In una lettera Pietro Maso racconta il suo pentimento
e il suo percorso di "redenzione"
«Un frate che balla coi lupi come
me mi sta insegnando la via del riscatto»
Il minore francescano veronese Beppe Prioli, che ha avvicinato
il giovane di Montecchia di Crosara in carcere, ha "recuperato"
altri «mostri» autori di delitti efferati. Come Alfredo
Bonazzi, l'omicida di "viale Zara" e Marco Moschini,
uno dei «killer del cavalcavia»
La redenzione di Pietro Maso: nemmeno
la fantasia di Dovstojieskj l'avrebbe pensata così. A 20
anni, una sera di mezzo aprile del 1991 Maso con altri tre amici
(Giorgio Carbognin, Paolo Cavazza e l'allora minorenne D.B.) è
nel buio della cucina di casa sua ad aspettare che i genitori
salgano le scale e entrino dalla porta, stringendo nelle mani
sudate bastoni, padelle e un tubo innocenti. Quando si accende
la luce, in quella villetta a Montecchia di Crosara, è
il segnale che dà il via al massacro. Una mattanza che
dura 53 minuti. Pietro e i suoi amici pensavano che ammazzare
fosse facile, come nei film. Che bastasse un colpo e fosse tutto
finito. Che il giorno dopo fosse facile, come preventivato: andare
in banca e chiudere il conto corrente dei genitori prelevando
tutto il denaro disponibile per far la bella vita. A base di
auto nuove di palla e serate in discoteca. Il film è andato
diversamente. Come tutti sanno è finito con il carcere
e la condanna a 30 anni confermati fino all'ultimo grado di giudizio.
Ma quelle terribili sequenze da allora affollano la mente di
Pietro Maso. Spezzoni di memoria che affiorano ed, evidentemente,
lacerano la coscienza. Segnando un "cammino di ripensamento"
che da un lato suscita le attenzioni di giornali e settimanali,
d'altro canto apre spiragli all'azione dei difensori (Maso potrebbe
anche uscire dal carcere di Opera, a Milano, dove attualmente
si trova per essere affidato a qualche comunità di recupero
e godere del regime di semilibertà). Non mancano comunque
reazioni che viaggiano tra lo stupore, l'incredibilità
e la perplessità sul pentimento e la conversione. Chi non
si stupisce più di nulla è invece Beppe Prioli,
53 anni, minore francescano veronese, per il quale Pietro Maso
è uno dei tanti «fratelli lupo», uno dei «mostri»
avvicinati in carcere. E le sue mani, lavate dal sangue, ora
si muovono sui tasti del computer dove mette a frutto le lezioni
di informatica e di contabilità aziendale; le dita che
hanno stretto il bastone della «mattanza» ora muovono
pennelli e stringono i tubetti dei colori ad olio, oppure impugnando
la penna con la quale Maso scrive poesie, pubblicate in questi
giorni anche dal settimanale dei paolini «Famiglia Cristiana»,
in cui il giovane di Montecchia di Crosara che uccise i genitori
invoca ora li perdono. Anche Nautilus pubblica parti inedite
di una lettera inviataci da Pietro Maso, un documento che testimonia
la sua «volontà di riparare, almeno in parte il male
fatto». Una traccia, accompagnata dalla testimonianza di
fra' Beppe Prioli, il quale parla di un «lungo, difficile
percorso di redenzione». Dove, tra le pieghe della coscienza
emergono allucinanti particolari prima rimossi. Dove la ricerca
di spiegazioni s'incaglia negli angoli bui del cervello.
Nella «casistica» delle "redenzioni" di fra'
Prioli altri personaggi protagonisti della cronaca nera. Come
Alfredo Bonazzi, 67 anni, l'omicida di «viale Zara»
che nel 1960 uccise, durante una rapina a Milano, un tabaccaio.
Bonazzi, che oggi vive a Bassano del Grappa e spende il suo tempo
scrivendo poesie e prestandosi come volontario, fu graziato nel
1973 dall'allora presidente della Repubblica Giovanni Leone.
A presentare la domanda di grazia, per meriti letterari, fu Sandro
Pertini.
Anche Pietro Cavallero, pluriomicida negli anni '60, capo di una
banda che terrorizzò Milano, attualmente volontario, a
Torino, in una comunità per il recupero dei tossicodipendenti
tra i «mostri» avvicinati dal francescano.
«Non chiamateli così». Beppe Prioli, il cui lavoro
nelle carceri crea persino tra i suoi frati imbarazzanti domande
e più di qualche angoscia, usa le stesse parole anche con
i familiari delle vittime. Lo ha detto persino a Davide Perbellin,
fidanzato di Monica Zanotti uccisa a 25 anni da un masso lanciato,
per «passatempo» da tre ragazzi, dal cavalcavia dell'autostrada
del Brennero. Quando, nel dicembre del '93, prendono Marco Moschini,
Davide Lugoboni e Riccardo Garbini, i «killer del cavalcavia»,
hanno appena 21 anni. La notizia del loro arresto suscita voglia
di linciaggio. Al processo Moschini sarà condannato a
23 anni di carcere, gli altri due a 22 anni. Una sentenza che
non accoglie attenuanti.
L'unico a sostenere che la via del riscatto può nascere
anche dal più efferato delitto e dal più dannato
degli uomini resta quel frate dai riccioli bianchi che, quando
non va a far visite dietro le sbarre, anima una comunità
di tossicodipendenti. Lui, coi «lupi del carcere» che
fuori hanno azzanato e ucciso, ci balla da più di trent'anni.
M.C.
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