un vortice interessante e al tempo stesso spaventoso. Il resto è un buon thriller dalla struttura solida che esce con un po’ di ritardo qui da noi e che in America è già disponibile in Dvd…

m.s.

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