Breviario per
laici
Due
visioni della vita diverse: una crede nella
resurrezione dopo la morte, l’altra ha il
senso della morte come fine di tutto. Ma al
di là della figura di un dio di riferimento
o di vangeli e dogmi, nel breve saggio di
Salvatore Natoli cristiani e atei partendo
da idee divergenti si ritrovano uniti da
un’etica di fratellanza. Religiosa per i
primi, umana e sociale per gli altri
Salvatore
Natoli, Il cristianesimo di un non credente,
Edizioni Qiqajon, pp.91, euro 6.00
Parlando di
religiosità non è così semplice come può
sembrare di primo acchito dividere le
persone in credenti e non credenti. Se –
poniamo il caso – dico di credere in Dio,
postulo meramente l’esistenza di un ente
supremo o aderisco alla dogmatica di questa
o quella religione monoteistica? E ancora,
senza la fede in Dio è possibile credere
in un’etica universale? Infine: possiamo
ragionare, comunicare, convivere senza la
credenza in tutta una serie di paradigmi
o schemi regolativi?
È ovvio che
tutti noi – laici ed atei compresi – abbiamo
fede ossia nutriamo fiducia in qualcosa;
senza una Weltanschauung: privi di
una visione del mondo non è possibile
abitarlo. Tuttavia un conto è avere una
serie di convinzioni, altra conformarsi a un
credo che si basa su un testo sacro quale il
Corano o i Vangeli. Vero è altresì, come
affermava Benedetto Croce, che in un certo
senso noi non possiamo fare a meno di dirci
cristiani, in quanto il messaggio di Gesù e
i valori che da due millenni tale
insegnamento veicola hanno influenzato in
modo inequivocabile comportamenti e
atteggiamenti morali di tutto l’Occidente.
Tuttavia la
peculiarità di quanti si dicono credenti in
Cristo è ben altra. Ciò che li accomuna è
una fede di tipo escatologico ossia la
certezza in una redenzione salvifica alla
fine del mondo e del tempo. Lo sottolinea
Salvatore Natoli in un suo interessante
breviario per laici ricordandoci che il
cristiano “confida in un "futuro liberato"
dalla forza del Signore, di cui il
Risorto è primizia e insieme garanzia e
prova”. Così confidare nella resurrezione
dei morti comporta la speranza di riuscire
in futuro, nell’altro mondo, ad
affrancarci definitivamente dal male e dalla
morte. Ma tale utopia tratteggia il punto
cruciale di demarcazione fra l’ottica dei
credenti e quella dei non credenti (in
Cristo, almeno). Questi ultimi, infatti, si
riconoscono affratellati piuttosto dalla
comune dimensione della finitudine e del
limite in un orizzonte mondano il quale non
consente loro neppure di immaginare panorami
all’insegna di immortalità o eterna
beatitudine.
In ogni morale
dell’immanenza o del finito, per dirla
sempre con Natoli, l’uomo semmai “prende a
propria misura la morte” riconoscendola come
propria caratteristica precipua; non già per
abbattersi o disprezzare la nostra breve
parabola esistenziale ma per meglio
gestirla. Dunque l’etica non confessionale è
attenta giusto a guidare e ottimizzare
l’operato individuale in vista di una
realizzazione esclusivamente terrena che
dovrebbe essere vaccinata contro ogni
illusione d’onnipotenza (sebbene clonazione
ed esperimenti genetici aventi l’implicito
obiettivo di vincere la morte stiano ad
indicare come sia arduo estirpare tale
miraggio). L’essere transeunti – nota ancora
Natoli – l’essere esposti all’ineludibile
venir meno ci rende altresì consapevoli di
fare parte “di qualcosa che ci oltrepassa”.
Ieri non c’eravamo, domani non ci saremo, ma
soprattutto per vivere abbisogniamo fin
dalla nascita del contributo di altri esseri
umani ai quali ci lega una reciprocità (una
fratellanza, potremmo dire parafrasando il
linguaggio religioso) nel segno di
condivisione, cura e rispetto.
Tutto questo
sembra rimandare all’esortazione cristiana:
ama il prossimo tuo come te stesso; eppure
per il non credente ciò assume un’altra
valenza: non si tratta di un comandamento
divino o rivelato, ma di un atteggiamento
umanitario espressivo d’una morale laica,
che non rimanda a resurrezione, vita eterna,
grazia, bensì a una pietas e a una
com-passione che sia i seguaci del Buddha –
il Maestro spirituale di una religione senza
dei – sia gli antichi pagani ben
conoscevano. Così l’a-teo può esser visto
non già come chi nega dio (theόs), bensì –
vedi l’“a” privativo con cui inizia tale
vocabolo – chi ne è privo. Ma il religioso
stesso, dice bene Natoli, è conscio di come
dio rappresenti “la cifra della nostra
incompletezza”, manifestandosi pur sempre il
divino come annuncio o speranza di quanto ci
manca e trascende.
Francesco Roat
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