L’ora di religione –
il sorriso di mia madre {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Di Marco Bellocchio
con Sergio Castellitto, Toni Bertorelli, Gigio Alberti,
L’identificazione di
Marco Bellocchio nel personaggio interpretato da Sergio
Castellitto e le digressioni oniriche di una sceneggiatura
sforzata smorzano sensibilmente la riuscita di un film che
identificando dei buoni duri e puri e dei cattivi troppo
palesi, sfinisce lo spettatore con la sua presunzione. Pur
appoggiando Bellocchio nel suo sostegno incondizionato al
laicismo, gli scarsi dubbi dei protagonisti, le loro
granitiche certezze, il loro affrontare in maniera
surreale situazioni realistiche, rendono "L’ora di
religione" un film spento che brilla solo per pochi
elementi: la recitazione di Castellitto, l’enigmatica
bellezza di Chiara Conti, l’affascinante fotografia di
Pasquale Mari e la splendida colonna sonora realizzata da
Riccardo Giagni. Il resto è pura congettura per un cinema
a tesi troppo complesso e artefatto per essere apprezzato
in un’integrità ridondante, che puntando il dito contro l’abnormità
di certe situazioni, perde di vista una realtà drammatica
che non ha bisogno di orpelli, ma che presentata nella sua
scarna veridicità sarebbe ancora più spaventosa.
Il
Re Scorpione {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Di Chuck Russell con
The Rock, Kelly Hu, Michael Clarke Duncan
Diretto dal regista
di The Mask e di La mossa del diavolo, più
vicino alla saga di Conan il Barbaro che alla serie
de La mummia da cui è derivato Il Re Scorpione
è un film divertente e sexy, girato alla James Bond
sulla scorta dell’eredità dei famosi "sandaloni". Un po’
Maciste, un po’Golia e un po’ 007 Il Re Scorpione del
titolo, che gli spettatori conoscono per l’apparizione nel
recente blockbuster La mummia – il ritorno, è
figlio dei nostri tempi cinematografici con un’intrigante
contaminazione etnica. Un po’ bianco, un po’ nero, un po’
nativo americano, un po’ indiano The Rock è la perfetta
impersonificazione di qualsiasi tipologia umana. L’attore
hawaiano ex campione di wrestling, è così il protagonista
di una storia scontata e prevedibile sin dall’inizio, che
trova nella sua regia e nelle sue scelte del cast, una
forza narrativa notevole. Un film veloce e divertente per
un genere commerciale sicuramente, ma almeno fatto bene e
scacciapensieri. Il film che ci avrebbe divertito tutti
vedere a quindici anni con una curiosità in più: la
compagna di The Rock, la veggente che l’eroe deve
conquistare per avere ragione dell’altrimenti imbattibile
nemico, è nientedimeno che la Kaori di una pubblicità
nefasta. E dire che se avesse sfoderato quel fisico
perfetto anche in Tv, anziché fare la scenetta forse, le
vendite sarebbero aumentate…gli spettatori dei cinema,
sicuramente la noteranno.
Hotel Dajiti §
Di Carmine Fornari
con Francesco Giuffrida, Flavio Bucci, Sarah Baumann,
Piera degli Esposti, Michele Venitucci
Roma, 1938. Andrea è
un illusionista che lavora in teatri di periferia e vive
di espedienti al limite della legge. Per uno sgarro fatto
alla polizia deve scappare ed accettare una scrittura in
Albania al Grand Hotel Dajti, un albergo che prende il
nome dall’omonima montagna alle spalle di Tirana. Incontra
una giovane ragazza albanese che tenta di violentare e che
in seguito sposa. Rintracciato dalla polizia scappa con la
moglie e il piccolo figlio di nome Emir. E’ il 1944: e la
donna viene colpita mentre sta per salire sul traghetto
che li porta in Italia, scomparendo tra i flutti marini.
Quaranta anni dopo,
per caso, un giovane pugliese di nome Pinuccio viene
scambiato per Emir e mandato alla ricerca del padre.
Finanziato con i
soldi dello Stato, "Hotel Dajti" è una pellicola da
dimenticare. A parte la presenza di Flavio Bucci e Piera
Degli Esposti che "fanno quel che possono" il film è
un’accozzaglia di situazioni senza senso pieno di errori,
incertezze e dubbi, peggiorati da un montaggio al limite
del demenziale. Dove andrà Pinuccio con il nonno di sera
sull’ape piaggio? Non lo sapremo mai, visto che nella
scena precedente saltava fuori da una finestra (ma era
giorno) e in quella successiva balla con gli amici in una
discoteca (e il nonno?). Sono questi gli esempi di un film
che infonde nello spettatore un senso di profonda
depressione. Pochi i mezzi, ancora più scarse le idee con
Francesco Giuffrida che seppellisce il ricordo di "Così
ridevano" di Gianni Amelio, sotto una coltre di faccette
inespressive e di battute senza senso. Un film pessimo,
con una sceneggiatura mediocre che non tiene conto dei
salti temporali, del montaggio, della scansione
drammaturgica, con un Venitucci costretto a fare
l’albanese che parla italiano. Piccolo particolare:
l’attore ha un fortissimo accento emiliano… Una storia
d’amore, ammantata da una serie di orpelli registici
patetici, con una recitazione noiosa e sopra le righe.
Straziante, poco credibile, ma soprattutto inutile. Il
momento da non dimenticare del film? Squilla il telefono e
la seconda domanda della persona che chiama è "dove sei?".
La prossima volta non a vedere un film del genere.
Showtime {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Robert De Niro –
Eddie Murphy – René Russo – William Shatner
Sceneggiatura Keith Sharon & Alfred Gough & Miles
Millar Regia Tom Dey Anno di produzione USA
2002 Distribuzione Warner
Bros.
Basterebbe il
cameo di William Shatner nei panni di T.J.Hooker a
convincere il pubblico ad accorrere a frotte nei cinema
per vedere questa divertente commedia in cui lo stile
tristemente noto de Il grande fratello incontra i
meccanismi dei reality shows sui poliziotti
americani. In realtà c’è qualcosa di più che rende
Showtime uno dei migliori film in circolazione in
questo periodo. Dopo Quindici minuti De Niro
interpreta un ruolo di segno completamente opposto con un
poliziotto costretto a posare dinanzi alle telecamere di
un programma chiamato Showtime incentrato sulle sue
operazioni e su quelle del collega che gli viene
appioppato. Eddie Murphy è, invece, un attore fallito che
ha indossato per caso la divisa e che come poliziotto è un
vcro pasticcione. Una strana coppia per antonomasia in cui
tra i due attori scatta una vera e propria alchimia
facendo di Showtime non solo una divertente e
divertita riflessione sul successo televisivo, ma anche
una commedia estremamente brillante con una serie notevole
di rimandi cinematografici. De Niro gioca a fare il
"pessimo attore", mentre Murphy riprende la grinta del
passato che tanta fortuna gli aveva portato in pellicole
come quelle della serie 48 ore o della saga di
Beverly Hills Cop peraltro appena rieditata
integralmente in Dvd. Dopo Bowfinger l’interprete
nero torna alla grande in un ruolo che gli si addice
perfettamente con una verbalità istrionica che lo porta
quasi a sovrastare il grande De Niro. Merito parziale
anche del doppiaggio italiano di un Tonino Accolla più in
forma che mai e di una pellicola che seppure più tarata
verso la commedia, sembra raccogliere in pieno e maniera
più che degna l’eredità vacante di
Arma Letale.
L’era glaciale (Ice Age) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Di Chris Wedge –
Film d’animazione Sceneggiatura Michael Berg &
Michael J.Wilson Anno di produzione USA 2002
Distribuzione Twentieth Century Fox Durata 90’
Risposta al cinema
d’animazione in computer grafica di Pixar e Pdi, L’era
glaciale è un film divertentissimo che appassionerà in
particolare gli amanti della fantascienza per la serie di
citazioni insite nel film che vanno da La cosa
dell’altro mondo a Star Trek. La favola
ecologista e la fiaba della tolleranza dei tre animali
preistorici impegnati a fare di tutto per salvare un
bambino da un branco di tigri feroci, è temprata da un
umorismo da cartone animato con personaggi simpaticissimi
impegnati in imprese impossibili. Una slapstick comedy
costruita con animazioni digitali molto intriganti, che
non si accontenta – come spesso capita – di essere un film
per bambini, ma si rivolge ad un pubblico molto vasto
composto anche di adulti che potranno apprezzare alcuni
dettagli più raffinati. Divertente, ma anche agrodolce il
film è una riflessione comica sull’istinto degli animali,
sull’amore, sulla sopravvivenza. Sulla necessità di un
mondo dove gli esseri viventi si rispettino tra loro: in
barba alla crudeltà, all’ipocrisia e – soprattutto –
all’indifferenza. Dopo Monsters & Co. e Shrek
un altro capolavoro che poteva essere girato in
qualsiasi maniera data la bontà della sceneggiatura e
l’intelligenza dei suoi autori.
Il
segno della libellula (Dragonfly) {Sostituisci con chiocciola}
Kevin Costner – Joe
Morton – Kathy Bates Sceneggiatura David Seltzer,
Mike Thompson & Brandon Camp Regia Tom Shadyack
Anno di produzione USA 2001 Distribuzione Buena
Vista Durata 90’
Sulla scorta del
successo de Il sesto senso, il film diretto dal
regista di Patch Adams sui casi di morte apparente
esaminati nei saggi di Raymond Moody Jr. è un’intrigante
contaminazione tra le ansie metafisiche e i dubbi di
ciascuno di noi, con fenomeni che non riusciamo a spiegare
con la pura interpretazione razionale. Purtroppo, però,
un’occasione mancata per un sempre monolitico Kevin
Costner dalla carriera ormai in caduta libera. La storia
del medico che riceve messaggi dalla moglie morta
attraverso i bambini malati di tumore che hanno esperienze
di pre-morte, potrebbe risultare intrigante se Costner non
fosse l’attore meno capace al mondo di esprimere una
variegata gamma di pulsioni e incertezze. I toni New Age
del film e l’elemento profondamente umano della storia
sono affogati in una narrazione efficace, che impatta
contro l’inespressività congenita di Costner e il suo
estremo compiacimento.
Senza alcuna
fragilità, senza coinvolgere mai il pubblico Il segno
della libellula è un ibrido nato lungo la terra di
confine tra il cinema della tensione e la cronaca
quotidiana. Una pellicola che poteva dirsi riuscita solo a
patto di mantenere un equilibrio sottile tra mistero e
fede, speranza e incertezza. Un processo invalidato dalla
presenza goffa e inutile di un Kevin Costner che come
attore non ha davvero più niente da offrire.
Don’t say a word {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Michael Douglas –
Sean Bean – Famke Janssen – Brittany Murphy
Sceneggiatura Antony Peckam Regia Gary Fleder
Anno di produzione USA 2001 Distribuzione
MEDUSA Durata 114’
Per tre quarti
abbiamo il dubbio di stare assistendo ad un grande film.
Un montaggio serrato e delle situazioni originali rendono
claustrofobica e narrativamente forte la storia di uno
psichiatra obbligato a tirare fuori da una paziente
schizofrenica un codice richiestogli da dei misteriosi
rapitori che minacciano di uccidere sua figlia.
Poi, l’azione e i
suoi protagonisti si spostano maldestramente e poco
verosimilmente nelle strade di New York e Michael Douglas
getta il camice dello scienziato per diventare il
supereroe e il superpapà di tanti pessimi film americani
che francamente preferiremmo ignorare. Fino a quando la
pellicola riusciva ad essere "contenuta" Don’t say a
word aveva il pregio di un’ottima riuscita,
convincente nel suo essere comunque poco verosimile. Poi,
pian piano accade il disastro. Esattamente come era
accaduto qualche anno per Il collezionista con
Ashley Judd e Morgan Freeman, il regista Gary Fleder, già
autore di Cose da fare a Denver quando sei morto
non è riuscito a trattenersi, lasciando che la trama gli
si sfilacciasse in mano cadendo nella banalità e nel
deja vu. E dire che se avesse insistito in più sul
contrasto psicologico tra Douglas e la giovane Brittany
Murphy già apprezzata in Ragazze interrotte, I
marciapiedi di New York e i ragazzi della mia vita
il risultato avrebbe potuto essere ben diverso. La
barriera mentale della giovane, la sua malattia vera o
simulata che sia, conduce lo spettatore in un vortice
interessante e al tempo stesso spaventoso. Il resto è un
buon thriller dalla struttura solida che esce con
un po’ di ritardo qui da noi e che in America è già
disponibile in Dvd…