I film di
febbraio 2003
Star Trek Nemesis {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Patrick
Stewart, Brent Spiner, Jonathan Frakes,
Tom Hardy, Marina Sirtis, Ron Perlman,
LeVar Burton, Michael Dorn
Sceneggiatura John Logan Regia
Stuart Baird Anno di produzione
USA 2002 Distribuzione UIP
Durata 120’
John
Logan, autore di sceneggiature come
quella de Il gladiatore e di RKO 281,
nonché evidentemente grande fan di Star
Trek ha sfruttato per Nemesis in cui il
Capitano dell’Enterprise ha a che fare
con Shinzon, un suo clone progettato dai
Romulani per ucciderlo e avere così a
disposizione una spia perfetta.
Visivamente eccitante, Nemesis segna
l’incontro tra Picard e quella che
potrebbe essere considerato il suo
nemico perfetto, ma anche la fine di
un’epoca per Star Trek con una serie di
cambiamenti radicali e significativi,
nonché ovviamente dolorosi per i fans.
Commovente, Nemesis non è un film
interessante e decisamente riuscito
perché ricorre a momenti melodrammatici,
bensì perché i personaggi e il livello
della narrazione sono posti su un
gradino più alto anche grazie ad un
regista non trekkiano che oltre ad
imporre un montaggio serrato, riduce il
dramma alla sobria essenzialità. La sua
forza narrativa sta tutta nel confronto
tra Picard e se stesso – o almeno da
un’altra parte di sé - interpretata da
uno straordinario Tom Hardy che –
nonostante la giovane età, nella
versione originale – soprattutto grazie
alla voce riesce a contrastare da pari a
pari, l’impostazione shakespeariana di
Patrick Stewart. In più – ed è questa la
vera buona notizia – l’Enterprise torna
protagonista di una grande battaglia
(no, non si vede il ridicolo joystick di
Insurrezione) nonché dell’intera storia.
Nuovi gadgets, momenti di pura comicità,
ed un gusto teatrale straordinario per
il confronto tra i personaggi sono i
punti forti di questo film che è
sicuramente uno dei più riusciti
dell’intera saga e senza alcun dubbio il
migliore con l’equipaggio di The Next
Generation dopo Primo Contatto. Un tono
dark ed un confronto da “fine dei tempi”
fanno sì che questo film,
inaspettatamente, costituisca il
compimento perfetto del viaggio iniziato
sedici anni fa e che possa essere
apprezzato dai non trekkers, anche se –
in realtà – profondamente ispirato dalla
filosofia guida di Star Trek.
Gangs of New York {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Leonardo
Dicaprio, Daniel Day Lewis, Cameron
Diaz, John C.Reilly, Liam Neeson
Sceneggiatura Kenneth Lonergan,
Steve Zaillan, Jay Cocks Regia
Martin Scorsese Anno di produzione
USA 2002 Distribuzione Twentieth
Century Fox Durata 165’
Il film
tanto atteso che ha segnato in maniera
indelebile le pagine di quotidiani e
rotocalchi degli ultimi due anni, arriva
finalmente nelle sale con la sua forza
politica e umana tipica del cinema di
Scorsese. Volutamente sgradevole,
intenso e – al tempo stesso – doloroso,
Gangs of New York racconta la storia di
un ragazzo che diventa – nell’America
del diciannovesimo secolo – il braccio
destro dell’uomo che ha ucciso suo
padre. Un piccolo boss di quartiere
sullo sfondo della New York
dell’immigrazione irlandese, della
libertà dalla schiavitù, della guerra
civile che si confonde con la lotta
quotidiana per la sopravvivenza. Un
affresco visionario ed intenso, tutt’altro
che rassicurante, della nascita di una
città, narrata attraverso personaggi di
un’altra epoca, che riportano alla luce,
la memoria, spesso volutamente
dimenticata di un’intera nazione. Lungo
quasi tre ore, Gangs of New York risulta
interessante anche se non del tutto
convincente per essere considerato un
capolavoro. La lotta dai toni “post
apocalittici” tra le bande rivali, un
gusto reiterato per una violenza
continua e “crassa” , l’esaltazione
celebrazionista di uno scontro d’onore
senza quartiere, vengono, infatti, solo
in parte mitigati e giustificati
dall’interpretazione notevole degli
attori come Daniel Day Lewis e Leonardo
Dicaprio, e da una regia inaspettamente
claustrofobica. Un film complesso nella
sua articolazione, ma soprattutto
interamente affidato ad una sensibilità
soggettiva nel suo diventare prodotto di
una riflessione personale sul passato,
spesso inconfessabile, della democrazia
americana.
Prova
a prendermi (Catch me if you can)
{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Leonardo
Dicaprio, Tom Hanks Sceneggiatura
Jeff Nathanson Regia Steven
Spielberg Anno di produzione USA
2002 Distribuzione UIP Durata
145’
Ancora
una volta Steven Spielberg si avvicina
sensibilmente alla zona Oscar con una
pellicola che al di là dell’elemento
biografico resta essenzialmente una
riflessione sulla paternità e sul senso
stesso del rapporto tra gli esseri
umani. Frank Abagnale Jr. nella sua
biografia racconta come da adolescente
qualunque, seppure dotato di
un’intuizione innata per la conoscenza
delle debolezze del prossimo,
traumatizzato dal divorzio dei suoi
genitori, sia diventato in poco tempo il
falsario più temuto d’America, emettendo
assegni per diversi miliardi di dollari
prima di avere compiuto ventuno anni.
Così, Spielberg con un senso
straordinario dell’equilibrio tra dramma
e commedia, costruisce una storia a metà
tra le avventure di Arsenio Lupin e
“senza famiglia”, incentrando la storia
di Abagnale sul suo rapporto con
l’agente dell’FBI pronto a tutto nel
dargli la caccia. Forte di una buona
alchimia tra Dicaprio e Tom Hanks, Prova
a prendermi diventa una pellicola
emozionante e coinvolgente in cui oltre
a ricostruire il climax dell’America
degli anni Cinquanta, Spielberg insiste
sul tema della paternità e sul senso di
abbandono che può segnare (nel bene o
nel male oppure in tutti e due), la vita
di ogni essere umano.
The Ring {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Naomi
Watts, Martin Henderson, Brian Cox
Sceneggiatura Ehren Kruger Regia
Gore Verbinski Anno di produzione
USA 2002 Distribuzione UIP
Durata 115’
Il
rifacimento dell’horror giapponese Ringu,
scritto da Ehren Kruger (Arlington Road,
Scream 3) The Ring vede assurgere al
ruolo di protagonista, la bionda
tentazione australiana sfruttata da
David Lynch per Mulholland Drive. Naomi
Watts a parte, l’estetica curatissima
del film, fa sperare sin dall’inizio che
Gore Verbinski (Un topolino sotto
sfratto, The Mexican) riesca a condurre
in porto una storia complicata, nata
sulla scorta di una leggenda
metropolitana che vaticina la morte per
ogni persona che vedrà una determinata
cassetta vhs. Una bella giornalista,
ragazza madre, scopre che c’è qualcosa
di vero e vede precipitata la sua vita
all’interno di un inatteso cerchio di
morte. Se dal punto di vista
squisitamente tecnico e narrativo The
Ring è qualcosa a metà tra lo spaventoso
e l’esaltante, sotto il profilo
narrativo è talmente deludente
dall’inficiare il risultato complessivo
dell’intera pellicola. Come una torta
coloratissima ed appetitosa che si
rivela insapore, The Ring crolla su una
sceneggiatura alla ricerca di ripetuti
colpi di scena che definire già visti
sarebbe eccessivo. Un po’ Poltergeist,
un po’ Nightmare, The Ring è un mistero
senza spiegazione (e senza senso) che
parzialmente richiama le tematiche
presenti nell’ingiustamente trascurato
Session 9. Sostanzialmente una delusione
talmente inattesa da fare quasi – e
questo non dovrebbe mai capitare –
arrabbiare lo spettatore che rischia di
sentirsi insultato se non – perdonate la
facile battuta – preso in “giro”…
007 La morte può
attendere (Die another Day){Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Pierce
Brosnan, Rosamund Pike, Halle Berry
Sceneggiatura Neal Purvis & Robert
Wade Regia Lee Tamahori Anno
di produzione USA 2002
Distribuzione Twentieth Century Fox
Durata 138’
Dal punto
di vista strettamente cinematografico,
il film per la celebrazione del
quarantennale bondiano (in uscita da noi
a molti mesi di distanza…) è il migliore
dell’intera saga, e – certamente – il
più interessante e riuscito dei quattro
con Pierce Brosnan sotto lo smoking
indossato da Sean Connery e Roger Moore.
Lee
Tamahori, reduce dal successo di Once
Were Warriors e di Nella morsa del
ragno, immette una sensibilità di
ripresa guerrilla style in un Bond
innovativo sotto molti punti di vista.
Se da un lato già dai titoli di testa si
intuisce che qualcosa sembra essere
definitivamente cambiato per 007,
d’altro canto nel corso della pellicola
abbiamo tanti segnali che è iniziato
davvero un nuovo corso per la serie più
longeva della storia del cinema.
Tradimenti, inganni, raggiri, debolezze
varie, rendono Bond più umano, simpatico
e credibile, riportato alle sue origini
di killer governativo, pronto a perdere
la vita e il posto di lavoro in difesa
dei suoi ideali. Certo ci sono sempre le
gustose scenette con Q, l’eterno
spasimare di Moneypenny e gli
inseguimenti, la musica, il James Bond
theme, le donne più belle del mondo. Ma
c’è anche una macchina che diventa
invisibile (grazie a delle
minitelecamere) e una tecnologia quasi
alla Face Off che rende i cattivi
irriconoscibili ed imprendibili.
Un film
scintillante e intenso, con una
sceneggiatura tutta dedicata alla Corea
del Nord e a rendere Bond più una spia
che un supereroe. Da non perdere,
soprattutto per questa suo gusto della
novità sospeso tra innovazione e
memoria. Ci sono molti gadgets dei film
passati e molte citazioni per dimostrare
che 007 non morirà mai, ma c’è anche una
sceneggiatura nuova, un regista tosto e
delle donne che non sono solo compagne
di letto. Ci sono addirittura i Clash
nella colonna sonora con London Calling
e – tra le cose che si potevano evitare
– Madonna in un risibile cameo, nonché
nella title track meno bondiana di
tutte. Insomma, se La morte può
attendere è anche vero che noi non
riusciamo ad aspettare il Dvd e il
prossimo Bond che – speriamo – saranno
ancora nel segno della sorpresa e
dell’intelligenza stilistica.
L’Americano Tranquillo (The Quiet
American){Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Michael Caine, Brendan Fraser
Sceneggiatura
Christopher Hampton
Regia
Philip Noyce
Anno di produzione
USA 2001
Distribuzione Medusa Durata 118’
Negli USA
la sua uscita è stata ritardata di quasi
due anni a causa dei fatti dell’11
settembre. Si mormorava, infatti, che le
scene cruente di attentati facessero di
questo film un possibile oggetto di
scandalo per un pubblico ancora
traumatizzato dall’attacco alle Torri
gemelle. In realtà la versione che il
regista Philip Noyce ha dato del romanzo
di Graham Greene già oggetto di un
adattamento cinematografico da parte di
Joseph L.Mankiewicz (Eva contro Eva,
Cleopatra) nel 1958 ha qualcosa di
davvero straordinario. Una qualità che
trovi soltanto nei film che puoi
considerare dei veri e propri capolavori
grazie alla forza delle immagini,
l’intensità delle emozioni e al dolce
abbandonarsi ad una girandola di
pensieri e sensazioni diverse.
Disperatamente romantico e – al tempo
stesso – dalla forte vocazione etica e
politica, L’Americano Tranquillo mostra
Michael Caine negli abiti larghi di chi
è deciso a sopportare con paziente
comodità il caldo del Vietnam del 1952.
Corrispondente del Times di Londra, il
suo personaggio si fa vanto di non
dovere scegliere da che parte stare, di
essere neutrale. Ma un giorno, un uomo,
deve decidere da che parte stare. E
capita che quella data coincida con un
attentato in cui bambini, anziani, donne
trovano la morte. Non si tratta solo di
politica: non c’è soltanto la faccia
pulita di un americano tranquillo come
Brendan Fraser che è capace di fare di
tutto affinché nel Vietnam regni quella
che lui considera democrazia. C’è anche
una contesa dai toni cavallereschi, per
una bella prostituta vietnamita che vive
con il giornalista. Ispirato alla vita
di Graham Greene ossessionato dalla
religione e dal divorzio, il suo
personaggio non può portarla a casa con
sé, perché sua moglie non gli consentirà
di separarsi. E’ così che l’americano
del titolo, inizia a sottrargli pian
piano la donna, allettandola con un
futuro che l’inglese sembrerebbe non in
grado di darle… Tutto questo, però,
brucia in una girandola di passione, di
politica, di immagini meravigliose, rese
ancora più straordinarie da una colonna
sonora composta da Craig Armstrong
decisamente toccante. Dopo La
generazione perduta Philip Noyce ha
firmato un altro capolavoro, ma –
soprattutto – Michael Caine ha ipotecato
un altro Oscar.
Marco
Spagnoli
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