I film di
marzo 2003
The Hours {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Nicole
Kidman, Julianne Moore, Meryl Streep,
John C.Reilly, Ed Harris, Claire Danes,
Toni Collette
Sceneggiatura
David Hare
Regia
Stephen Daldry
Anno di produzione
USA 2002
Distribuzione
Buena Vista
Durata
110’
Come il
lento fluire di un fiume in grado di
portare via la vita, il tempo scorre sui
tre personaggi femminili di questo film,
accompagnato dalla malinconica ed
addolorata colonna sonora di Philip
Glass.
The Hours
nel suo essere sospeso tra
passato e presente, racconta la vita di
tre donne in epoche e momenti storici
distanti: Virginia Woolf (Nicole Kidman)
e le sue intuizioni mentre scrive il
romanzo Mrs. Dalloway, una borghese
americana (Julianne Moore) che negli
anni Cinquanta legge Mrs. Dalloway
durante i mesi di gravidanza, una donna
di oggi (Meryl Streep) che viene
chiamata Mrs. Dalloway dal suo amico
poeta ammalato di AIDS, il giorno in cui
questo sta per ricevere un’onoreficenza
sono tre donne diverse, accomunate da
qualcosa di molto intimo. Madri, mogli
e amanti unite da una comune fragilità
emotiva e – soprattutto – dalla medesima
percezione del tempo e della sua
gravosità. Diretto da Stephen Daldry,
già autore del sorprendente Billy
Elliot, The Hours è una celebrazione
della vita attraverso la sua disperata
negazione e – soprattutto – raccontando
il disagio di anime femminili diverse
tra loro associate idealmente da una
sottile e personalissima angoscia. Un
film che sorprende lo spettatore sotto
diversi punti di vista: da un lato,
infatti, le tre attrici(tutte
straordinarie e meritevoli di Oscar,
anche se Meryl Streep è candidata per
quell’altro gioiello che è Il ladro
di orchidee) recitano ognuna un
proprio segmento di trama, tessuta
insieme da una sceneggiatura, un
montaggio, una regia (e una colonna
sonora) decisamente notevoli. D’altro
canto la narrazione è avvincente e
avvolgente sebbene nel film di fatto
accada poco o nulla. Ovviamente non si
tratta di un action movie, e
The Hours segna il potere della
parola nella sua glorificazione. Con dei
dialoghi misurati, ma soprattutto
ispirati, il film indaga nell’animo
umano (ridurlo al solo lato femminile
sarebbe davvero un insulto)
scandagliando sentimenti non facile né
da comprendere, né tantomeno da spiegare
attraverso la narrazione
cinematografica.
In questo
senso anche la partitura orchestrale di
Philip Glass (alla sua migliore colonna
sonora dopo Kundun) ottiene un
effetto determinante: le note del
compositore americano sono essenziali
per descrivere le lente giravolte di una
lunga ed inesorabile danza tra la morte
e la vita di tre donne sole con la
propria esigenza di essere altro da sé.
Una suadente evocazione dell’esistenza
vissuta in prima persona, guidata da
scelte degne di questo nome, descritta
attraverso il filtro del personalissimo
grado di disperazione delle tre figure
femminili raccontate. In più ogni
bibliofilo sarà entusiasta di vedere un
romanzo come Mrs. Dalloway
diventare il trait d’union tra
mondi, persone, tempi e spazi diversi.
Sebbene le scelte, o perlomeno la loro
necessità, rimangono sempre le stesse.
Cosa significa essere donna e prima
ancora avere la dignità di un essere
umano in epoche diverse? Cosa comporta
scegliere altro da sé nonostante le
convenzioni sociali, le incertezze, il
desiderio disperante di farla finita con
una vita che non è altro se non un
pallido riflesso della via di fuga
scelta dalla propria mancanza di
speranza?
E che sia
l’accettazione della realtà nella sua
rasserenata e pacificata bellezza, la
risposta ad ogni singolo singulto di un
animo quasi spento da tanta incertezza?
A fronte di
così tante domande, The Hours
offre – giustamente – ben poche
risposte, sfuggendo nel suo diventare
esemplare quel lento fluire del tempo,
che consuma nella sua spaventosa
inesorabilità l’ambizione di sfuggire al
proprio male interiore. Un capolavoro di
rara bellezza e intensità.
La finestra di fronte {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Giovanna
Mezzogiorno – Raoul Bova – Massimo
Girotti
Sceneggiatura
Gianni Romoli & Ferzan Ozpetek
Regia
Ferzan Ozpetek
Anno di produzione
Italia 2003
Distribuzione
Mikado
Durata
110’
Volendo
proprio esasperare la metafora nascosta
o perlomeno ben mimetizzata nel film, la
finestra di fronte è un po' come il
cinema: ci riconosciamo, accorgendoci di
essa, soltanto quando vediamo il nostro
riflesso. Come capita alla protagonista
del film, Giovanna, che riconosce il
senso della propria vita, solo quando la
vede da un'altra prospettiva.
Ma non è
solo un'analisi dell'identità quella che
viene proposta da Ferzan Ozpetek alla
sua opera più matura e sicuramente
ambiziosa. Se si trattasse di calcio, di
quei collegamenti dagli stadi in cui
scopri i giornalisti sportivi coniare
orrendi neologismi e utilizzare frasi
fatte che brillano per la loro ovvietà
si potrebbe dire: "Muccino chiama e
Ozpetek risponde". In realtà, il regista
turco italiano affronta una vita
normale, di una coppia come tante,
mettendola alla prova di un evento
straordinario: un signore anziano
trovato per caso per la strada in preda
ad un'amnesia, che finisce a casa dei
due. Lui è una guardia notturna, lei una
ragazza vagamente più talentuosa che la
vita ha reso più anziana (almeno dentro)
dei suoi 29 anni. Contabile in una ditta
alimentare legata al pollame, Giovanna
vorrebbe qualcosa di più, ma si limita a
contemplare tale possibilità guardando
fuori dalla finestra della sua cucina.
Il resto è un ciclo continuo fatto di
panni, di bambini, di servizi
casalinghi, di spese, di lavoro, di
sesso ispirato più dalla routine che
dalla passione. Al centro di questo
gorgo c'è lei che incontra questo uomo
anziano, che si comporta stranamente.
Sempre per caso, finalmente, riesce a
conoscere il suo timido, ma affascinante
dirimpettaio che la aiuta a gestire in
una notte, l'insolita follia dello
smemorato.
In una serie
di giochi e citazioni cinematografiche,
in una Roma lontana dalla cartolina
nell'immagine che della città ha chi
come Ozpetek la abita e la ama senza
fregiarsi del titolo onorifico di
"romano", La finestra di fronte è una
celebrazione non solo della memoria, ma
anche della sua dignità. L'uomo, che si
scopre avere a che fare con il 16
ottobre 1943, quando 2000 ebrei romani
furono deportati ai campi di
concentramento nazisti, rappresenta quel
passato che in molti tentano di
dimenticare o di ignorare e che eppure,
veemente, emerge dal silenzio e dallo
strombazzamento dei clacson per andare a
ricordarci la possibilità di un
mutamento, di un cambiamento fatale per
una società che non può mai davvero
abbassare la guardia, né tantomeno dirsi
"salva".
Ed esiste un
parallelo tra la tragedia del vecchio
smemorato, emblema di un'epoca
dimenticata, e la dignità dimenticata
della protagonista Giovanna. In un mondo
in cui vecchi e giovani non comunicano
più, in un'era che ha camuffato
l'egoismo dando esso il nome di
indipendenza, Giovanna e il vecchio
rappresentano due volti di due diversi
tipi di solitudini, quando la memoria,
come una ricetta preziosa, viene
sperperata o sepolta, in nome di una
fretta senza senso.
La finestra
di fronte, ben girato e ben diretto con
una straordinaria Giovanna Mezzogiorno
nel ruolo più difficile e misurato della
sua carriera, è un film che lanciando un
messaggio politico forte, punta a
portare la dimensione dello scontro con
la realtà sul piano esistenziale e non
certo ideologico. La voglia di cambiare,
la necessità di non accettare
acriticamente la realtà, il rifiuto
dell'indifferenza, della rassegnazione
sono tutti elementi che la pellicola
trasmette al pubblico insieme ad una
serie di disperate, nonché disperanti
storie di amori impossibili nel passato
e nel presente. Un messaggio dirompente
nell'Italia dell'indifferenza, della
sopravvivenza, della rassegnazione alle
cose che "non si possono cambiare mai".
Un messaggio politico personale per
ciascuno di noi, perché la vita si può
cambiare (la nostra e quella degli
altri) partendo dalle piccole cose.
Ozpetek e
Gianni Romoli, produttore e
co-sceneggiatore, costruiscono dunque
una narrazione complessa ed intrigante
perché sviluppata su piani diversi della
memoria personale e civile di una
generazione e di una persona incarnata,
corpo e anima, da Giovanna Mezzogiorno.
Una
pellicola sensuale nel senso in cui le
anime dei protagonisti vengono messe a
nudo tramite l'introspezione dinamica
delle debolezze e delle incertezze. Un
viaggio alla scoperta della propria
fragilità accompagnata in una danza, in
un ballo tra passato e presente, alla
riscoperta della propria voglia di
cambiare le cose.
Un antico
proverbio popolare dice che "i diavoli
si nascondono negli specchi". L'immagine
che rimanda come un riflesso la finestra
di fronte non è uno sguardo sulla
propria vanità, bensì un'apertura su
quello che gli estranei ci ripropongono
di noi stessi. Una sbirciata altrui su
quello che siamo diventati senza, forse,
che ce ne accorgessimo troppo, al di qua
del vetro e della tapparella dietro cui,
spesso, ci piace nasconderci. Nonostante
qualche sfilacciamento e qualche
intorcinatura di troppo, La finestra di
fronte è un grande film, perché ci
ripropone con forza la necessità di un
contatto con la parte più sincera di noi
stessi. Pur eccessivamente didascalico,
si può dire pienamente riuscito dal
punto di vista tecnico e narrativo,
perché ci pone senza barriere dinanzi
alla necessità di scelte responsabili
per vivere con pienezza una vita,
spesso, data troppo per scontata nei
suoi valori, nelle sue miserie e perfino
nelle sue fragili sicurezze.
Il ladro di orchidee (Adaptation)
{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Nicolas Cage
– Meryl Streep – Tilda Swinton – Chris
Cooper – Brian Cox
Sceneggiatura
Charlie & Donald Kaufman
Regia
Spike Jonze
Durata
115’
Il cinema ha
bisogno di film come questo, che portino
alle massime conseguenze una visione
talmente originale di una storia a tal
punto da restarne coinvolti in prima
persona. E’ così che incontriamo Charlie
Kaufman sul set di Essere John
Malkovich di cui è lo sceneggiatore.
Non il vero, ovviamente, ma il suo
doppio interpretato da Nicolas Cage che
– a sua volta – ha anche lui un doppio e
un antagonista in Donald, un altro
Nicolas Cage che interpreta il gemello
dello sceneggiatore. Tutto parte dalla
proposta ricevuta da Charlie di adattare
un libro della giornalista Susan Orlean
su un buffo ladro di orchidee in
Florida. Charlie viene colto dal blocco
dello scrittore, mentre pian piano cerca
di adattarsi alle proprie difficoltà. In
un flusso di coscienza sull’adattamento
e sulle lacerazioni di uno scrittore,
Charlie vede pian piano crescere l’astro
del fratello che delira su storie idiote
che a Hollywood, però , piacciono
tantissimo al punto da pagargli un sacco
di solde per le sceneggiature…
Un bel guaio
soprattutto, quando Charlie pensa che la
Orlean potrebbe avere avuto qualcosa in
più dal rapporto con il ladro…in tutto
questo tra adattamenti e fratelli finti
o veri che siano, Il ladro di
orchidee è un film intenso e
straordinario che avvolge lo spettatore
con la sua narrazione divertente ed
originale in un turbinio di situazioni
tra finzione cinematografica e realtà. A
chi gli chiedeva se Charlie Kaufman ha
veramente un fratello gemello di nome
Donald che firma la sceneggiatura (dato
che anche lui è candidato all’Oscar)
Nicolas Cage ha risposto che è evidente
che Charlie abbia realizzato il testo de
Il ladro di orchidee sotto
l’influenza di un’altra persona. Una
risposta sibillina, ma affascinante, che
dimostra come la vera arte e in
particolare il cinema nasca da una
menzogna talmente veritiera, da
apparirci più bella della realtà. Da non
perdere soprattutto per il seducente
parallelo tra l’adattamento di Charlie a
se stesso e la ricerca delle passioni di
tutti i protagonisti.
Solaris {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
George
Clooney – Natascha McElhone
Sceneggiatura e Regia Steven Soderbergh
Anno di produzione
USA 2002
Distribuzione
Twentieth Century Fox
Durata
90’
Dimenticando
per un momento l’anacronistico paragone
con il film di Andrei Tarkovski,
Solaris soffre di un unico grave
problema: Steven Soderbergh non è un
grande amante di fantascienza. E si
vede. In appena un’ora e mezza di
storia, descrive lo strano rapporto
creatosi tra uno scienziato vedovo da
poco, inviato a investigare e
possibilmente recuperare una missione
spaziale scomparsa nell’orbita di un
pianeta di nome Solaris. Nello spazio,
l’uomo ha un contatto (non solo di
natura spirituale…) con un misterioso
simulacro della donna amata. Che sia
lei? Che sia tutto un sogno? Che si
tratti del Paradiso? L’incontro nello
spazio è lentamente accompagnato dalla
colonna sonora di Cliff Martinez e uno
spettacolare impianto visivo catturano –
almeno per un po’ – lo spettatore con
un’ambientazione in un futuro che
potrebbe ricordare quello di
Fahrenheit 451 di
François Truffaut. Quello
che non funziona, però, rendendo il film
un po’ lento e non particolarmente
avvincente (guai ad usare la parola
noioso visto che Clooney ha quasi
picchiato un giornalista turco a Berlino
che aveva usato tale aggettivo) è il
fatto che Natascha McElhone, pur essendo
molto bella, non affascina lo
spettatore, anche per colpa di una certa
algida impenetrabilità al limite della
mancanza di espressività. D’altro canto,
poi, Soderbergh non sembra tenere conto
di tante nozioni elementari di filosofia
etica presenti anche nel più ramicio
episodio di Star Trek. Il pianeta che ha
il potere di ricreare i pensieri (e nel
finale tale nozione sarà sbilanciata in
favore di qualcosa di molto deludente
che fornisce una spiegazione di natura
mistico teologica) apparentemente li
materializza in cloni delle persone
amate o desiderate. Così il dottor
Kelvin non incontra – si pensa – sua
moglie, ma un clone che ne acquista le
sembianze. Essendo una copia, però,
Soderbergh e i suoi protagonisti negano
al doppio la qualità di essere
senziente. Anche se non cerca di
eliminarlo e non è un pericolo, il
doppio va soppresso in quanto tale. Una
crudeltà insensata, anche perché ai
personaggi del film manca il desiderio
fondante la vera fantascienza. La
curiosità e la voglia di incontrare
altre razze. Insomma, una serie di
piccoli e grandi guazzabugli rischiarati
soltanto dalla bellezza di Clooney e
nella sua coraggiosa interpretazione di
un uomo addolorato. Peccato che la cappa
di scarsa attenzione verso i temi forti
della SFX lo rendano poco brillante e
perfino poco interessante.
Un boss sotto stress
(Analyze That!) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Robert De Niro –
Billy Crystal
Sceneggiatura
Peter Stainfeld, Peter Tolan, Harold
Ramis
Regia
Harold Ramis
Distribuzione
Warner Bros.
Durata
95’
Il seguito
di Terapia e pallottole, vede
riuniti Robert De Niro e Billy Crystal
in un film divertente all’altezza
dell’originale per quasi tre quarti
della sua durata. Dopo,quando il
percorso narrativo seguito diventa
quello classico del thriller
mafioso, il film ci perde in originalità
e divertimento. Quando qualcuno sta
tentando di uccidere Paul Vitti (De Niro)
che sta scontando la pena a Sing Sing
l’ex boss della mafia per sfuggire alla
vendetta di qualche misterioso rivale,
sembra essere impazzito iniziando a
cantare West Side Story. L’ex paziente,
così, è costretto a ricorrere
all’analista Ben Sobel (Billy Crystal)
per avere la libertà condizionata. Sobel
ha da poco perso suo padre con cui ha
sempre avvertito un senso di grande
rivalità. I guai sono in agguato in
questa brillante soprattutto quando
Crystal è costretto a portarsi De Niro a
casa per ordine dell’FBI. Gag e battute
a ripetizione, trasformano Un boss
sotto stress in un seguito brillante
anche per la sua vena ironica nel
prendere in giro la serie Tv The
Sopranos dove – al posto di James
Gandolfini – troviamo un simpaticissimo
Anthony Lapaglia. Poi quando tutto si
rivolge ad un’anonima riedizione dei
cliches dei film sulla mafia,
l’originalità del rapporto tra i due e
il tono complessivo della narrazione
tendono a diradarsi. Straordinaria,
comunque, l’alchimia comica ed artistica
tra i due e esilaranti gli errori sul
set.
Secretary {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
James Spader
– Maggie Gyllenhall Sceneggiatura e
Regia Steven Shainberg
Anno di produzione
USA 2002
Distribuzione
Eagle Pictures
Durata
105’
Un rapporto
feticista, un amore sadomasochista, una
dominazione lenta ed elegante, una
passione tenera ed insostituibile, la
libertà conquistata a passi brevi, la
dispersione del proprio dolore interiore
grazie alla sua canalizzazione. Sono
questi i temi di Secretary
pellicola di grande successo al Sundance
Festival, ma soprattutto analisi –
attraverso un rapporto di lavoro – della
terapia di due persone che – trovatesi
per caso – esprimono le loro pulsioni
più recondite in maniera originale.
E’ tramite
la risposta ad un annuncio pubblicitario
che una ragazza sofferente di manie
autolesioniste, diventa la segretaria di
un misterioso avvocato. Il rapporto tra
i due cresce di livello ed intensità
sfuggendo ad una presunta normalità e ad
una resa canonica degli schemi del
rapporto di coppia. Pieno di humour,
fortemente sensuale, disperatamente
romantico, sebbene di un romanticismo
particolare e difficilmente esportabile,
Secretary è un’analisi originale
di una strana cura messa in piedi
spontaneamente tra due persone molto
diverse tra loro. Un film divertente e
geniale che spiegando la cosiddetta
perversione attraverso il suo paradosso,
mette in luce le qualità straordinarie
non solo dei due attori protagonisti di
cui non si potrà mai dire abbastanza
bene, ma anche del talento del regista e
sceneggiatore Steven Shainberg nel
mostrare un altro tipo d’amore senza mai
superare i confini del cattivo gusto o
dello scontato. Un film, fino alla fine,
imprevedibile e coinvolgente, con il suo
tono anni Settanta e il suo appassionato
gioco di seduzione.
Hypercube – Il cubo 2{Sostituisci con chiocciola}
Kari Matchett – Geraint
Wyn Davies
Sceneggiatura Sean Hood Regia Andrzey
Sekula
Anno di produzione
USA 2002
Distribuzione
Eagle Pictures
Durata
95’
“Non è
sempre Natale” dice un vecchio brocardo,
utilizzato quando si vuole sottolineare
come la fortuna possa vedere cambiare
anche il vento. Nel caso del seguito del
fortunato e – perché no – anche riuscito
Cube si può dire “Non è sempre
Natali (Vincenzo)” autore della
pellicola che – dopo essersi fatto
lautamente pagare i diritti – ha
lasciato l’idea in mano ad un altro
gruppo di lavoro e di produzione,
dedicandosi piuttosto a dirigere altri
film dopo una serie di esperienze negli
episodi della serie Earth Final
Conflict creata da un’idea di Gene
Roddenberry. Portando avanti il tema del
predecessore e rendendolo più semplice
anche se spettacolare, Hypercube
soffre soprattutto di una grande
disattenzione al realismo che aveva
fondato il film precedente e in un
meccanismo di mescolamento l’idea alla
base di Cube con la regola del
sospetto propria di pellicole come
Stalag 17. L’introduzione dell’idea
che esista una quarta dimensione
variabile che può essere ricostruita in
laboratorio, per quanto seducente è mal
applicata e soprattutto mai davvero
spiegata. Insomma, un disperato
tentativo di ripristinare qualcosa del
passato, senza, però, purtroppo alcuna
fortuna o talento.
Il Signore degli Anelli – Le due
torri (Lord of the Rings – The Two
Towers) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Elijah Wood
– Ian McKellen – Viggo Mortensen - Liv
Tyler – Cate Blanchett – John Astin –
Orlando Bloom – Miranda Otto – David
Wenham
Sceneggiatura
Frances Walsh Regia Peter Jackson
Anno di produzione
USA – UK – NZ 2002
Distribuzione
MEDUSA
Durata
180’
Storditi dal
valzer degli incassi, dalle trombe dei
miliardi e dalle possibili
nominations agli Oscar e dalle meno
probabili (purtroppo) vittorie di
statuette nella serata più attesa
dell’anno dal punto di vista
cinematografico, c’è il rischio di
perdere di vista il film in quanto tale
che – sicuramente – oltre ad essere un
capolavoro del genere fantasy è anche e
soprattutto una delle più fedeli
trasposizioni di un romanzo mai viste al
cinema. Ma la fedeltà non significa
necessariamente una messa in scena
pedissequa (Benigni dove sei?). Quella
di Peter Jackson resta comunque
un’interpretazione molto originale, in
grado di imporre una visione emozionante
e spettacolare delle gesta di Frodo e
dei suoi ex compagni, divisi dopo i
fatti de La compagnia dell’anello.
Seguendo tre filoni narrativi
diversi (Frodo e Sam alle prese con il
goblin Gollum e con Faramir, fratello
del defunto Boromir, Aragorn e gli altri
che aiutano Gandalf a liberare Rohan da
un incantesimo di Saruman, i due
restanti Hobbits rapiti prima dagli
scherani del mago corrotto e poi dagli
alberi di una foresta incantata) Peter
Jackson costruisce una storia
emotivamente molto forte e
sorprendentemente grandiosa con
battaglie epiche e momenti di pura magia
cinematografica. Un’analisi a parte
merita il personaggio di Gollum che –
interamente realizzato in digitale –
porta alle sue massime conseguenze il
cinema degli effetti speciali. Al di là
delle sue movenze, infatti, quello che
sorprende di più di questo essere è il
“peso” con cui si percepisce la sua
presenza sullo schermo. Fisico, perché
nel suo sbattere contro le pietre si ha
l’idea di come questo si scontri davvero
con le rocce che circondano lui e i due
hobbits; Morale, perché – complice anche
la straordinaria interpretazione di Andy
Serkis in versione originale –
l’espressività di Gollum è davvero
notevole. Per la serie: quando la
tecnologia si mette al servizio della
narrazione e non è fine a se stessa in
maniera sterile.
Fa piacere
notare, poi, come anche il finale sia
meno frutto di un colpo di accetta come
nel caso del primo film e come, sebbene
l’azione sia più complicata, Jackson
riesca a coniugare elegantemente una
narrazione emotivamente convincente ad
un livello spettacolare più elevato e
significativo. Va detto, però, che
nonostante la sua riuscita Le due
torri sarà apprezzato al massimo –
come era anche nel caso del primo
capitolo della trilogia – quando avremo
visto anche Il ritorno del Re.
Magari in una visione lunga nove ore…un
tempo significativo, ma certamente anche
tra i più emozionanti della nostra vita
non solo cinematografica.
Star Trek – La Nemesi (Star
Trek Nemesis) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Patrick
Stewart, Jonathan Frakes, Brent Spiner,
LeVar Burton, Michael Dorn, Gates
McFadden, Marina Sirtis, Tom Hardy, Ron
Perlman
Soggetto
John Logan & Rick Berman & Brent Spiner
Sceneggiatura
John Logan Regia Stuart Baird
Anno di produzione
USA 2002
Distribuzione
UIP
Durata
116’
Quattro
anni dopo il deludente
L’insurrezione, torna l’equipaggio
dell’Enterprise E in un film
emozionante, carico di colpi di scena
che non si possono comunicare per non
togliere il piacere della visione e che
modificano sensibilmente il futuro
dell’universo trekkiano. Scritto da John
Logan, autore de Il gladiatore e
del prossimo L’ultimo samurai con
Tom Cruise, La Nemesi uscirà in
Italia, purtroppo, solo il prossimo 30
maggio. Un peccato, perché sarebbe
plausibile attendersi un risultato
interessante anche al botteghino vista e
considerata l’alta qualità della
pellicola anche per i non trekkers.
L’apporto di una regia “indipendente”
dall’universo della produzione ha fatto
sì che emergano alcuni elementi nuovi
della personalità dei protagonisti. In
particolare di Jean Luc Picard, il
capitano dell’Enterprise che oltre a
guidare un mezzo speciale in un
inseguimento che non avrebbe stonato in
un film di James Bond, deve confrontarsi
con la propria nemesi, ovvero un clone
realizzato dai Romulani. Shinzon,
interpretato da un convincente Tom Hardy,
è, infatti, un doppio “cattivo” di
Picard che essendo stato cresciuto dai
remani, una razza dalle fattezze
vampiresce schiava dei Romulani oltre ad
odiare gli esseri che lo hanno messo in
vita e che non lo hanno mai sfruttato,
chiudendolo nelle miniere di Remus, è
deciso ad impadronirsi della
Federazione, di cui conosce gran parte
dei segreti.
Uno
scontro spettacolare e sanguinoso quello
tra Picard e il suo doppio, che arriva
esattamente dopo l’incontro dell’androide
Data con un modello gemello meno evoluto
costruito dallo stesso creatore, il
Dottor Soong. Quello che probabilmente è
l’ultimo film della saga con i
protagonisti di Next Generation, mostra
per la prima volta una scena esplicita
di sesso (tra Deanna Troi e il suo
novello sposo William Riker) segnando il
ritorno in grande stile di un’Enterprise
finalmente protagonista di una vera
grande battaglia anche dal punto di
vista visivo. Girato con un tono più
dark e basato su un asciutto senso del
dramma molto composto, Nemesis è
uno dei migliori film della serie e
certamente il più riuscito dopo Primo
Contatto. Un punto finale di arrivo
per un viaggio iniziato sedici anni fa
che ha visto accompagnare l’equipaggio
di Picard & Co. da milioni di spettatori
in tutto il mondo. Il viaggio di una
vita, che in Nemesis trova una
celebrazione straordinaria di valori
come lealtà, amicizia, saggezza e
dignità che hanno reso Star Trek The
Next Generation una serie
fantascientifica di culto.
007 La morte può
attendere (Die another day) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Pierce
Brosnan – Halle Berry – Rosamund Pike –
Toby Stephens
Sceneggiatura
Neal Purvis & Robert Wade
Regia
Lee Tamahori
Anno di produzione
UK – USA 2002
Distribuzione
Twentieth Century Fox
Durata
132’
La
morte può attendere è probabilmente
il miglior Bond di sempre e – senza
dubbio – il più riuscito della serie con
Pierce Brosnan nei panni dell’agente
segreto più famoso del mondo. Questo in
virtù della regia “guerrilla style”
di Lee Tamahori, che pur avendo a che
fare con il film del quarantennale, non
indugia più di tanto nella celebrazione,
apportando cambiamenti significativi
all’andamento narrativo, che rendono
Bond meno supereroe e più vulnerabile
agli occhi del pubblico. Ed è da notare
l’usuale lungimiranza degli
sceneggiatori che hanno ambientato la
nuova missione di James Bond nella zona
smilitarizzata tra la Corea del Nord e
quella del Sud. Poi – come al solito -
Da Hong Kong a Cuba, fino a Londra, Bond
fa il giro del mondo per smascherare un
traditore ed impedire una guerra di
proporzioni catastrofiche. Nel corso di
questa missione, 007 trova sulla sua
strada Jinx (il premio Halle Berry) e
Miranda Frost (Rosamund Pike), che
avranno un ruolo chiave in questa sua
nuova avventura. Sulle tracce di Gustav
Graves (Toby Stephens), miliardario
megalomane e letale, e del suo spietato
braccio destro Zao (Rick Yune), Bond
arriva fino in Islanda, nel covo del suo
nemico: un palazzo costruito interamente
di ghiaccio. Qui proverà sulla sua pelle
la potenza di una nuovissima arma di
alta tecnologia. Il confronto finale -
esplosivo quanto indimenticabile - avrà
luogo nuovamente in Corea, là dove tutto
è iniziato.
Una trama
originale, ma fedele nei toni e nei
contenuti allo stile che ha reso famoso
007 e che ha fatto durare la saga per
quasi mezzo secolo, con qualche
possibile digressione (a nostro giudizio
forse eccessiva) nel campo della
fantascienza con la macchina che diventa
invisibile grazie ad un sistema di
microtelecamere riflettenti, e una
riproposta del meccanismo narrativo di
scambio di volti tramite modificazione
genetica che ricorda molto quello –
altrettanto incredibile – di Face Off
di John Woo.
Per il
resto, il film è molto più godibile e
riuscito rispetto al passato per una
maggiore dose di humour e di
talento narrativo, che fa passare in
secondo piano elementi significativi
come il cameo di Madonna o la
presenza di molti gadgets che
abbiamo visto utilizzare dai cinque
attori diventati 007 nel corso degli
ultimi quaranta anni.
Da
notare, poi, lo sfruttamento una
maggiore carica erotica e
un’accentuazione della spettacolarità
degli inseguimenti e degli scontri corpo
a corpo, bilanciata, però, da
un’altrettanto significativa sobrietà
nel non tirarla troppo per le lunghe.
The Ring {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Naomi
Watts – Martin Henderson
Sceneggiatura
Ehren Kruger
Regia
Gore Verbinski
Anno di produzione
USA 2002
Distribuzione
UIP
Durata
110’
Visivamente coinvolgente, illuminato da
una fotografia tenue ed elegante
esattamente come quella che vediamo nei
nostri sogni più distanti ed eterei, The
Ring è un film cinematograficamente
ineccepibile, affossato da una
sceneggiatura mediocre, che facendo il
verso a tanto horror del passato, ha
paura a distaccarsene, scivolando nel
precipizio di una banalità omologante.
Remake di uno dei più grandi successi
della cinematografia giapponese, The
Ring è diretto da Gore Verbinski (The
Mexican, Un topolino sotto sfratto) da
una sceneggiatura di Ehren Kruger, noto
per avere realizzato le sceneggiature di
film come Arlington Road e Scream 3.
I
protagonisti di questo horror
postmoderno sono Naomi Watts (la bionda
mozzafiato di Mulholland Drive) e Martin
Henderson impegnati a confrontarsi con
quella che all’inizio sembrava
l’ennesima leggenda metropolitana: la
proiezione di un videotape che contiene
immagini da incubo, seguita da una
telefonata che annuncia la morte del
malcapitato spettatore sette giorni
esatti dopo la visione della cassetta.
La giornalista Rachel Keller (Naomi
Watts) nutre un notevole scetticismo nei
confronti di tutta la storia, finché
quattro adolescenti muoiono in
circostanze misteriose esattamente una
settimana dopo aver visionato la
cassetta. Rachel decide così di
soddisfare la propria curiosità e
trasformarsi in detective, riesce a
scovare il videotape e… lo guarda. A
questo punto deve fare affidamento
sull’aiuto dell’amico Noah (Martin
Henderson) per salvare la propria vita e
quella del figlio (David Dorfman).
Un film
per molti versi angosciante che brilla
grazie alla regia intrigante di Gore
Verbinski fino a sprofondare in un
finale gotico e ridondante.
Sanguinolento e – per molti versi –
ammirevole nella sua ambizione, questa
pellicola meritava una sceneggiatura più
sobria che non si lasciasse prendere la
mano né dal deja vu, nel dal timore di
non dovere strafare a tutti i costi.
8 mile {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Eminem
– Kim Basinger –Mekhi Pifer – Brittany
Murphy Sceneggiatura
Scott
Silver Regia
Curtis
Hanson Anno di produzione
USA
2002 Distribuzione
UIP
Durata
110’
La rabbia
del rap, la reazione della fantasia nei
confronti di una realtà deprimente
costituiscono il nodo di 8 mile
un film interessantissimo che segna il
ritorno alla regia di Curtis Hanson dopo
gli apprezzatissimi L.A. Confidential
e Wonder Boys. Tutt’altro che
una biografia del rapper Eminem, 8
Mile è un viaggio nella speranza di
fantastico che c’è in tutti noi, nella
forza di un ragazzo di tentare a tutti i
costi di cambiare la sua vita difficile.
Dopo avere provato per sei settimane,
Hanson ha guidato gli attori nel ghetto
di Detroit dove ha costruito la vicenda
di un ragazzo bianco ossessionato dalle
sfide (quasi dei certami poetici
improvvisati) con altri ragazzi neri.
Nella città dell’etichetta Motown che ha
prodotto il meglio della musica nera
degli ultimi cinquanta anni, nella terra
della disoccupazione per colpa della
crisi dell’industria dell’auto, il
personaggio di Eminem cerca di sfuggire
ad una realtà quotidiana di disperazione
ed emarginazione, lavorando in fabbrica.
Venticinque anni dopo la febbre del
Sabato Sera, il musical perfetto per
l’era di Bush: dove, però, la poesia e
l’arte che rendono liberi (qualsiasi
arte e qualsiasi poesia) sono sempre
dietro l’angolo a salvarci la vita.
Marco
Spagnoli
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