La Gioconda desnuda
Un’arte
ignorata e disprezzata da intellettuali e storici. Così Ando
Gilardi vede la storia della fotografia pornografica. E per
provare la sua tesi ha raccolto centinaia di immagini, dal
1800 fino alle moderne tecniche digitali. Anche se dietro a
quelle figure “pure e semplici”, come le definisce l’autore,
si nasconde un vero e proprio business che dura fino ad oggi
Ando Gilardi, Storia della fotografia
pornografica, Bruno Mondadori, pp. 387, euro 32,00
Storia
“infame”. Così polemicamente Ando Gilardi definisce l’oggetto
del proprio saggio, volto a ripercorrere le varie fasi e
modalità della fotografia pornografica, intorno alle quali il
silenzio degli storici è stato quasi totale. L’autore ha il
dente avvelenato contro gli intellettuali bacchettoni e
ipocriti che hanno così a lungo snobbato questa forma d’arte
(o artigianato) che più di tutte le altre ha a che fare sì col
corpo e con la sessualità, ma innanzitutto col desiderio e con
le sue icone create dall’immaginario maschile sin dagli albori
della tecnica fotografica. Lo testimoniano i numerosi
dagherrotipi che illustrano il primo capitolo di un testo
corposo, scandito in dieci libri, frutto di appunti e
materiali raccolti dal Nostro attraverso un arco di tempo
lungo circa un cinquantennio.
Inizia infatti sin dai tempi di Daguerre (l’inventore della
fotografia) la crociata integralista contro le immagini
pornografiche, condannate non solo dalla Chiesa ma dai
tribunali di tutta Europa, vuoi per la loro rivoluzionaria
carica destabilizzante rispetto al moralismo tradizionale
imperante, vuoi per il carattere trasgressivo dei fotomontaggi
a sfondo erotico con cui si mettevano alla berlina re, regine,
papi e persino personaggi aureolati di retorica
nazionalistica, come lo stesso Garibaldi.
Vicenda “infame”, dunque, quella ricostruita da Gilardi, ma
anche a suo modo eroica, se teniamo conto del numero
impressionante di tutti gli uomini e le donne finiti in
carcere, rei di aver reso “disponibili al grande pubblico i
segreti dei corpi tenuti celati per secoli”. Ovvio che le
immagini pornografiche non rappresentassero – né rappresentano
a maggior ragione oggi – solo la testimonianza di un anelito
alla libertà espressiva; esse erano e sono prodotte a fine di
lucro, permettendo da sempre di realizzare un enorme
business economico in cui i modelli e in primo luogo le
modelle (un tempo quasi esclusivamente prostitute) alla fin
fine venivano e vengono molto prosaicamente sfruttati.
Va comunque elogiata senz’altro la competenza divulgativa di
Gilardi (fondatore, tra l’altro, della Fonoteca storica
nazionale) per avere non tanto messo a disposizione dei
lettori una mole considerevole di materiale iconografico (sono
centinaia le fotografie, talune delle quali mai finora
pubblicate), bensì innanzitutto per l’intelligenza della parte
testuale; per l’analisi ermeneutica così arguta delle
figurazioni pornografiche: dalla dagherrotipia alle immagini
digitali. Una sola cosa mi permetto di obiettare all’autore.
Non sono d’accordo con la sua affermazione un po’ ingenua che:
“mai nella storia dell’iconografia ci furono immagini più
″pure e semplici″ delle prime fotografie pornografiche”. Non
dimentichiamoci che, sin dal suo esordio, la pornografia non
già descrive semplicemente un’esperienza corporea o un
rapporto sessuale ma la loro simulazione. La foto porno è
sempre costruita, quindi mai pura, e il suo luogo è
l’immaginazione più che la fisicità. Essa piuttosto, come ebbe
a dire Khan, è sovversiva in quanto annulla la persona,
reificandola in macchina fantasmatica per un godimento
onanistico cioè alla fin fine solitario e mentale, il quale
nulla ha a che fare con la sessualità relazionale, che è
rapporto paritario tra due esseri, piacere di un darsi
reciproco.
Francesco Roat
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