ALLANIMA...
Il
nuovo spettacolo di Fazio non esce da se stesso e tende
ad autoreferenziarsi ed il povero Brosio fa spettacolo
più per le sue disavventure e per le prove estreme a cui
è sottoposto che per quello che riesce ad esprimere.
C'è qualcosa di inquietante in
"Anima mia", spettacolo condotto da Fabio Fazio
e Claudio Baglioni al venerdì su RAIDUE e lanciato con
gran battage giornalistico e pubblicitario come rara
forma di "varietà intelligente". Ma non è il
famoso problema del cretese bugiardo (è intelligente chi
ha bisogno di definirsi tale?) né il bieco sfruttamento
della nostalgia a fini televisivi che ormai accomuna
trasversalmente parecchie creature del palinsesto (e non
sono nostalgici in fondo anche quanti ancor oggi seguono
Baudo o Mike Bongiorno?). E neppure il fatto che Fazio e
suoi autori (non so se questo termine gli offenderà)
ricordino degli anni '70 solo gli aspetti e i personaggi
più patetico-burini (eppure c'erano anche Rino Gaetano,
il punk, Demetrio Stratos - tanto per dire i primi che mi
vengono in mente).
No, l'aspetto più inquietante è l'assoluta
claustrofobia - per dirla in termini più aulici, la
totale autoreferenzialità che emana dallo spettacolo.
L'ideologia dello spettacolo di Fazio discende certo da
quello dei vari Costanzi, per cui si può trasformare
qualunque nullità in un fenomeno da baraccone, ma
l'applicazione che se ne fa tra "Quelli che il
calcio..." e "Anima mia" (che poi, diciamo
la verità, a volerla far breve non è che una
"Quelli che il calcio..." con più ospiti e
più caos e senza nemmeno il calcio a confortare gli
spettatori) è ancor più agghiacciante. Se infatti i
suoi maestri pescano ancora dalla 'realtà' per
acchiappare i loro pezzi da esposizione, Fazio e i suoi
lesti autori li pescano direttamente dal mondo dello
spettacolo e preferibilmente dallo spettacolo televisivo.
Il resto è tutto un circolo vizioso di ammiccamenti e
risolini: "Guarda, Baglioni che canta Heidi"
"Ma va, chi avrebbe mai detto che quello che cantava
con Pippo Franco era lo stesso che poi..." Così si
scopre che Emilio Fede, all'epoca direttore del TG1,
aveva interrotto le premiazioni di Sanremo, che la Raffai
prima di dar la caccia ai dispersi faceva la press agent
di Baglioni e che tizio era il figlio di caio quello
della pubblicità della carta igienica. In questo
tourbillon sfiancante di ospiti e ospitati, l'unica
certezza che resta alla fine allo spettatore è che lo
spettacolo in Italia - in modo del tutto simile alla
politica - sia governato da una casta eterna e
autoriproducentesi. Per accedere alla quale il parvenu di
turno (ultimamente è Brosio la cavia favorita del
giovane Fazio) deve superare immani prove di resistenza
fisica mentre la mamma lo osserva in apprensione e i
nobili veri o presunti (Emanuele di Savoia, spalla fissa
di Idris in uno dei migliori esempi di goliardia buonista
dell'ultimo secolo) lo sfottono divertiti. Hai voglia
spacciarla per televisione alternativa, questo è puro
effetto Vermicino: si mette un disgraziato in un buco e
poi si sta a vedere come se la cava, come Castagna quando
imbroglia i suoi innamorati per vederli piangere. Solo
che né a lui né ad altri passa per la mente di
definirsi intelligenti. Una certezza ho detto, resta allo
spettatore, ma anche un sospetto. Che per dire "sei
un mito" a chiunque sia inquadrato dalla telecamera
bastassero gli 883. Oppure Gianni Minà, tanto - ne sono
certo- a guardar bene anche negli anni '70 c'era un po'
dei favolosi anni '60.
Ambrose Trotter
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