Lodato dalla critica. Amato dai
registi. A suo agio a teatro come al cinema: per Sergio
Castelletto è un vero momento d’oro. A cui si aggiunge il
premio Strega vinto dalla moglie Margareth Mazzantini.
Attore coraggioso, non si tira indietro anche di fronte
alle storie più difficili. Come sono stati, racconta in
questa intervista, i suoi ultimi lavori
Il
2002 sarà un anno da ricordare per Sergio Castellitto,
vero e proprio attore dominatore del cinema italiano della
stagione. Reduce da una tournée teatrale trionfale
con un testo scritto da sua moglie Margareth Mazzantini
(peraltro vincitrice del Premio Strega con il suo ultimo
romanzo) l’interprete romano ha conquistato una serie di
consensi grazie alla sua interpretazione prima ne L’ora
di religione di Marco Bellocchio, poi in Va Savoir
di Jacques Rivette e – infine – nel "delizioso" (è
proprio il caso di dirlo) Ricette d’amore diretto
dalla regista tedesca Sandra Nettlebeck. Una serie di
affermazioni personali importanti dopo quelle di
Concorrenza sleale di Ettore Scola e il Padre Pio
televisivo.
Seduzione e cibo in che rapporto sono?
Mia madre non mi ha amato solo con le parole, ma
attraverso il cibo. Personalmente non so cucinare bene. Mi
sono avviato ad una vita da single e all’epoca mia
madre mi ha insegnato i fondamentali. Amo molto mangiare e
so cucinarmi qualcosina per sopravvivere. Seduzione e cibo
sono molto vicine. Del resto una delle prime cose che si
dice ad una donna quando la si vuole conoscere è: "Vuoi
venire a cena fuori?". La cena è una prova generale
del "secondo tempo": Profumi e sapori sono mille piccoli
micromovimenti di seduzione. In ogni film c’è un visibile
ed un invisibile, un detto e un non detto. La bambina
protagonista di Ricette d’amore viene conquistata
anche dalla semplicità dei gesti. Il cibo è un ponte verso
l’altro.
Che cosa l’ha spinta ad accettare un ruolo complesso
come quello de L’ora di religione?
Quando
ho letto la prima stesura non ho capito assolutamente
nulla della storia, ma per fortuna il progetto è andato
avanti. Non capire, infatti, non significa non sentire, ed
io, pur non comprendendo, sentivo che non avrei dovuto
perdere l’occasione di salire su questo treno. Bellocchio
nasce pittore, e quella prima stesura mi ha fatto pensare
a un artista che mi mostrava i colori che avrebbe usato
per realizzare un quadro, senza mostrarmi nulla
dell’opera. Il grande privilegio di lavorare con
Bellocchio è che l’attore recupera la necessità del
proprio lavoro, la necessità di ciò che si fa dentro e
fuori. Il lavoro con Marco è molto interessante, si prova
una scena e alla fine, nove volte su dieci, Marco dice che
la prova era perfetta per poi cominciare un’opera di
demolizione sistematica di questa perfezione. È un
artigianato molto puro, nel quale tutti ci sentiamo
studenti, un modo di lavorare speciale, in un mondo di
supponenza professionale. La sapienza si fonda infatti su
ciò che non sai, non su ciò che pretendi di sapere. Ma
fare un film è anche un percorso umano, in cui non conta
solo fare il film, ma l’intera esperienza che è un
patrimonio della tua vita di uomo. E qui ciò che ha
prevalso è il primato delle relazioni umane oltre a
un’atmosfera di lavoro allegra.
Si aspettava reazioni tanto dure da parte del mondo
cattolico?
Non credo che sia un film contro il mondo cattolico, ma
sulle contraddizioni della società civile, su come adopera
il dogma, la religione e altro in maniera ipocrita. Non è
un film contro la religione in generale e va detto
chiaramente, non per paura della reazione del mondo
cattolico, ma perché credo che sia un’opera dalla
spiritualità altissima, con un’intenzione religiosa
fortissima. È un film sulla coerenza, di cui non si parla
più, e questo è un tema che riguarda tutti. E molti preti
forse sono molto più coerenti dei laici.
Non crede che la religione oggi, almeno al cinema,
sia un argomento un po’ retrò?
Il
film non ha solo un aspetto religioso, ma anche
psicologico. La catastrofe di cui si parla è una
catastrofe affettiva, il buco che il protagonista, un
artista, ha nel cuore e nello stomaco. La sua reazione
ostile nei confronti del sorriso angelico della madre, in
realtà è rivendicare il fatto che questa donna non gli ha
dato amore, al di là del suo essere una donna cattolica.
L’ora di religione è un film ricchissimo perché
parla anche di noi, della nostra reazione. Ad un certo
punto il figlio gli chiede cos’è la coerenza e lui
risponde, in maniera adulta e al contempo infantile,
"pensare una cosa e poi farla". È un uomo che si trova a
fare i conti con tutti i ruoli della sua vita, il marito
(separato), l’amante, il padre, il figlio, e che rivendica
la propria coerenza, ma che prende i soldi da un editore
di cui non condivide nulla e che detesta ideologicamente,
politicamente, culturalmente. Come capita a molte persone.
m.s.