La vencinquesima ora
(The 25th hour) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Edward Norton – Rosario Dawson – Barry
Pepper – Philip Seymour Hoffman Sceneggiatura David
Benioff Regia Spike Lee Anno di produzione
USA 2002 Distribuzione Buena Vista Durata
135’
In un clima da "fine dei tempi" e in una
New York distrutta emotivamente dall’attacco alle Torri
gemelle, Spike Lee costruisce una storia drammatica ed
intensa su uno spacciatore di droga (Norton) incastrato da
qualcuno che gli è vicino (un amico? La sua fidanzata?)
costretto ad affrontare la sua ultima giornata di libertà
prima di sette anni di prigione. Un film doloroso ed
intenso in cui Spike Lee ha riversato uno stile visivo
straordinario e una piccola summa della
disperazione di un momento storico. Lo spacciatore, un ex
bravo ragazzo entrato nel mondo dello spaccio di droga per
comodità e pigrizia, affronta nel corso di 24 ore tutti
gli errori e le stupidità commesse durante la sua vita,
confrontandosi con le persone che ama: suo padre, i suoi
amici, la sua compagna.
Un misto di preoccupazione e di angoscia
accompagna l’uomo nelle sue ultime ore di libertà. Un
sentimento che viene comunicato allo spettatore attraverso
una profonda empatia. Ma nulla di più perché Norton resta
uno spacciatore di morte, e New York la città delle
illusioni infrante per ingenuità e crudeltà.
La venticinquesima ora è probabilmente
il film più importante e riuscito che Spike Lee abbia
realizzato negli ultimi anni. Una pellicola illuminata
dalla bravura di Norton e del resto del cast, nonché dalla
bellezza della Dawson, recentemente vista in Men in
Black 2.
Una storia importante sull’angoscia di
un’epoca di incertezza in cui drammaticamente si deve
iniziare a riflettere sui propri errori.
The Core {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Aaron Eckhart – Hilary Swank – DelRoy
Lindo – Stanley Tucci Sceneggiatura Cooper Layne &
John Rogers Regia Jon Amiel Anno di produzione
USA 2003 Distribuzione 01 Durata 135’
Pur essendo pieno di "falle" sotto il
profilo narrativo e interpretativo con personaggi sopra le
righe ed eccessivamente "stilizzati" (il bello,
l’intrepida astronauta, il professore cattivo, il
professore buono, nonché l’immancabile generale americano)
The Core è un film divertente e piacevole, più
vicino allo spirito dei film anni Sessanta che alla
fantascienza stile Deep Impact e Armageddon.
Diretto da Jon Amiel, già regista di
Entrapment, The Core ha i suoi momenti migliori nella
fase di preparazione della cosiddetta "terra-nave" per il
suo viaggio verso il nocciolo del nostro pianeta che –
dopo essersi fermato – sta mettendo a repentaglio la
sopravvivenza del genere umano.
Sebbene eccessivamente lungo e con troppi
finali a sorpresa, The Core è segnato da un ottimo
ritmo e – soprattutto – da un’ironia di fondo che mantiene
sempre alto il tono complessivo della narrazione. Anche se
i personaggi non offrono molto in più del cliché va
sottolineata la presenza carismatica di Aaron Eckhart (Possession)
nel ruolo dell’eroe bellone ed intelligente, nonché
l’assoluta inespressività di Hilary Swank (premio Oscar
per Boys don’t cry) che risulta particolarmente
imbarazzante nei momenti più drammatici della storia.
Grande ruolo hanno, invece, gli effetti
speciali come è prevedibile che sia: l’atterraggio di
fortuna dello Shuttle a Los Angeles, la distruzione di
Roma e San Francisco, le tempeste e il viaggio
sotterraneo, rendono comunque spettacolare e intrigante
sotto il profilo visivo una storia complessa dove la
scienza, ovviamente, va inevitabilmente a farsi benedire
in cambio della gloria cinematografica.
L’acchiappasogni (Dreamcatcher)
{Sostituisci con chiocciola}
Morgan Freeman – Damian Lewis – Thomas
Jane – Jason Lee Sceneggiatura William Goldman
Regia Lawrence Kasdan Anno di produzione USA
2003 Distribuzione Warner Bros. Durata 136’
L’acchiappasogni è un film irritante.
Nonostante i suoi sforzi, nonostante l’evidente alto
budget, nonostante degli attori – sulla carta – di
qualità, il risultato è uno strano miscuglio di generi e
situazioni che – dopo un inizio promettente – si sfascia
in un crescendo di "puzzette" da fare invidia al soggetto
de "Il ritorno del Petomane Nero". In fumo – è
proprio il caso di dirlo – se ne va tutta la tensione
possibile. Al centro della storia sono Jonesy, Henry, Pete
e Beaver. Vent'anni fa erano solo dei ragazzini di una
cittadina del Maine che avevano trovato il coraggio di
reagire alla crudeltà dell'infanzia. Avevano infatti
salvato un bambino di nome Duddits, aggiungendo
inaspettatamente un quinto amico al loro gruppo. Ma questo
atto eroico trasmise loro dei poteri soprannaturali,
vincolandoli a qualcosa che andava al di là della normale
amicizia. Ora i quattro sono diventati uomini, con vite
diverse e problemi diversi, ma ancora ossessionati dal
ricordo di quell'episodio, perché quei poteri sono più un
peso che un dono. Quando un incidente rischia di uccidere
uno di loro, all'inizio non si accorgono che sta tornando
a incombere quel mistero che è in qualche modo legato a
Duddits. Ma quando si incontrano per l'annuale visita al
capanno da caccia nelle foreste del nord, felici di stare
insieme, vengono colti di sorpresa dagli eventi. Prima
arriva uno sconosciuto, un cacciatore che si è perso,
inconsapevole del terribile contagio di cui è portatore.
Lo insegue infatti un blizzard, una tempesta maligna in
cui si muove qualcosa di molto più inquietante, una
mortale forza aliena che si impadronirà di qualcuno di
loro quattro e li costringerà a fare di nuovo appello ai
poteri che hanno dimenticato di possedere… e a
fronteggiare un orrore mai visto.
Un po’ Stand by me, un po’Alien, un po’
E.T. un po’ perfino Independence Day, L’acchiappasogni
è una volgarizzazione splatter di quello che potrebbe
essere un grande film di fantascienza. Perfino Morgan
Freeman, truccato con dei sopracciglioni ridicoli alla
Breznev, sembra recitare malissimo. Ma la colpa è
soprattutto del regista Lawrence Kasadan che – sebbene
autore della sceneggiatura de L’impero colpisce ancora
– da regista di film come French Kiss appare
assolutamente incapace di gestire gli attori e la loro
recitazione fatta di sfumature. In particolare i
protagonista Thomas Jane e Damian Lewis offrono
un’interpretazione talmente poco credibile, da risultare
disturbante e sgradevole.
L’ultimo volo dell’Osiris
(cortometraggio abbinato a Dreamcatcher)
{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Di Andy & Larry Wachovski Regia di Andy
Jones
Che cos’è una battaglia con le spade se
non una danza di seduzione, nonché una metafora sensuale
ed elegante della passione tra un uomo ed una donna? E’ la
risposta a questa domanda alquanto retorica che ispira le
prime scene de L’ultimo volo dell’Osiris primo dei
nove cortometraggi della serie Animatrix in uscita
in Dvd il prossimo 3 giugno, solo una decina di giorni
dopo l’arrivo di Matrix Reloaded nelle sale il 23
maggio. Scritto dai fratelli Wachovski, L’ultimo volo
dell’Osiris è un corto di 11 minuti, realizzato
attraverso una spettacolare fusione di animazione CG e
‘anime’ giapponese ad alto impatto visivo. Diretto da Andy
Jones che aveva già lavorato per Final Fantasy il
piccolo film descrive la disperata battaglia
dell’equipaggio dell’hovercraft Osiris quando - venuto a
contatto con una macchina che sta perforando il terreno
sopra Zion – decide di avvertire a tutti i costi gli
abitanti dell’ultimo avamposto. Mentre viene attaccata da
un esercito da sentinelle, nel mondo di Matrix, una
ribelle inizia la sua corsa contro il tempo per lanciare
un messaggio alla roccaforte degli ultimi esseri umani
sopravvissuti.
Visto sul grande schermo, L’ultimo volo
dell’Osiris segna in pieno la comprensione del perché
Matrix è un fenomeno che tutti amiamo: tra
battaglie e filosofia, la luminosa sensualità sospesa
delle immagini trova il suo doloroso contrasto nel
confronto con il mondo delle macchine. Un altro
spettacolare viaggio fantascientifico tra la luce e il
buio dell’esistenza. Da non perdere! Anche a costo di
vedere più volte Dreamcatcher…
Johnny English {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Rowan Atkinson – Natalie Imbruglia – John
Malkovich Sceneggiatura William Davis & Neal Purvis
Regia Peter Howitt Anno di produzione UK
2003 Distribuzione UIP Durata 100’
Diciamolo subito: Mr.Bean e la parodia non
c’entrano nulla. Atkinson – bondiano della prima ora – fa
il verso a 007, ma Johnny English è più vicino agli
agenti SMART e Edgar Briggs della tv a cavallo tra i
Sessanta e i Settanta, e – soprattutto – al Peter Sellers
de La pantera rosa che al cinema parodia di Leslie
Nielsen.
Questo si nota soprattutto dallo sforzo
registico di Peter Howitt (Sliding doors,
S.Y.N.A.P.S.E.) di trasformare la storia dell’ultimo
agente segreto rimasto in vita in Gran Bretagna in un vero
e proprio film d’azione. Una differenza fondamentale con
altri film del genere. In più va detto che Atkinson e
Malkovich sono bravissimi nei loro ruoli, soprattutto per
la grande qualità di non andare mai sopra le righe.
Prendendo di petto i loro personaggi, non scadono mai
nelle volgari assurdità all’Austin Powers e non
cercano ogni singolo alibi per fare ridere. Eppure ci
riescono perfettamente, facendo di Johnny English
una commedia, e non il prevedibile clone omaggio ad un
genere. In più va detto che la scelta della cantante
Natalie Imbruglia dona alla trama un carattere sexy e
riuscito.
Shaolin Soccer (
{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Stephen Chow – Vicki Zao Sceneggiatura
e Regia Stephen Chow Anno di produzione Cina
2001 Distribuzione Buena Vista Durata 87’
Cosa accade se il Kung Fu si mescola con
uno sport popolare come il calcio? Cosa può capitare se un
film di culto diventa oggetto nazional popolare?
Probabilmente qualcosa di molto vicino a Shaolin Soccer
scritta, diretta ed interpretata da Stephen Chow che
sembra la materializzazione di uno dei tanti cartoni
giapponesi ambientati nel mondo dello sport che venivano
trasmessi nei primi anni Ottanta dalle televisioni
commerciali. Tra effetti speciali "alla Matrix", con
un’ironia ed un umorismo di fondo da "cartone animato" per
il suo essere visionari e deliranti, Shaolin Soccer
è un film estremamente divertente anche se – personalmente
– non condividiamo le tante parolacce assenti nella
versione originale. Certo, il risultato di fare doppiare
la pellicola a tanti calciatori famosi della Lazio e della
Roma (il ricavato di tale operazione andrà in
beneficenza…) è interessante, perché riesce a ibridare –
seppure talora anche a svilire – determinate situazioni
non sempre brillanti o perfettamente in sintonia con il
gusto occidentale.
Il resto è basato sul medesimo canovaccio
dei "Sette contro Tebe" o – restando nella mitologia di
stampo cinematografico – dei "Sette Samurai" o – ancora –
de "I magnifici Sette". O – addirittura – de I Blues
Brothers. Se nel film di John Landis era la "banda" a
dovere essere ricostruita, questa volta, invece, si tratta
della squadra di calcio che dovrà vincere la Supercoppa di
Cina. Tra effetti speciali divertentissimi e situazioni
paradossali, Shaolin Soccer è un film originale e
spensierato.
La città incantata (Spirited
Away) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Film d’animazione – Sceneggiatura e
Regia Hayao Myazaki Anno di produzione Giappone
2002 Distribuzione Mikado Durata 120’
La cosa che colpisce di più de La città
incantata film premio Oscar del maestro giapponese
Hayao Myazaki è la sua seducente capacità di proiettare lo
spettatore in un mondo incantato, mantenendo per due ore,
il tono narrativo sospeso tra fiaba e messaggio
ecologista, nonché spirituale. E’ così che la storia di
una bambina finita a "servizio" presso le terme degli
spiriti diventa l’occasione per l’incontro con un mondo
magico, ma – al tempo stesso – per offrire allo spettatore
occidentale un incontro "senza protezioni" con la mistica
nipponica. Non serve essere un amante del lavoro di
Myazaki per innamorarsi di questo film, così come – al
tempo stesso – non è nemmeno necessario ricordare la
fascinazione per l’animazione giapponese che i trentenni
di oggi, vivevano da bambini. La città incantata
rappresenta la possibilità di un sogno eterno di qualsiasi
bambino, sospeso al di qua e al di là del tempo, in un
confronto continuo tra narrazione e tradizione. La storia
è una fiaba tout court: Chihiro è una ragazzina di
dieci anni, capricciosa e testarda, convinta che l'intero
universo debba sottostare ai suoi capricci. Quando i suoi
genitori, Akio e Yugo, le dicono che devono cambiare casa,
la bambina va su tutte le furie e non fa nulla per
nascondere la sua rabbia. Abbandonando per sempre la
vecchia casa, Chihiro si aggrappa al ricordo dei suoi
amici e di un mazzo di fiori, ultime tracce della sua
vecchia vita. Arrivati in fondo ad una misteriosa strada
senza uscita, Chihiro ed i suoi genitori si trovano
davanti ad un immenso edificio rosso sulla cui facciata si
apre una galleria senza fine che somiglia ad una
gigantesca bocca. Con una certa riluttanza, Chihiro segue
i genitori nel tunnel. Il tunnel li conduce ad una città
fantasma, dove li aspetta un sontuoso banchetto. Akio e
Yugo si gettano famelici sul cibo e vengono trasformati in
maiali sotto gli occhi della figlia. Sono scivolati in un
mondo abitato da antiche divinità e esseri magici,
governato da una strega malvagia, l'arpia Yubaba. Yubaba
spiega a Chihiro che i nuovi arrivati vengono trasformati
in animali prima di essere uccisi e mangiati. Coloro che
riescono a sfuggire a questo tragico destino saranno
condannati all'annientamento, quando verrà dimostrato che
non servono a nulla. Da qui parte l’avventura della
bambina capricciosa che – come in qualsiasi romanzo di
formazione – viene educata ad una sensibilità nuova
attraverso il lavoro per gli spiriti. Tra personaggi buffi
e altri affascinanti nel loro essere patetici o
divertenti, La città incantata è una favola
anticonsumista dal forte tono animalista ed ecologista,
che colpisce per la sua miscela di saggezza popolare e
sogno infantile, forse, non originale dal punto di vista
narrativo, ma letteralmente nuova ed emozionante nella sua
proposta visiva al pubblico, con Myazaki che continua a
seguire – film dopo film - un percorso narrativo e
produttivo esaltante, al punto di diventare senza dubbio
in questo momento il punto di riferimento più alto
dell’animazione cinematografica mondiale.
Daredevil {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Ben Affleck – Jennifer Garner – Colin
Farrell – Michael Clarke Duncan Sceneggiatura e Regia
Mark Steven Johnson Anno di produzione USA 2003
Distribuzione 20th Century Fox Durata 103’
Più dark rispetto all’immediato
predecessore nel genere fumettistico Spiderman
(peraltro come nella natura del personaggio) il
Daredevil di Ben Affleck è figlio dell’immaginario
visivo della cosiddetta Mtv Generation e del cinema del
Kung Fu. Illuminato da una fotografia granulosa, il
giustiziere che di giorno fa l’avvocato dei poveri e di
notte indossa una tuta rossa aderente per vendicare
idealmente la morte del padre pugile è alle prese con la
ricerca della propria identità. Cieco a causa di un
incidente da adolescente, misteriosamente ha acquisito una
serie di superpoteri che ne hanno amplificato sia le
capacità sensoriali (ha sviluppato una sorta di radar
uditivo) che fisiche. Un po’ playboy, un po’ difensore dei
diritti civili il Daredevil di Ben Affleck è un
personaggio reso in maniera più leggera e minimalista
rispetto agli altri supereroi dello schermo. Opera
prevalentemente nel suo quartiere (Hell’s Kitchen a New
York) e – soprattutto – ha a che fare con nemici
decisamente "sopra le righe". A parte il Bullseye
interpretato in maniera da psicopatica macchietta da Colin
Farrell, Michael Clarke Duncan (il colossale attore nero
de Il Miglio Verde) ritrae Kingpin come un killer
che ricorda tanto il Joker di Batman. Un film divertente,
di profilo( e budget) più bassi rispetto a quanto sarebbe
lecito attendersi, con una strepitosa Jennifer Garner nei
panni di Electra, la figlia esperta di arti marziali di un
miliardario in affari letali con Kingpin.
Daredevil ha il grande merito di una
sceneggiatura piena di battute di grande humour
profondamente anni Ottanta, con un simpatico cameo
del papà di tutti i Supereroi Stan Lee (è l’uomo che viene
bloccato con il bastone ad un semaforo da Daredevil ancora
ragazzino) e una serie di personaggi piacevoli. A partire
da Jon Favreau che interpreta l’amico avvocato
dell’inespressivo Affleck fino ad arrivare a Joe
Pantoliano di Matrix che è il giornalista venuto a
conoscenza dell’identità di Daredevil. Talora impregnato
forse troppo della retorica da fumetti, Daredevil funziona
principalmente nella costruzione del personaggio e nel suo
sviluppo. In qualche momento è un po’ troppo lacunoso e
affrettato. Ma si tratta sostanzialmente di peccati
veniali per un film intrigante sebbene non esaltante.
Belli e vagamente poetici gli effetti che descrivono il
senso radar di Daredevil, mentre un po’ stancanti sono le
riprese notturne di New York.
La regola del sospetto
(The Recruit) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Colin Farrell – Al Pacino - Bridget
Moynahan Sceneggiatura Roger Towne & Kurt Wymmer
Regia Roger Donaldson Anno di produzione USA
2002 Distribuzione Buena Vista Durata 115’
Variazione spionistica sul tema del
Pigmalione alla ricerca di un pupillo, La regola del
sospetto descrive il coinvolgimento di una giovane
recluta della CIA in un gioco sporco più grande di lui.
Interpretato da Colin Farell, decisamente uno degli attori
più impegnati del momento, il film descrive in maniera
interessante il lavoro di un reclutatore di spie (Al
Pacino in piena forma) nell’addestrare i suoi ragazzi ad
ogni imprevisto e – soprattutto – a non fidarsi di
nessuno.
Intrigante nella descrizione del legame
sensuale tra due giovani apprendisti spie (ma non si
tratta di un Harry Potter degli agenti segreti…) La
regola del sospetto funziona per tre quarti fino
all’inevitabile sfilacciamento finale tipico del cinema di
Roger Donaldson. Il gioco di fregature reciproche che
conducono lo spettatore sul tenue filo del dubbio, diventa
palese quando si inizia a sospettare che qualcosa non
vada, non solo nell’andamento del film, ma soprattutto
nella sua sceneggiatura.
Si approda comunque alla fine della storia
in maniera piacevole soprattutto per la qualità delle
interpretazioni degli attori e per l’atmosfera della
pellicola. Un tono intrigante il cui merito è anche quello
di descrivere in maniera credibile gli azzardi tecnologici
del film con virus informatici e computer resi in maniera
plausibile e non fantascientifica.
Lo smoking (The tuxedo)
{Sostituisci con chiocciola}
Jackie Chan – Jennifer Love Hewitt
Sceneggiatura Phil hay & Matt Manfredi Regia
Kevin Donovan Distribuzione UIP Anno di
produzione USA 2002 Durata 95’
La filosofia di questo film è che sia
l’abito a fare il monaco. Nella fattispecie tutti possiamo
diventare un agente segreto come 007 se ci vestiamo con
uno smoking. Non uno qualsiasi, però, e non si tratta di
"fattura" o taglio dell’abito. Quando l’autista cinese di
un facoltoso miliardario un po’ James Bond, un po’ Arsenio
Lupin indossa lo smoking pieno di estensioni neurali che
controllano il corpo, ecco che anche lui diventa un agente
segreto perfetto come il suo datore di lavoro. A parte il
fatto che gli manca l’intelligenza per farlo che – per
colpa di uno scambio di persona – gli viene prestata
praticamente da un’agente segreto donna, interpretata da
Jannifer Love Hewitt. Lo Smoking è un filmetto
parodia innocuo del genere bondiano con qualche
coreografia divertente, ma per nulla interessante. Tenuto
su un tono postdemenziale, il film è basato su una
commedia degli equivoci piena di battute salaci sulle
tette (leggendarie a giudicare il fandom sulla Rete) della
Hewitt alle prese con un Jackie Chan a mezzo servizio.
Animato da uno humour al limite
dell’etereo, Lo Smoking non ha grandi idee come
film comico, né come film d’azione. Vederlo e dimenticarlo
è tutt’uno. A parte per il pubblico maschile che verrà
risollevato da qualche inquadratura femminea decisamente
patetica nel suo essere audace senza sentimento. Una regia
da "chiacchiera da bar" che pur senza mostrare davvero
nulla (e il film ovviamente non lo richiede) si ostina ad
essere salace, fotografando, però, la Hewitt in una
maniera che peraltro non le dona affatto. Se esiste uno
007 per tutte le generazioni, Jackie Chan è quello
perfetto per i dodicenni che cercano di rimorchiare…
Ubriaco d’amore (Punch
Drunk Love){Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Adam Sandler – Emily Watson – Philip
Seymour Hoffman Sceneggiatura e Regia Paul Thomas
Anderson Distribuzione Columbia Tristar Anno di
produzione USA 2002 Durata 95’
Divertente e romantico, l’ultimo film del
regista di Boogie Nights e Magnolia Paul
Thomas Anderson è una sorta di black comedy sul
potere dell’amore di curare le nostre nevrosi e fobie.
Interpretato da un ottimo Adam Sandler il film racconta la
storia di un uomo frustrato che – innamoratosi di una
ragazza conosciuta tramite una delle numerose sorelle –
incontra come ostacolo sul suo cammino un gruppo di
energumeni scatenatigli contro dal proprietario di una
chat line deciso a perseguitarlo per non avere ceduto ad
un ricatto.
Visionario ed elegante nel suo poetico
approccio alla vita, Ubriaco d’amore è un film sul
lato fragile di ciascuno di noi, reso più forte e
"invincibile" dall’amore o – in certi casi – dalla sua
speranza. Pur essendo figlio di un’ispirazione colta e
raffinata, Ubriaco d’amore è una farsa dai toni
sexy ed originali, sulla forza dell’amore e
sull’educazione sentimentale alla ricerca di se stesso.
Comico, ma anche in alcuni momenti amaro al limite del
thriller è inserito in un contesto urbano desolante in cui
l’amore sembra rappresentare l’unica via di fuga decente
dalla propria individualità smaccata. Vincitore del premio
della regia a Cannes, è un film più riuscito e maturo
rispetto alle opere precedenti di Paul Thomas Anderson che
si conferma uno degli autori di punta del nuovo cinema
americano.
X men 2 {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Hugh Jackman - Patrick Stewart – Ian
McKellen – Anna Paquin – Famke Janssen – Halle Berry –
Alan Cumming – Rebecca Romjin Stamos Sceneggiatura
Michael Dougherty & Dan Harris Regia Bryan Singer
Anno di produzione USA 2003 Distribuzione
Twentieth Century Fox Durata 120’
E’ uno dei rari casi in cui un sequel
è meglio dell’originale e – diciamolo subito – questo
capita sia dal punto di vista visivo che narrativo, con
una storia più intensa, centrata meglio sui personaggi al
punto di trasformare X men 2 in una pellicola
corale. Se Sam Raimi l’estate scorsa aveva alzato ancora
una volta il livello di aspettativa legato al cinema dei
supereroi gravando di aspettative sia Daredevil
(rivelatosi poi un episodio divertente, ma "minore") che
X men 2 che il prossimo Hulk in uscita in
Italia il 29 agosto, Bryan Singer ha raccolto la sfida con
determinazione facendo di X men un film
straordinario ed imprevedibile per la sua capacità di
gestire storie e sentimenti diversi con una cura e una
visione omogenee.
La storia inizia esattamente dove
l’avevamo lasciata nel film precedente: Wolverine è alla
ricerca delle sue radici in una zona remota e ghiacciata,
Magneto è ancora nella sua prigione speciale, il professor
Xavier segue con attenzione e pazienza gli sviluppi di
quello che sta accadendo nel mondo riguardo
l’atteggiamento nei confronti dei mutanti. X men 2,
però, ha un suo prologo quando quello che poi sapremo
essere un mutante di nome Nightcrawler attenta alla vita
del presidente degli USA obbligandolo a convocare un
fanatico militare per dare un giro di vita
all’atteggiamento di tolleranza nei confronti di questi
esseri dotati di poteri sovrumani. Mystique (Rebecca
Romjin Stamos) che ormai si è sostituita al Senatore Kelly,
ex leader del movimento anti mutanti, inizia ad indagare
su questo misterioso generale Stryker (il primo Hannibal
Lecter, Brian Cox) quando capisce che l’uomo ha in mente
un piano in grado uccidere ogni mutante sul pianeta,
grazie all’aiuto del Professor Xavier…
Brillante e – al tempo stesso – esplosivo
X men 2 introduce nuovi personaggi interessanti:
Deathstrike, una mutante al servizio di Stryker (Kelly Hu,
già protagonista de Il Re Scorpione e conosciuta in
Italia per il suo ruolo di Kaori in un famoso e irritante
spot pubblicitario), Nightcrawlet (Alan Cumming), Pyro
(Aaron Stanford) e dà più spazio al personaggio di Iceman
(Shawn Ashmore) e alla sua relazione tormentata con Rogue
(Anna Paquin).
Anche se Xavier e Magneto non sono più le
figure centrali della narrazione tutta rivolta a seguire
ogni personaggio con equilibrio, il film mantiene intatto
lo stile carismatico del capitolo uno, facendo attenzione
a non scadere nella banalità dell’idea di conflitto tra
Bene e Male e – soprattutto – nel mantenere intatto il
valore della metafora. La diversità, il razzismo,
l’omosessualità, lo strapotere dei militari, i servizi
deviati e perfino l’intolleranza famigliare nei confronti
di un outing a proposito dell’essere mutanti,
trasforma X men 2 in un film di intrattenimento
dalla capacità didascalica straordinaria, offrendo un
altro punto di vista riguardo il cosa significhi l’essere
umani.
Tutto questo con una dinamicità
spettacolare in grado di tenere incollato lo spettatore
per due ore sulla sedia, con effetti speciali curati e una
trama che potrebbe sempre diventare caotica e che, invece,
Singer mantiene intatta con una cura e una padronanza
davvero invidiabili.
In più X men 2 aggiunge una vena
erotica molto forte: la bellezza questa sì sovrannaturale
di Rebecca Romjin Stamos in grado di fare ignorare Halle
Berry e Famke Janssen, la tensione erotica tra Wolverine e
Jean Grey, la passione di Mistique per Wolverine (che – ma
questo dimostra trattarsi solo di fiction – la snobba…),
l’ardore adolescenziale di Rogue per Iceman. Insomma X
men 2 è una nuova pietra miliare del cinema dei
supereroi e del cinema fantastico più in generale.
Speriamo di stupirci ancora presto con il gigante verde
diretto da Ang Lee ed interpretato da Bruce Bana.