Desidero, quindi sono
Viviamo in un mondo dove la parola
d’ordine è possedere. La ricchezza, una
Ferrari, donne bellissime. Per poi
scoprire che quello che si vuole veramente
non sono oggetti e persone, ma è quello
che non si ha. E nel suo saggio Ugo Volli
ci spiega che il significato della vita è
proprio nell’impossibile rincorsa alla
pienezza di sé
Ugo Volli, Figure del desiderio, Raffaello
Cortina Editore, pp.363, Euro 13,00
Finite ormai nel dimenticatoio le
ideologie, tutti noi più o meno
disincantati occidentali dell’era
post-moderna abitiamo un mondo dove regna
sovrano assoluto il desiderio: unico
credo, unico imperativo categorico di
questa nostra società all’insegna
dell’edonismo e dei consumi. Anche se poi
l’apparente ampio spettro del desiderare
si riduce quasi sempre, ahinoi, a ciò che
si può acquistare o all’invidia rispetto a
oggetti di prestigio o appagamento
appartenenti ad altri. Oggi certo non si
desiderano più le vecchie utopie ormai
tramontate: equa redistribuzione delle
ricchezze, benessere e giustizia per
tutti, solidarietà… Non si desidera tanto
al plurale – collettivamente – ma al
singolare, nei confronti di cose o di un
miglioramento tutto soggettivo, privato e
alla fin fine narcisistico.
Eppure in realtà, sostiene
provocatoriamente Ugo Volli nel suo
recente e pregevole saggio intorno alle
Figure del desiderio: “Ciò che si
desidera non è mai esattamente un
oggetto”. Noi non bramiamo di poter avere
una Ferrari, un miliardo, una donna o un
uomo bellissimi, ma ci intriga e fa
vogliosi piuttosto il discorso, il
disegno narrativo che intessiamo intorno a
(e che ci relaziona con) questi oggetti;
intorno a tali figure attraenti. In parole
povere, ogni brama è prima di tutto
costruzione mentale e culturale; è
assegnazione di valore e importanza che
proiettiamo su una cosa ma che
innanzitutto riflette ciò che io credo
possa dare maggior significato, piacere,
accrescimento o libertà alla mia vita.
Ancora, il desiderio è legato a filo
doppio con la mancanza, con quanto cioè
non posseggo o detengo stabilmente. Sogno
il conto in banca che non ho, l’attore o
la diva che assai difficilmente riuscirò a
conquistare, la villa che non mi
appartiene. Quindi esso è cifra
illuminante della nostra condizione
esistenziale di esseri carenti e fragili
che, non bastando a se stessi, sempre
abbisognano dell’altro da sé per
sussistere. Come ha sottolineato Guenther
Anders, infatti, la fame di mondo o
il suo desiderio svelano la finitezza
dell’esserci.
Così, continua Volli, desiderare equivale
a “raccontare una bella storia su di sé”;
significa auspicare ci accada una certa
“vicenda”. E sicuramente quella più
fiabesca, o più comune, è quella che ha
per oggetto l’amore: il desiderio per
antonomasia. L’amore, dove l’agognato è
appunto l’altro da me, l’uomo o la donna
che ancora mi manca o comunque “non c’è
mai abbastanza” in quanto la fusione
ideale, l’unione totale non è possibile in
quanto i partner sempre individui distinti
restano, perfino nella compenetrazione del
coito, nell’amalgama estremo tra il fisico
e l’estatico dell’orgasmo. L’amore, la cui
alchimia fa scatenare il massimo
potenziale di bramosia: desiderare
d’essere a propria volta desiderati. Ma
per far scattare nell’altro/a il desiderio
nei miei confronti ecco sempre più
l’interesse, al limite dell’ossessività,
per il corpo. Un corpo sì da ostentare, ma
prima ancora da perfezionare
incessabilmente attraverso cure fatte di
cosmetici, diete, fitness, chirurgia
estetica e chi più ne ha ne metta pur di
trasformarlo in feticcio, in segnale
erotico, in strumento di e per il proprio
e altrui piacere.
Volli ci parla infine del desiderio più
irrisolto e vano, quello del rimpianto per
ciò che non è più o, peggio, mai è stato
possibile conseguire, ossia quella
passione dell’assenza, per sua natura
impossibile da appagare perché fondata sul
lutto e sull’illusione infantile
d’onnipotenza. Un anelito melanconico –
legato al sogno di annullare il tempo e
l’irreversibilità della nostra parabola
esistenziale – che spesso cela un altra
parallela e folle velleità: quella di
poter mai giungere ad una pienezza
assoluta: immutabile e definitiva,
desiderio che è insieme hybris
(tracotanza, come l’ebbero a chiamare i
greci) e pulsione di morte (per dirla con
Sigmund Freud). Sarà che forse ha proprio
ragione Volli: quello che auspichiamo
davvero di ottenere “a rigore, non
esiste” in quanto: “Il desiderio non
riguarda mai le cose come sono, ma
solo come non sono”. Esso ha a che
fare ancora una volta con la mancanza, col
nulla e col nostro essere esposti al
mondo. Colto in quest’ottica, però, il
desiderio è un appetito vitale;
consentendo tale tensione mai del tutto
appagabile il gioco (direbbe
Gadamer) in cui può esprimersi la vita. Lo
iato – lungo o breve, abissale o piano che
sia – fra aspettativa e appagamento che
viene a costituire giusto il tempo e lo
spazio: la dimensione propria dell’umano
consistere.
Francesco Roat
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