Sarà vero
impero?
C’era quello romano,
accettato perché il più forte ma anche
rispettato. Poi quello culturale Europeo,
che pensa che il Vecchio Continente sia
l’unico depositario della verità. Anche e
soprattutto nei confronti degli Usa, che
invece sono oggi l’Impero dei più ricchi (e
armati). Ma c’è anche chi dice che l’unica
“superpotenza” rimasta sia la
globalizzazione. Ne parlano due libri, di
Toni Negri e Jean François Revel. Che
abbiamo letto per voi
L’idea
di Impero è ritornata di moda. E’ un parola
facile da capire e che richiama in tutti,
pavlovianamente, l’Impero par excellence,
quello romano.
Con la caduta del muro di
Berlino del 9 di novembre ’89, la fine della
barbarie del socialismo reale (parafrasando
una nota rivista di Cornelius Castoriadis
intitolata “Socialisme ou barbarie”) lo
scenario politico internazionale si è
semplificato: in campo è rimasta una sola
Superpotenza, anzi l’Hyperpuissance per
usare un termine introdotto di recente
nell’agone politico da Hubert Vèdrine,
ministro degli esteri francese. E’ perciò
chiaro che l’accostamento fra le due
lontanissime epoche storiche sia apparso
facile ai più. Talmente semplice, da dare
vita all’attuale proliferazione di saggi,
più o meno validi, più o meno basati su
un’analisi scientifica della società e della
sua struttura economica e sovrastruttura
politica, per usare una terminologia
marxista oggi passata di moda.
A dare il là alle danze è
stato Antonio Negri. Il professore di
Dottrina dello Stato nella movimentata
facoltà di Scienze Politiche degli anni
settanta ha dato alle stampe il suo Empire,
scritto a quattro mani con Michael Hardt, e
da allora, specie dopo il suo ritorno in
Italia, non ha smesso per un secondo di
scrivere. Negli ultimi tempi Feltrinelli,
Manifestolibri, DeriveeApprodi e
Castelvecchio hanno persino incominciato a
ripubblicare i suoi libri maledetti, quelli
del rogo, che servirono, fra le altre cose,
al magistrato Calogero per imbastire le
accuse nello storico processo del 7 aprile.
Negri è un filosofo illuminato che guarda,
‘rara avis’, al marxismo come strumento di
analisi degli scenari futuri, più che come
rigida e imbalsamata ortodossia del passato.
L‘idea di Impero che emerge dal suo
massiccio testo è peraltro ben diversa da
quella che si possono immaginare quanti, mi
immagino tanti, non hanno fatto lo sforzo
intellettuale di leggere il libro, e magari
si attengono puramente all’enfatico titolo.
L’Impero di Toni Negri non sono gli Usa, ma
è il nuovo ordine della globalizzazione,
quel complesso potere sovrano che governa il
mondo di oggi, che ingloba tutti i settori
della vita sociale, politica, economica, in
una parola, che riecheggia un vecchio
concetto di Foucault, la complessa
produzione biopolitica.
“Né gli Usa né alcuno stato
nazionale”, dice con tono asseverativo
Negri, costituiscono il centro di un nuovo
progetto imperialista. D’altronde
l’imperialismo, e Negri lo spiega acutamente
in un parte storica appositamente dedicata
al tema, è qualcosa di superato, di ancorato
al vecchio colonialismo di inizio secolo.
L’Impero rappresenta già una fase
post-imperialista, che si estende
nell’intero pianeta, non conosce barriere,
né confini territoriali. Gli stessi vecchi
stati nazione vengono travolti e sono
totalmente inadeguati ad affrontare la
trasformazione in corso. Unica forza in
grado di riportare questo processo, che è
per Negri in sé positivo e in un certo senso
rappresenta il coronamento delle lotte
proletarie dei due secoli passati, su un
terreno più democratico, usando il concetto
in senso assoluto e radicale, cioè
spinoziano, è la Multitudo, la forza di
resistenza chiamata a costruire un nuovo
potere costituente (e qui Negri si riferisce
a un suo altro libro, particolarmente
interessante, di cui però non avrò modo di
parlare in questa sede ).
Al contrario di Negri, di cui
ho riassunto in modo indegno ben 430 pagine
di illuminanti analisi, altri autori che
gravitano nella galassia No-Global sono
soliti dipingere a tinte fosche gli Usa,
rappresentandoli come il Male Assoluto.
Comunque la si pensi non c‘è dubbio che il
ruolo che gli Usa hanno svolto sia andato
oltre il dovuto e che specie sotto questa
amministrazione l’unilateralismo abbia
ricevuto un forte impulso. Sia diventato in
un certo senso il nuovo ‘modus operandi’, la
Weltanschauung della politica made in Usa.
Anche in una pubblicazione non estremista
come ‘Limes’ l’idea della guerra infinita
per corrompere il mondo con il seme
democratico è vista con una certa
preoccupazione. Dopo Afghanistan e Iraq,
toccherà ad esempio anche agli altri stati
canaglia alzare bandiera bianca di fronte al
ciclone Bush, cioè a quello che lo stesso
Negri ha definito ‘il 18 brumaio di George
W.Bush’. L’Iran degli ayatollah eredi di
Khomeini, la Siria accusata di aiutare i
terroristi di Hezbollah, i diavoli del male
che superano persino Al Qaeda nella
classifica della malvagità. Bush sembra in
effetti un infante che spalanca gli occhi di
fronte al mondo così come faceva il
romagnolo Farini quando venne inviato da
Cavour nel 1860 a visitare il Sud Italia:
“Che barbari! Altro che Italia! Questa è
Africa: i beduini, a riscontro di questi
cafoni, sono fior di virtù civili”. E dopo
Iran, Siria, Corea, a chi toccherà?
In questo momento, dopo aver
superato con fatica, ma anche godimento, i
testi di Negri, sono alle prese con un libro
di tutt’altro indirizzo ideologico, che mi
ha effettivamente sorpreso. Mi sono
accostato a Jean François Revel infatti per
una ragione che solo a dirlo divento rosso:
qualcuno mi ha detto che la figlia del
filosofo francese è l’attuale compagna
proprio del pluricitato, e ormai settantenne
(che forza!) Toni Negri. La sorpresa è stata
scoprire un autore a dir poco di destra. Un
reazionario che nel suo agile pamphlet
“L’ossessione antiamericana” smonta tutti
i, a suo dire incomprensibili, miti che
attanagliano l’Europa e la rendono un
continente atavico, lontano dalla modernità
made in Usa. Se proprio di Impero si deve
parlare, fa capire Revel,
allora lo si deve fare riferendosi alla
cultura europea, in particolar modo
francesizzante, che crede di essere unica
depositaria della verità e che invece ha
come unico suo scopo la demonizzazione di
quella che ormai è ‘notre maire à tout’.
Insomma ‘guai ai vinti’ e all’infame di
volteriana memoria.
Resta da vedere che ruolo
giocherà l’Europa nel futuro del mondo.
Sempre più succube degli Usa o sempre più
alleata partecipe di una partnership
paritaria? Il dibattito è più acceso che mai
a proposito, e in Italia non è certo una
novità importata dalla globalizzazione. Se
ne possono rintracciare i prodromi almeno da
quel lontano gennaio del ’47 quando, di
ritorno da un illuminante viaggio in terra
americana, De Gasperi licenziò Togliatti
dall’esecutivo e aprì il lungo enigma tutto
italiano della gauche di governo.
La guerra all’Iraq ha messo
in evidenza come l’Ue sia in realtà
frammentata da mille diverse sensibilità e
che l’idea di una politica estera comune,
aspettando le decisioni di Giscard e
compagni, è ben lungi dal materializzarsi,
a meno che ci si accontenti di Javier
Solana nei panni di mister Pesc per tutta la
vita. Un fatto è però certo: mentre l’Impero
romano, con cui avevo iniziato questa
piccola dissertazione, aveva la sua
legittimazione derivante da sé stesso e
dagli avversari stessi che difficilmente ne
mettevano in dubbio l’autorità o ne
contestavano la leadership, oggi sono in
molti a non accettare di pari grado la nuova
Superpotenza e le sue regole politically
correct. E l’egemonia, è il piccolo e gobbo
Gramsci ad insegnarlo non il superganzo
G.W.B., si conquista innanzitutto da un
punto di vista culturale. La si ha cioè
quando ti viene riconosciuta e nella
sostanza accettata. Altrimenti gli Usa
dovranno accontentarsi per sempre di
pensarla come Giancarlo Pajetta, il politico
più antiamericano del panorama italiano:
“Finalmente ho capito cos’è il pluralismo:
il fatto che tutti la pensino come me”.
Giuliano Tardivo
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