E Forrest Gump entrò
nell’Fbi
Un agente a volte stupido
e a volte geniale. Che insegue per anni
un truffatore imprendibile ma alla fine
tenta di redimerlo. Così Tom Hanks
interpreta l’agente federale a caccia di
Dicaprio in “Prova a prendermi” di
Spielberg. Con quel misto di ingenuità e
serietà che ne hanno fatto un attore
pluripremiato agli Oscar
Mentre
nei cinema non si è ancora spenta l’eco
di Era mio padre in cui l’attore
vincitore di due Oscar per
Philadelphia e Forrest Gump
interpreta il ruolo di un gangster di
origine irlandese che fa di tutto pur di
salvare suo figlio dalla sua pesante
eredità, Hanks torna sul grande schermo
con Prova a prendermi incentrato
sulla vita di Frank Abagnale Jr. La
pellicola si ispira all’autobiografia di
Abagnale, il libro che racconta la
storia di un adolescente fuggito da casa
che, malgrado possedesse soltanto un
diploma di scuola superiore, riuscì a
spacciarsi per pilota d’aereo, medico,
avvocato e docente universitario e a
incassare milioni di dollari con degli
assegni falsi. Praticamente nessuno fu
in grado di arrestarlo, tranne un agente
dell’Fbi solitario e un po’ pasticcione
che dedicò parte della sua vita prima a
tentare di fermare il giovane e poi a
riabilitarlo. Un’altra figura paterna
per un attore sempre più coinvolto da un
cinema di contenuti, proprio quando in
Dvd esce Orange County che segna
il grande debutto del figlio di Tom,
Colin Hanks, nel ruolo da protagonista
di una commedia dai toni agrodolci. Per
non dimenticare, poi, che Hanks insieme
a sua moglie Rita Wilson è anche il
produttore alle spalle dell’enorme
successo de Il
mio grosso grasso matrimonio greco…
Non è curioso che lei
interpreti due film tanto “forti” sul
senso della paternità a breve giro di
posta?
Forse lo è, ma tutto il
film parla di qualcosa di simile al
legame padre-figlio nel rapporto che
cresce tra Frank e il mio personaggio.
Quello che li unisce è la solitudine e
c'è una sequenza particolare del film
dove questo aspetto è chiaro: la vigilia
di Natale, Frank, sempre in fuga, è solo
in una stanza d'albergo e non ha nessuno
con cui parlare. E anche Carl vive la
stessa situazione, solo nel suo ufficio.
Non a caso c’è una telefonata che segna
il primo di una lunga serie di confronti
tra i due. Carl, il mio personaggio, è
profondamente impressionato dallo stile
e dall’eleganza del truffatore; la
scoperta della sua giovanissima età,
poi, lo lascia letteralmente di sasso.
All’improvviso, capisce di avere a che
fare con un ragazzo, straordinariamente
abile è vero ma pur sempre un ragazzo
che in fondo sta vivendo un’avventura
più grande di lui. A quel punto il suo
atteggiamento diventa quasi protettivo.
Sa bene che Frank è un criminale e, come
tale, dovrà assicurarlo alla giustizia,
ma avendone scoperto la fragilità farà
anche in modo che possa redimersi.
Se non fosse stato un
padre, questi
ruoli li
avrebbe potuti interpretare alla stessa
maniera?
Potrei dire di sì, che
avrei potuto farlo, ma che al tempo
stesso non avrei avuto nulla da offrire
al mio personaggio. Quindi la mia
risposta è no. Se sei un padre spesso
vai a letto domandandoti: "Cosa ho
fatto di bello oggi per rovinare la vita
di mio figlio? Quali cicatrici
indelebili ho inferto loro per colpa dei
miei errori?". Un padre, però, vive
anche una connessione fortissima e
carica di gioia con i propri figli e
questo è meraviglioso. Non provando
queste cose non si può diventare padre
sullo schermo anche se tutti noi viviamo
i nostri rapporti misteriosi con i
nostri genitori. Alle volte si è vecchi
amici, altre quasi degli estranei.
Il film è ambientato
negli anni Sessanta. Cosa ha
rappresentato per lei quell’epoca?
Per me gli anni Sessanta
sono iniziati con la morte di J.F.K, e
poi il Vietnam, Martin Luther King e le
rivolte razziali che hanno letteralmente
sconvolto la mia città.
No, non è stato un
periodo innocente, come si vorrebbe far
credere, ma è stato un periodo molto
bello, avevamo una musica stupenda e lo
stile di allora è moda oggi. Ora non si
possono più provare le stesse emozioni,
come salire sulla scaletta di un aereo.
La sua carriera è ormai
trentennale. Qual è la sua idea del
cinema?
I film devono emozionare
e magari farci pensare ad aspetti reali
della nostra vita. Per esempio,
nonostante abbia fatto ruoli molto
diversi, credo che i miei personaggi si
siano sempre posti la stessa domanda ad
un certo punto: come mi trovo in questa
situazione? Anch'io come attore ogni
tanto mi chiedo come è possibile aver
ottenuto tanti riconoscimenti, andare in
alberghi bellissimi ed essere scortato
come un mafioso. Mi sento molto
fortunato, anche perché nella mia vita
non sono mancati i momenti negativi...
Carl Hanratty è un agente
dell’Fbi. Un ruolo nuovo per lei…
Negli anni Sessanta gli
agenti Fbi venivano ancora rappresentati
alla John Wayne, negli anni Settanta in
maniera completamente negativa. Il mio,
invece, è nel mezzo: a volte un idiota,
a volte un uomo eccezionale. Un essere
umano che cerca di fare il proprio
lavoro con coscienza.
m.s.
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