Pronti,
ciak: si fa psicanalisi
Con prendimi
l’anima Roberto Faenza racconta la
storia del triangolo
professional-sentimentale fra Jung,
Freud e la paziente Sabina Spielrein.
Una donna ebrea che dopo le angosce
dell’ospedale psichiatrico affronta
nazismo e stalinismo e diventa dirigente
di un asilo. “Fare del cinema che scopre
la verità – racconta il regista in
questa intervista - è una grandissima
fortuna”
Il
cinema è un’arma potentissima che nella
sua ricostruzione della memoria
collettiva può, perfino, raddrizzare dei
torti come nel caso di Prendimi l’anima,
il film che il regista Roberto Faenza ha
dedicato all’emblematica figura di
Sabina Spielrein. Una ragazza ebrea
curata da Jung, il cui nome è tornato
agli onori della cronaca molti anni fa
quando lo psicologo Aldo Carotenuto ha
scoperto il carteggio amoroso tra la donna,
Jung e Freud. Sabina, in seguito
diventata psicanalista lei stessa, era
una paziente dell’istituto di psicologia
“Burgholzli” di Ginevra, e solo in
seguito è diventata l’amante di Jung.
Dopo esser guarita Sabina si è laureata
in medicina con una specializzazione in
psichiatria e nel ’23 è tornata in
Russia - dove fonderà insieme a Vera
Schmidt una serie di avanzatissimi
asili, fatti chiudere dallo stalinismo e
che lei ha riaperto in maniera
clandestina. Vessata dal nazismo e dallo
stalinismo, la donna mostrò il suo
carattere indomito in molte occasioni.
Faenza che da circa ventidue anni voleva
realizzare questo film è riuscito a
ricostruire la vita della Spielrein,
grazie a un ex alunno di Sabina,
incontrato a Mosca che oggi ha 84 anni e
che ricordava molto di questa donna
straordinaria.
Quale
opinione si è fatta della vicenda di
Sabina Spielrein?
La sua è
stata una grande vittoria sulle
vicissitudini e le amarezze di un
secolo. E’ una storia edificante che
abbiamo conosciuto per caso comprando
dei documenti al mercato nero a Mosca in
cui abbiamo trovato i nomi di tutti i
bambini iscritti all’asilo che Sabina
dirigeva. Abbiamo incontrato così
Vladimir Schmidt, figlio della famosa
psicologa Vera. Questo anziano pian
piano ha iniziato a ricordare una
dottoressa che lo seguiva con grande
affetto e attenzione. Così abbiamo
potuto congiungere questa storia a
quella del carteggio amoroso tra Sabina
e Jung.
Tutt’altro
che edificante…
Sì, anche
basandosi su Sabina, Freud formulò ed
elaborò il concetto di istinto di morte,
quello che è più sconvolgente è il fatto
che nel carteggio Freud sembra
privilegiare l'idea di aiutare il
collega piuttosto che l'indifesa
paziente. Una vicenda che è al tempo
stesso complessa e appassionante in cui
si intrecciano una guarigione analitica,
un'avventura spirituale, l'esplosione di
un amore impossibile, la nascita di
alcune grandi idee del nostro secolo,
tutto all'interno di un triangolo i cui
vertici simmetrici sono costituiti da
Sigmund Freud, Carl Gustav Jung e Sabina
Spielrein; triangolo rimasto
completamente sconosciuto fino
all'avventurosa scoperta di un fascio di
documenti contenente, oltre al diario
segreto di Sabina, le lettere che per
più di dieci anni si scambiarono i tre
protagonisti.
E’ il
terzo film che lei dedica all’ebraismo
dopo L’amante perduto e Giona che visse
nella Balena…
E’ vero.
Mia madre è ebrea e – anche se non mi
ritengo personalmente molto coinvolto
dall’aspetto religioso – penso che
questo film sia la dimostrazione dei
miei legami più o meno inconsapevoli con
le mie radici.
Sabina
Spielrein avrebbe potuto non essere
ebrea?
No, non
credo, perché delle donne ebree aveva
tutti i tratti che la rendevano tanto
unica: le donne ebree hanno - al tempo
stesso – avuto più a che fare con la
concettualità e hanno saputo lottare più
degli uomini. Una ragazza ebrea messa in
un ospedale psichiatrico e che – poi –
deve tornare in Russia ad affrontare lo
stalinismo rappresenta l’emblema di
un’avventura umana e morale
affascinante. In più le donne ebree
hanno una cultura di formazione che le
fortifica e le rende capace di
rispondere a qualsiasi aggressione.
Cosa
ne fu di Sabina in seguito?
La
famiglia Spielrein si è estinta; Sabina
è stata uccisa dai nazisti in quanto
ebrea, e non c’è traccia dei suoi
discendenti
Come
era accaduto in Sostiene Pereira e ne
L’amante perduto lei utilizza l’alibi di
una “piccola” storia per raccontare un
intero secolo…
Non penso
che abbiamo chiuso i conti con il
Novecento. I secoli non hanno un inizio
ed una fine così rigida come i calendari
tendono a farci credere.
Cronologicamente è un secolo chiuso, ma
i conti sono ancora aperti. Il tema
della psicoanalisi e della cura è di
enorme importanza. In questa vicenda la
cura non è bastata a salvare Sabina. C’è
voluto l’amore che per quanto
contrastato ha saputo con la sua carica
essere più importante della terapia. La
storia di Sabina è la dimostrazione che
la passione può più della tecnica. Sono
fiero di avere fatto questo film che per
me rappresenta il coronamento di
un’avventura. Il cinema che consente di
scoprire le verità rappresenta una
grandissima fortuna. Prendimi l’anima
non è solo un film, è stata un’avventura
durata ventidue anni per fare uscire
fuori questa donna dalla coltre di
silenzio sotto cui era ingiustamente
finita.
m.s.
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