Può una
famosa sindacalista decidere un giorno di trasformarsi in
una scrittrice di libri gialli e – attraverso questi –
conquistare un successo inaspettato? Evidentemente sì,
perché questo è accaduto alla sessantenne francese
Dominique Manotti da sempre militante sindacale nella
Confédération Française Démocratique du Travail ed
insegnante di Storia economica del XIX secolo
all'Università di Parigi.
Il sentiero della speranza, che ha ricevuto il
premio per il miglior romanzo dall'Associazione francese
degli scrittori del giallo (1995), è il primo della
trilogia ambientata nella Parigi di Mitterand che ha come
protagonista il commissario Daquin. Un romanzo emozionante
che è ambientato nel 1980 a Parigi quando, in un giorno di
primavera, una ragazzina thailandese viene trovata morta
in uno dei tanti laboratori di confezione del Sentier, un
quartiere abitato in prevalenza da lavoratori turchi
clandestini. È il commissario del decimo Arrondissement a
doversene occupare: si chiama Daquin, è bello e
sofisticato, ama il jazz e il rugby, ha una storia
tormentata alle spalle. Dopo il ritrovamento di un
sacchetto pieno di eroina non lontano dal luogo
dell'omicidio, Daquin capisce che la sua non sarà una
banale indagine di routine sulla prostituzione minorile.
Insieme agli uomini della sua squadra - gente rude, dai
metodi non sempre corretti - si trova infatti a dipanare
una matassa in cui il traffico di armi si confonde con
quello della droga, in cui si mescolano pornografia e
indossatrici di lusso, banche, deputati e politica
mediorientale. Intanto i lavoratori turchi manifestano per
il permesso di soggiorno; li guida un ragazzo dagli occhi
azzurri, Soleiman, "un miscuglio sconcertante di
ribellione e sottomissione", informatore, amico e amante
del commissario. Nel mondo borderline in cui entrambi si
muovono, dove la violenza della polizia e il fanatismo dei
Lupi grigi sembrano quasi il minore dei mali, il loro
rapporto, pur nell'ambiguità, spicca per pulizia e
tenerezza. Nautilus ha intervistato l’autrice in
esclusiva.
Signora Manotti, perché il genere giallo è sempre
tanto di moda?
E’ un tipo di narrazione che si accorda perfettamente
con la nostra società se si vuole trovare una vera e
propria collocazione in questo mondo moderno. Non dico per
conoscerlo in profondità arrivando a capirlo
completamente, quanto, piuttosto, per esplorarlo. Il
genere noir rappresenta uno strumento straordinario
per confrontarsi con la realtà.
Parigi è da sempre nella letteratura considerata
come una città ricca di fascino e di mistero.
Meno di Londra e più – sicuramente – di Roma. E’ una
città straordinariamente ricca e variegata. Quando la si
conosce bene si arriva a comprendere che si tratta di un
amalgama disomogenea di quartieri diversi che
costituiscono ciascuno un universo separato denso di
realtà spesso conflittuali. Parigi non è solo la capitale
della Francia, ma è una collezione di quartieri pieni di
vita che esprimono identità diverse dell’intera nazione.
Ogni quartiere ha un’identità propria, fatta anche di
tradizioni diverse. Sia in maniera vistosa che più
nascosta Parigi è una città multidimensionale che offre
molto spazio a diversi piani narrativi.
Perché ha scelto di ambientare il suo romanzo più di
venti anni fa?
Come storica avverto la necessità di stabilire una
distanza rispetto al soggetto di cui scrivo. Questo è
l’unico modo che conosco per arrivare a delineare nei
dettagli una storia complessa.
Viene da pensare che la distanza sia anche di natura
politica…
Certo, quella era la Francia di Mitterand.
Originariamente il mio progetto era quello di stendere una
cronaca di quegli anni che hanno influenzato come pochi
altri le aspirazioni e le scelte della mia generazione. E’
per questo che mi è piaciuto potere utilizzare per lo
sfondo del mio libro un’epoca decisiva per la storia della
Francia moderna.
Che cosa le poteva dare un’ambientazione "pretecnologica"
in un’era, ovvero in cui la polizia non era dotata di
computer e di reti telematiche dei livelli odierni ?
Sicuramente non ha cambiato nulla per quello che
riguarda la semplicità delle indagini. Il mondo non è mai
stato facile in nessuna epoca. C’erano complicazioni di
genere differente, ma erano pur sempre presenti. Semmai la
diversità era nell’approccio che la polizia ha con i
delitti. Meno tecnologia, però, non significa anche minore
scientificità. Anche oggi i metodi rimangono invariati
rispetto al passato nonostante l’apporto dei computers.
L’intuizione è ancora oggi il dato che risolve l’85% dei
casi.
Qual è l’errore che un’ambientazione del passato
poteva farle commettere ?
Quello di applicare una metodologia investigativa
sviluppata solo di recente. Un anacronismo che –
fortunatamente – non ho commesso.