Un’antologia di autori
italo-americani. Divisi fra le oramai incomprensibili
tradizioni familiari e il Nuovo Mondo che però non li accetta
facilmente. Così nascono storie di emancipazione e sofferenza.
All’ombra di quel sogno americano che anche gli immigrati dal
Bel Paese hanno contribuito a realizzare
AAVV, Figli di due mondi, Avagliano Editore,
pp.178, Euro 13,50
Come
sottolinea Francesco Durante nella sua puntuale introduzione
all’antologia di racconti di dieci autori italo-americani
degli anni trenta e quaranta da poco edita da Avagliano, quel
periodo rappresenta il momento storico in cui la presenza di
tali scrittori nella letteratura Usa non solo "si afferma come
una autonoma possibilità narrativa, non più limitata al pur
necessario e quasi obbligato passaggio autobiografico", ma si
apre ad una maggiormente variegata tavolozza espressiva,
contraddistinta da una più matura coscienza della propria
peculiarità etnica, quantunque, giusto in quegli anni, si stia
consolidando la consapevolezza della propria appartenenza a
pieno titolo alla nazione guida del Nuovo Mondo. Insomma:
italo senz’altro, ma americani pure.
Non a caso (vedi il racconto Un padre
immigrato, di Antony Turano) emerge chiaramente quella che
risulta essere la principale differenza tra giovani e meno
giovani – fra gli emigrati originari d’Italia e i loro figli
nati negli States, per capirci – ossia l’essere questi
ultimi abbastanza integrati nel tessuto socioculturale
americano (in primis per quanto concerne
l’ambito linguistico), a differenza dei genitori che non hanno
mai imparato bene a parlare inglese; come il padre di Turano,
un droghiere di Little Italy, il quale: "Era così tipicamente
italiano, ed era stato così poco influenzato dalla lingua e
dagli usi della sua patria adottiva, che bere il tè era il suo
unico gesto americano".
Eppure, ad onta di ogni integrazione, il
razzismo nei confronti dei Wops pesa ancora. Lo
testimonia John Fante – il più noto fra gli scrittori
italo-americani di quel periodo – affermando come gli epiteti
di "Wop" e "Dago", con cui dispregiativamente venivano
chiamati i nostri emigrati, "contengono l’essenza stessa della
povertà, dello squallore, della sporcizia". Al contempo,
tuttavia, per i più giovani la presa di distanza dalle
consuetudini di vita del Bel Paese si fa sempre più marcata
via via che il tempo passa, come afferma senza alcuna
nostalgia Jo Pagano, parlando di sé: "Io stesso, per esempio,
nato in America, cresciuto nelle scuole e nelle strade
americane, che cosa sapevo dell’Italia? Che era un paese dalla
forma di uno stivale deformato, secondo le carte geografiche
dell’Europa che avevo visto appese a scuola: un nome, un
sapore, una lingua che i miei parlavano".
Così l’emigrato diviene ormai figura
patetica, storicamente superata in un certo qual senso. Questi
per proteggere il suo mito diviene ipercritico nei confronti
del Paese ospite, denuncia in modo impietoso Angelo Bertocci.
Perciò: "Ne segue un certo disprezzo esagerato dell’America e
delle cose americane da parte dell’italiano della vecchia
generazione, che irrita gli americani". Di contro non manca la
sottolineatura dell’entusiasmo con cui molti vecchi emigrati
guardavano alla terra scoperta da Colombo, la quale è: "un
posto di prima classe", fa dire senza mezzi termini a un
personaggio d’un suo racconto Guido D’Agostino.
Ma non sono certo solo gli uomini i
protagonisti di questi narrativi. A parte la scontata
celebrazione delle madri esemplari, in grado di tirare avanti
la baracca e i figlioli anche senza il becco di un quattrino
("Nostra madre, ogni giorno, aveva da battagliare col
pescivendolo o col fruttivendolo, con il calzolaio o col
droghiere, per proteggere dalla loro avidità il nostro magro
patrimonio", ricorda in Memorie di mia madre Angelo
Bertocci), anche le figlie, le giovani donne della nuova
generazione fanno la loro comparsa – ora comica, ora
drammatica – nella scena narrativa di John Fante e compagni.
Vedi la storia più amara del libro, La ribellione di Millie,
di Garibaldi M. Lapolla, dove si narra il disagio esistenziale
della diciassettenne Millie, costretta a combattere con un
marito-padrone che si oppone al suo desiderio/bisogno di
trovarsi un’occupazione che non sia quella di casalinga. O il
racconto Pietre, di Mari Tomasi, che narra la faticosa
impresa di vivere da parte della moglie di un tagliatore di
pietre.
Così, un poco schizofrenicamente scissa tra
la memoria d’una Italia sempre più lontana e il presente
all’insegna degli Usa, l’anima degli emigrati e dei loro figli
oscilla tra regressioni nostalgiche e velleità di realizzare
in qualche modo il sogno americano d’un successo in grado di
esorcizzare per sempre anche il ricordo di stenti e miseria.
Poi verranno la guerra e il dopoguerra. Ma questa è un’altra
storia: sono altre le storie che la narreranno. Per il
momento fermiamoci qui.
Francesco Roat