Un modo di correre
Come si fa ad
identificare nello sport uno status di unicità quando, proprio
per questa caratteristica peculiare, non si hanno a disposizione
elementi adeguati?
E’ semplice:
si ricorre al nominativo stesso di chi è autore delle gesta o
racchiude in sé quelle caratteristiche incompatibili a qualsiasi
altro esempio le si voglia accostare.
Non c’è modo
più efficace.
Ecco da dove
scaturiscono la rovesciata ”alla Piola” e le punizioni “alla
Platini”, il salto “alla Fosbury” e il rovescio “alla Borg”, il
sorpasso “alla Villeneuve”, lo scatto “alla Merckx”.
Nessuno prima
di loro, aveva mai interpretato quel sublime momento atletico
con eguale periodicità, tanto da far sembrare un evento
eccezionale quasi una sorta di normale conseguenza del talento;
nessuno, se non loro, hanno mai costituito il simbolo di un modo
di intendere lo sport fatto di coraggio e capacità, doti
imprenscindibili per raggiungere quell’attimo fatidico di
successo, percorrendo strade completamente diverse da tutti gli
altri, tanto diverse da poterle identificare solo e soltanto con
il loro nome.
E’ veloce
ma..
“Mi dicono
che per essere veloce è veloce, ma il gas non lo tira giù mai…è
sempre in terra!”
Mi disse così
Paolo Pileri, Team Manager dell’omonima squadra che in 125 aveva
iniziato la stagione mondiale 1993 con due ottimi piloti: Noboru
Ueda e Fausto Gresini.
Il ragazzino
un po’ spaurito che si stava cambiando in un angolo di quel box
di Misano Adriatico, sede per l’occasione dei test di quasi
tutte le compagini più importanti nelle tre serie, probabilmente
pensava che si stesse parlando di uno dei due campioni del team
Marlboro Pileri.
Grandi occhi
blu, espressione furbetta, era stato accompagnato dal padre, ex
pilota delle 500, per un test in pista, finalmente con una vera
moto 125 da GP ed il buon Pileri si era offerto, di buon grado,
di fargli da padrino, mettendogli a disposizione un esemplare
della Honda vice-campione 1992.
Certo che in
quel paddock ce n’era abbastanza per farsi venire il “braccino”:
un “battesimo motoristico” davanti agli occhi dei vari Lawson,
Gardner, Rainey, Schwantz, Mamola, Cadalora, Reggiani, Chili e
compagnia, non è dei più facili.
Il piccolo
Valentino Rossi, 14 anni appena compiuti che non dimostra per
l’aspetto gracile, non è che con le 125 Sport Production abbia
finora fatto sfracelli: a circa metà stagione è indietro, anche
se in pista durante le gare spesso è davanti.
Il problema è
che cade con frequenza imbarazzante.
Molte volte
dopo numeri incredibili che gli fanno guadagnare un sacco di
posizioni non si accontenta, non molla mai la manetta, non cede
un metro…e va giù!
Anche durante
il test dimostra che correre così è senz’altro il risultato
delle combinazioni chimiche del suo DNA: i tempi sono ottimi, in
gara farebbe una buona quarta fila, ma che dritti, che
sbandatone, però anche, che traiettorie strane.
L’esperienza
di Paolo Pileri gli suggerisce che di così discontinui se ne son
visti tanti in pista, di così geniali in alcuni passaggi, pochi.
Il solito
dilemma: se diventerà un pilota normale e maturerà, la genialità
dovrà adattarsi alla razionalità; se invece non cambierà la sua
natura, servirà un talento enorme, perché altrimenti farà poca
strada.
Il pilota che
ho visto “sdraiarsi” a Rio è lo stesso ragazzino che scese dalla
moto quel giorno, quello che ha in sè la stessa identica
scintilla agonistica.
Quel lampo
negli occhi nel dire “peccato” alle telecamere, è lo stesso che
aveva quando si tolse il casco quella volta: un insieme di
“pensano che avrei potuto far meglio” e di “però anche stavolta
c’ho dato da bestia!”.
Valentino è
questo, non “uno che ci prova sempre” ma l’essenza stessa della
prima posizione come sola opzione, sia come sia; è la radice
stessa della vittoria che conclude una gara, anche quando sembra
irraggiungibile; è quell’unicità che non prevede altre
soluzioni.
Si è spesso
scritto negli anni passati di un Rossi che il primo anno impara
ed il secondo trionfa grazie ad una tattica più accorta: non
sono d’accordo.
In Vale
aumenta solo la sicurezza di ciò che può fare e per questo
riesce a farlo.
In realtà il
suo modo di correre non cambia di una virgola, soltanto che la
genialità di cui dispone diventa, nell’anno successivo,
preponderante grazie alla conoscenza del mezzo e di cosa lo
aspetta in pista.
Nel buddismo
Zen Soto, a differenza di altre scuole di pensiero parimenti
volte al raggiungimento del Satori, cioè dell’Illuminazione, si
persegue lo Stesso in quanto ricordo e non in quanto
raggiungimento di una condizione nuova: siamo già dei Buddha ma
non ricordiamo di esserlo, ci manca la consapevolezza.
E’ un po’
quello che succede a Valentino nelle gare: un’unica essenza, con
più o meno consapevolezza.
Dire che
avrebbe potuto accontentarsi di qualcosa meno della vittoria o
dire che, al contrario, il suo modo di correre l’ha portato
all’errore tentando la rimonta è come dare la descrizione di due
facce di una stessa medaglia che non gli appartiene, che prevede
una scelta.
Un
combattente è comunque colui che si getta nella pugna di sua
spontanea volontà, quindi per scelta razionale.
In realtà il
Valentino che si concentra con i suoi movimenti parossistici
poco prima del via, è direttamente collegato con quello che alza
il pugno al cielo appena tagliato il traguardo.
Nel mezzo,
una specie di potentissimo computer biologico prende il
sopravvento, un computer con un solo programma inserito, quello
della vittoria (sottoprogramma “analisi e acquisizione dati per
il raggiungimento della..”); nel frattempo il resto di Valentino
si diverte andando in moto.
Del resto il
motivo della scelta del numero 46 e del primo soprannome
“Rossifumi” sono già un’ottima indicazione.
Ora forse
racconterò una storia che pochi di voi forse conoscono per
quello che riguarda Valentino e sicuramente NON conoscono per
quello che riguarda me ed altre persone.
Nei primi
anni ’90 molti di noi erano affascinati da un pilota giapponese,
tale Osamu MIYAZAKI, che spesso gareggiava come wild card nelle
gare orientali del motomondiale della classe 250.
Miyazaki al
via si presentava con un solo obbiettivo: vincere.
In pista la
fortuna e il più delle volte anche il mezzo non lo assistevano,
ma la “trance” di Osamu lo portava ogni volta tra i primissimi e
altrettante volte un dritto o peggio, una caduta, vanificavano
quanto aveva fatto; lo spettacolo che offriva era però sempre
entusiasmante.
Il numero di
Osamu Miyazaki per molte gare è stato il 46.
Vale fu preso
anche lui dal fascino di questo incredibile pilota, tanto da
apprezzare moltissimo questo modo di essere che sentiva
probabilmente simile alla sua natura: si affezionò al 46 che
scoprì essere anche il numero del padre in alcune gare e adottò
il soprannome di battaglia di Rossifumi, aggiungendo al suo
cognome una desinenza giapponese presente nel nome di Abe,
Norifumi.
Miyazaki
sceglieva di combattere, a differenza di Valentino, fino
all’ultimo sangue per poter vincere e proprio questo protendersi
al raggiungimento dello scopo lo portava a sbagliare, seppure
dopo “numeri” incredibili.
Valentino
invece non cerca nulla: va in automatico come quando guidate
l’auto e ascoltate la musica senza pensare a cosa fanno i vostri
piedi.
Una volta
partito, il programma “primo posto” entra in sequenza e Vale si
gode la gara, consapevole della sua forza.
Ma la storia
di Osamu Miyazaki non è finita………..
Un gruppo di
amici di Pesaro tra cui Lollo che diventerà il motorista di
Cecchinello ( ed è l’attuale di Locatelli), sono talmente
colpiti dalle gesta dell’indomito giapponese che nel 1992
fondano un “Miyazaki fanclub" sulla parola, una specie di
scherzo tra loro, di cui disegnano anche un adesivo da
appiccicare sui cupolini delle loro moto, una ventina di copie
diciamo (una è per me).
Dieci anni
dopo il Lollo ormai meccanico del motomondiale, si troverà
davanti il mitico Miyazaki ai paddock di Suzuka e durante una
pausa lo incontrerà mostrandogli uno degli adesivi conservati
dall'epoca e facendogli capire che in Italia c’era stato un
fanclub a suo nome, fondato sull’entusismo suscitato dalle sue
gesta eroiche e sfortunate.
Si commuove
alla notizia il vecchio campione e anche chi gli stà di fronte.
Qualcosa
scatta nel sentimento di autostima del pilota.
La
consapevolezza si fa strada, mentre dall’ottavo posto in griglia
affronta, con un’inedita quasi serafica indifferenza, la
partenza di quello che sa essere l'ultimo GP della sua vita
prima del ritiro definitivo, l'ultima occasione.
Un sorriso è
l’ultima cosa che fa prima di abbassare la visiera, sotto una
pioggia battente.
Il pilota
Osamu Miyazaki, partito ottavo, contro tutti i pronostici, vince
il GP di Suzuka classe 250 del 2002!
Il vero
“padre del 46” domina quella gara bagnata, rifilando al secondo
ben 6,9 sec. e ben 29sec. al terzo, battendo con un'andatura
impressionante gente del calibro di Melandri, De Puniet,
Locatelli, Battaini, Nieto, Rolfo.
Alla
premiazione, quella volta, tutti noi ragazzi del suo “fanclub”
anni 90, ci scoprimmo con qualche lacrima davanti alla TV…….
A volte è
andata bene altre meno ma Valentino, quello che si firma ancora
oggi “Rossifumi” negli autografi, è rimasto quello di sempre: un
talento motociclistico sovrumano, nel corpo di un ragazzo di
Tavullia.
Rio è un
episodio del tutto simile a quelli del Mugello, di Montmelò, di
Assen, solo di segno opposto, ma parte di un “insieme” che è il
suo marchio di fabbrica.
Nel 1996 un
ragazzino con una moto che veniva sverniciata regolarmente in
rettilineo, riprendeva tutte le decine di metri persi grazie
alle sue traiettorie “alternative” nelle curve e nel misto,
senza mollare mai.
Nel 1997
stessa cosa, solo che la moto era un po’ meglio.
In realtà
cade quell’anno all’esordio di Suzuka e con la stessa condotta
di gara vince subito dopo a Jerez, battendo tutti in bagarre
proprio alla fine, così come fa al Mugello, così come rivince a
Le Castellet e ad Assen e poi via via negli altri GP.
L’unico dove
lo ricordo accontentarsi, è proprio quello che gli consentirà di
vincere il primo mondiale, a Brno, dove controlla Ueda e Manako
e rimane nelle ultime curve al terzo posto.
Nell’intervista non è contentissimo dell’arrivo (nonostante lo
sia per il mondiale), come dire: “maledizione, chissà cosa mi è
preso!”.
Nel 1998
altro esordio con caduta: la moto va male ma lui gli dà gas di
brutto, fino al ritiro.
La gara
successiva in Malesia dimostra come nessun’altra quanto sia
dominato dalla sua essenza: secondo dietro Harada ci si prepara
a festeggiare.
Non si fanno
i conti però con ciò che prende vita in Valentino durante una
corsa: all’ultima curva, nell’estremo tentativo di vincere cade
ed è costretto al ritiro, a 500metri dalla fine, a 500metri dal
primo podio in 250 della sua vita, cade piuttosto che arrivare
dietro!
Potrei citare
il Mugello 2000 e ancora 2001, quando dopo una rimonta
incredibile all’ultimo giro, nonostante sia secondo anche
stavolta, spinge ancora e scivola su una striscia bianca; potrei
citare la volta successiva a Barcellona, dove con la stessa
condotta di gara recupera molte posizioni e vince, e Donington
sempre del 2001, dove alla fine del primo giro è 16° e dove
trionfa guidando come un forsennato.
Potremmo
arrivare ai Gp che ancora sono nella memoria dei più, quelli dei
10 secondi di penalità recuperati, quelli dei dritti sulla
sabbia e dei sorpassi prodigiosi, quello vinto con la Yamaha a
Welkom, dove ha sconfitto l’inferiorità della sua moto ancor più
dell’avversario.
Difficile
trovare una gara dove lo si sia visto in veste dimessa o
rinunciataria; difficile ricordare un Valentino appena diverso
dal solito in pista.
Perché anche
in competizioni come quella di Le Mans di quest’anno, a
riguardare bene i filmati, si può essere certi che il suo
“computer biologico” ha marciato al massimo consentito, senza
fare sconti.
Valentino
Rossi non è uno che “ha un modo di correre”, lui è “UN MODO DI
CORRERE”.
Cadute o
vittorie, in fondo, sono solo due aspetti della stesso genio .
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