Index LETTURE&SCRITTURE a cura di Giulio Mozzi - Marzo 1997


Corso di scrittura a puntate (6)
a grande richiesta: si parla di poesia

Le precedenti puntate del corso di scrittura narrativa hanno trattati questi argomenti: l’incipit (Nautilus, agosto 1996); la voce narrativa (Nautilus, settembre 1996); la molteplicità del personaggio (Nautilus, ottobre 1996); la redazione dei giochi di ruolo (Nautilus, novembre 1996); come si scrive un racconto cannibale (Nautilus, dicembre 1996); ci sono regole nella scrittura? (Nautilus, gennaio 1997).

In questa puntata parleremo di poesia. Gli appassionati della narrativa non se la prendano: lo studio della poesia è comunque fondamentale per arricchire la propria capacità stilistica. Nel testo che segue cercheremo di fornire qualche elemento di metrica. La metrica è lo studio del funzionamento del verso. Di solito i manuali di metrica sono noiosissimi; qui cercheremo di suggerire un approccio diverso a questa in realtà affascinante materia. Alla fine del testo ci sono le note e una breve bibliografia.

Fare il verso alla poesia

Domanda: che cosa è la poesia? Risposta: la poesia è una forma di scrittura nella quale si va a capo prima che sia finita la riga. Potrà sembrare un po’ idiota, come definizione, ma tutto sommato è una definizione che funziona. Ad esempio, se leggiamo:

Domanda: che cosa è
la poesia?

Risposta: la
poesia è una forma di scrittura
nella quale si va
a capo
prima che sia finita la riga.

Questa è indubbiamente una poesia, anche se come poesia fa abbastanza schifo (su questo penso che siamo tutti d’accordo). Oppure:

Domanda: che cosa è la poesia?

Risposta: la poesia è una forma di scrittura nella quale
si va a capo prima che sia finita la riga.

O anche:

domaNd
a
chE Cos

(a
è l
a)

poEsi
a?
riSpoSt


(a
L
A)

poesi
a
è un
(a
foRm
a)
di scrIttur
A

eccetera: anche questa è una poesia. Che queste, come già detto, siano brutte poesie, è cosa che non ha molta importanza (dal punto di vista della poesia). Così come un brutto romanzo non cessa di essere un romanzo per il fatto d’essere brutto, così una brutta poesia è comunque una poesia.

Andare a capo. Se lo specifico della poesia rispetto alla prosa è appunto l’andare a capo prima che la riga sia finita, è evidente che, se vogliamo parlare di che cosa è la poesia, dobbiamo proprio cominciare da questo andare a capo. Ci possono essere due punti di vista:

a) L’a capo divide il testo in righe, che saranno dotate di una loro autonomia o autosufficienza di qualche tipo: ritmica, di senso, sintattica, e così via. Quindi si va a vedere, diciamo così, che cosa tiene insieme un verso.

b) L’a capo è un avvenimento che avviene a un certo punto del testo: improvvisamente, due parole contingue chiedono di essere "separate" (o "unite in maniera diversa") per mezzo dell’a capo.

Questo secondo concetto dell’andare a capo è un po’ più difficile da assimilare (ed è, in realtà, anche più approssimativo e confuso); tuttavia è molto interessante, proprio perché distoglie l’attenzione dal verso in quanto tale; diciamo che imparare a pensare all’a capo in questo modo, come a un avvenimento improvviso, è un po’ come, per un calciatore o un cestista, imparare a giocare senza palla.

Spaccatura. Leggiamo un breve testo di Milo De Angelis: "Poi [...] ho cercato qualcos’altro: un andare a capo ancora più lontano dal senso - dal senso inerente a due versi separati e da quello orchestrale che ne illumina la separazione - ho cercato cioè una rottura della frase che fosse obbligata ma non innalzabile dalla frase stessa né dalla totalità delle frasi. Che fosse innalzabile da una specie di dettatura, la quale imponeva di spezzare la frase senza spiegazioni e di amare questa spaccatura in una visione totale della poesia, non di quella poesia" (1).

Che cosa vuol dire questo testo un po’ criptico? Proviamo a leggere una poesia di Milo De Angelis (del 1985):

Siete pur sempre nelle tenaglie
di una polvere, di una
promessa del 1961, quando
i giardini diventano un rasoterra
del numero otto, con i calci nell’arte.
Sì, una promessa
diceva: sarete fatali al correre
come il ritmo di una strada è
fatale alla piazza che porta in sé
tutti
nelle forze del prato che, spelato,
diventa questo
essere tenuti nella montagna.

[...]

Per il momento non badiamo al senso di questi versi; anzi, non ci baderemo per nulla; tuttavia proviamo a leggerli a voce alta, e marcando gli a capo: cioè facendo effettivamente una piccola sosta alla fine del verso, sull’a capo.

Proviamo.

Una pausa. (Tempo destinato alla lettura a voce alta.)

Riprendiamo. Ecco, ora avremo sentite alcune cose. Ad esempio: che è difficile fare effettivamente la piccola sosta in alcuni a capo, come "una / promessa", "quando / i giardini", "una promessa / diceva"; altri a capo sono, diciamo così, abbastanza naturali. L’ultimo ("diventa questo / essere tenuti nella montagna") è interessante. Possiamo notare che quella piccola sosta che può sembrarci inutile, priva di senso o imbarazzante in "una / promessa", diventa invece significativa (= dotata di senso) in "questo / essere". Dà un effetto di enfasi molto preciso e, possiamo dirlo, più tradizionale.

Questo / essere. Perché "più tradizionale?". Semplicemente perché gli a capo di questo tipo sono sempre stati abbastanza frequenti, almeno nel nostro secolo. Ad esempio, leggiamo quattro versi da una poesia del 1944 di Vittorio Sereni. E’ una poesia piuttosto conosciuta, c’è un po’ in tutte le antologie (anche scolastiche) e comincia:

Non sa più nulla, è alto sulle ali
il pirmo caduto bocconi sulla spiaggia normanna.

Il contenuto della poesia è questo: Sereni, nel campo di prigionia (inglese, nel Nordafrica) nel quale è rinchiuso, ha notizia dello sbarco in Normandia. La notizia, stranamente, non gli provoca molta emozione. C’è vento. I versi che a noi interessano sono gli ultimi:

Questa è la musica ora:
delle tende che sbattono sui pali.
Non è musica d’angeli, è la mia
sola musica e mi basta.

Questo a capo "è la mia / sola musica" assomiglia molto al "questo / essere" di De Angelis: e lo precede di quarant’anni netti. Ciò che vogliamo dire è che a un tipo di a capo enfatizzante come "questo / essere" siamo abituati da un pezzo; invece "una / promessa" è un a capo al quale, probabilmente, non siamo affatto abituati (il lettore abituale di poesia - pare che ce ne siano duecento in Italia - è abituatissimo; ma sia chiaro che non stiamo parlando per lui). Allora proviamo a fare un interessante giochetto. Cambiamo l’a capo di quei due versi di De Angelis:

diventa
questo essere tenuti nella montagna

diventa questo
essere tenuti nella montagna

diventa questo essere
tenuti nella montagna

diventa questo essere tenuti
nella montagna

diventa questo essere tenuti nella
montagna

Non pensiamo, per ora, all’intrinseca stupidità del giochetto che stiamo facendo: ma osserviamo che questi diversi a capi producono diversi sensi. Ossia: è abbastanza naturale che si cerchi di leggere ogni verso anche per quello che è, appunto un verso, un frammento di testo separabile da ciò che lo precede e da ciò che lo che segue. Allora possiamo accorgerci, ad esempio, che in "diventa questo essere / tenuti nella montagna" potremmo addirittura aggiungere una virgola:

diventa questo essere,
tenuti nella montagna

cioè la sosta di fine verso, se viene dopo la parola "essere", diventa fortissima, e la coppia di versi, così fatta, sembra più solida. Che cosa dà quest’impressione? E’ semplicemente un fatto ritmico:

divénta quésto èssere
tenùti nélla montàgna

Con questa divisione abbiamo due versi quasi della stessa lunghezza, entrambi con tre accenti (stiamo attenti, però, a leggere ben separati "questo" ed "essere", e a non legarli leggendo "quest’essere"). Le strutture parallele e le ripetizioni danno sempre (quando non sono troppo insistite) un certo piacere: ed è per questo che un a capo di questo tipo ci piace: perché produce una ripetizione ritmica ben sensibile. Ora però immaginiamo una delle ragioni che hanno mosso De Angelis a fare l’a capo che ha fatto: voleva evitare questo tipo di piacere (che è un po’ troppo banale e facile).

Guardiamo le altre trasformazioni. "Diventa questo essere tenuti" è un verso che produce senso da sé; "nella montagna" diventa quasi un’appendice (anche ritmicamente) pressoché superflua; la frase (da un punto di vista ritmico, lasciando perdere il senso) poteva anche terminare così, fermarsi con un punto dopo "tenuti":

diventa questo essere tenuti.

Tra l’altro questo verso (sempre conservando l’accortezza di leggere staccati "questo" ed "essere") diventa un endecasillabo con accento in seconda e sesta posizione: cioè uno degli endecasillabi più tradizionali che ci siano (parleremo più avanti degli endecasillabi), quindi ancor più un verso che tende, dentro una poesia con metrica libera, ad isolarsi. Cosa che, immaginiamo, De Angelis non voleva affatto. Perciò non ha adottato questo a capo.

Infine:

diventa questo essere tenuti nella
montagna

potrebbe essere considerato un espediente per non far sparire la montagna; ma crea molta enfasi attorno alla parola montagna e poi, cosa non trascurabile, si tratta di una ripetizione: l’a capo tra articolo e sostantivo c’è già alcune righe più sopra, "una / promessa". Ripeterlo (per quanto questo possa, come già detto, procurare piacere al lettore) significherebbe dare un senso preciso a questo tipo di a capo, privilegiarlo rispetto agli altri, farne quasi un sistema. Il che, immaginiamo ancora, non rientra nelle intenzioni di De Angelis (almeno in questo testo).

Diversi tipi di a capo. E allora, un a capo come "una / promessa", che senso ha? Verrebbe da rispondere appunto citando De Angelis: questo a capo deriva "da una specie di dettatura, la quale imponeva di spezzare la frase senza spiegazioni". Si può provare a dire la stessa cosa in altro modo. Prendiamo la faccenda alla larga.

Ogni volta che si scrive, si fa una scelta di stile (consapevole o no, ecc.). Ogni scelta di stile è anche un riifuto di stile: "decido di scrivere nello stile x, pertanto rifiuto tutti gli altri stili"; oppure: "decido di scrivere in uno stile che abbia come riferimento principale lo stile q, che riconosca una parentela con gli stili f, h e z, e rifiuti gli altri, soprattutto si opponga ferocemente allo stile m". Queste scelte di rifiuto non sono particolarmente razionali, sono scelte dettate dalla nausea: quando decidiamo che non ne possiamo più di versi fatti in un certo modo, di a capo fatti in un certo modo ecc., quando ne siamo nauseati, allora ci mettiamo a fare dell’altro.

Rispetto a che cosa si fa, una scelta di stile? Che diàmine, rispetto agli stili dominanti del presente e del passato (prossimo). Si può presumere che una persona che si metta a scrivere un romanzo di sentimenti familiari oggi, nel febbraio 1997, cercherà di scrivere un romanzo di sentimenti familiari quanto più possibile differente (nello stile) da Và dove ti porta il cuore; e questo a prescindere dal fatto che Và dove ti porta il cuore sia un libro bello o brutto, e che al nostro romanziere piaccia o no: semplicemente perché Và dove ti porta il cuore è diventato, al di là delle intenzioni di chiunque, un modello forte, normativo (sono uscite un sacco di imitazioni); e quindi il suo stile può dare la nausea.

I campi di scelte stilistiche. Ora, nel momento in cui si comincia a scrivere, le prime cose che scriviamo istituiscono un "campo di scelte stilistiche" (nonché lessicali ecc.) nel quale poi, a meno di sforzi sovrumani, noi resteremo. E questo campo è definito dalla nostra scelta (o dalle nostre scelte) di stile, e dai nostri rifiuti di stile. Quindi per De Angelis nel 1985 (così come per noi, ora) c’erano alcune forme di a capo (consideriamo il modo di fare l’a capo, in poesia, come un aspetto importantissimo dello stile) che erano assolutamente da evitare, ed altre che rimanevano possibili. Probabilmente un a capo come "una / promessa" è una scelta derivante dall’impossibilità (soggettiva: per De Angelis) di fare un altro a capo: qualunque altro a capo gli sarebbe apparso nauseabondo, perché rinviante a modi stilistici da lui rifiutati. Inoltre, poiché (è evidente anche leggendo il frammento di testo che qui abbiamo proposto) De Angelis tende ad evitare automatismi e ripetizioni, è chiaro che (almeno in questo testo) dopo "una / promessa" non vi saranno altri a capo della stessa specie (o, se ci saranno, saranno fisicamente distanti: in altre poesie, a distanza di molti versi ecc.).

"Amare la spaccatura", allora, come dice De Angelis, significa più o meno: amare le soluzioni stilistiche che ci restano, che non sono state contaminate da ciò che noi rifiutiamo (o, aggiungiamo noi, che in qualche modo sono state "salvate"); amare in somma la lingua che abbiamo, quella lingua che riusciamo a sentire come solo nostra, incontaminata, magari non bella ma nostra e incontaminata:

non è musica d’angeli, è la mia
sola musica e mi basta

sembra dirci De Angelis. Non è trascurabile che proprio un modo stilistico tipicamente sereniano (l’a capo "questo / essere") si ritrovi in De Angelis: evidentemente De Angelis è riuscito a, come si usa dire, riconoscersi in Sereni, e quindi può apprendere e accogliere modi stilistici da lui; mentre probabilmente la sua reazione nei confronti di Eugenio Montale è di pura nausea. Il che non significa che De Angelis provi effettivamente nausea per la poesia di Montale, o che lo consideri un cattivo poeta, né significa che i lettori di De Angelis debbano provare nausea per Montale e viceversa; signfica solo che, nel momento in cui si mette a scrivere, De Angelis proverà nausea per gli eventuali "montalismi" che potranno uscirgli dalla penna, e li cancellerà; mentre sarà propenso ad accettare in ciò che scrive la presenza di "serenismi".

Che cosa tiene insieme un verso. Non volevamo polarizzare l’attenzione di tutti su Milo De Angelis, anche se è sicuramente un poeta importrante e meritevole di attenzione (e durante gli anni Settanta ha provocato e un po’ anche guidato una sorta di rivoluzione nella poesia italiana). Abbiamo portato l’esempio di De Angelis sia perché il suo atteggiamento ci sembra particolarmente radicale, sia perché avevamo a disposizione un suo testo teorico (quello citato all’inizio). Di solito però, quando si comincia a parlare di come si fanno i versi, non si comincia dall’a capo (cioè dal punto di vista B), bensì proprio dalla domanda: che cosa tiene insieme un verso? (punto di vista A). Ora quindi affronteremo questa domanda.

Semplificando parecchio si può dire che un verso è tenuto insieme da:

1. forma metrica e ritmica;

2. forma sintattica e di senso;

3. forma fonetica.

Di tutto questo cominceremo a parlare quasi subito. Ma prima continueremo a parlare di altre cose. In particolare parleremo della strofa.

La strofa, questa sconosciuta. Di solito i manuali di metrica descrivono prima tutti i vari tipi di versi, poi i tipi di strofe, infine parlano dell’a capo. Noi ragioneremo all’incontrario e non per spirito di contraddizione ma perché, veramente, il ragionamento all’incontrario è il più semplice e sensato.

Che cos’è una strofa? Una strofa è un gruppo di versi separato da un altro gruppo di versi mezzo di una riga bianca. Un breve testo in versi non interrotto da righe bianche è definibile come una strofa isolata. Ora, se tra un verso e l’altro sono possibili forme di interruzione sintattica anche piuttosto violente ("una / promessa"), ciò di solito non avviene con le strofe. In somma, la strofa è spesso la vera e propria unità di costruzione della poesia.

Così come noi non parliamo (da una certa età in su) con parole isolate, ma con frasi, e pertanto pensiamo che l’unità di costruzione della prosa sia la frase, più che la parola; analogamente quando pensiamo poesia difficilmente pensiamo a versi isolati: è più facile che ci venga in mente un gruppo di versi, qualche frase: una strofa, in somma. Queste frasi saranno già provviste, probabilmente, di un loro movimento ritmico: probabilmente, se le pronunciassimo ad alta voce, già ci sentiremmo i versi (magari con esitazioni, scelte aperte ecc.).

Quindi: bisogna pensare alle strofe.

Qualche esercizio. Se siete persone che scrivono poesie, l’esercizio consiste semplicemente nel rileggerle, alla luce delle cose che ci siamo detti in questa prima chiacchierata. Pertanto:

osservate i vostri a capo. Dovete cercare una giustificazione per ciascuno di essi. Dovete essere in grado di dire: qui sono andato a capo per questo determinato motivo.

se le vostre poesie sono divise in strofe, fate lo stesso esercizio: chiedetevi perché avete ripartito il testo in quella determinata maniera.

provate a leggere a voce alta le vostre poesie. Fate questo esercizio leggendo in maniere diverse: a. facendo una pausa significativa ad ogni fine di verso; b. cercando di far sentire dove sono tutti gli accenti dei versi; c. come se fosse prosa; d. il più lentamente e il più velocemente possibile.

questo esercizio sembrerà un po’ sciocco, ma in somma, abbiate fiducia in Nautilus. Prendete una vostra poesia non troppo lunga, e provate a sostituire ogni parola (tranne gli articoli, le congiunzioni ecc.) con un’altra parola che contenga le stesse vocali. Ad es.: Chiare, fresche e dolci acque potrà diventare: Stanche sere e molti cane; ecc. Questo è un esercizio, effettivamente un po’ sciocco, che serve a sentire quanto sono importanti i suoni vocalici, a prescindere dal senso, dentro un testo poetico. Potete provare a fare lo stesso conservando le consonanti (ma è più difficile).

fatevi leggere a voce alta i vostri testi da un qualche amico, parente, o semplice conoscente. Non dategli il tempo di prepararsi: mettéteglieli sotto il naso, e via. Se il vostro testo è "forte", il compiacente amico, parente o semplice conoscente sarà letteralmente costretto a leggere nel modo che volete voi. Se ciò non accade, allora forse il vostro testo non è così forte.

se conoscete una lingua straniera, provate a leggere ad alta voce il vostro poeta preferito in quella lingua: prima nell’originale (secondo i modi descritti al punto n. 3), e poi in una traduzione. Riflettete sulle differenze.

Per questa volta è tutto.

Piccola posta, anzi piccolissima: semplici saluti

Ringrazio tra gli altri Enrico Sgarbossa, Massimiliano Governi, Margherita Marsiglia, Fabio Di Pietro, il perfido Enrico, Emilia Blanchetti.

Emilia Blanchetti, di Torino, ha fondata una rivista di letteratura che si chiama In-Edito: il primo numero sta uscendo proprio in questi giorni. Per informazioni: eblanche{Sostituisci con chiocciola}PRES.IT

Note

(1) Milo De Angelis, nato nel 1951, insegnante di lettere, ha pubblicato alcuni volumi di poesia: Somiglianze (Guanda, 1976), Millimetri (Einaudi, 1983), Terra del viso (Mondadori, 1985), Distante un padre (Mondadori, 1989); un volume di prosa: La corsa dei mantelli (Guanda, 1979); e una raccolta di saggi: Poesia e destino (Cappelli, 1982). (I volumi Guanda e Cappelli sono ancora trovabili nei circuiti delle librerie a metà prezzo.) Tra il 1977 ha fondato e diretto la rivista di poesia Niebo. Ha tradotto dal francese Blanchot, Baudelaire, Maeterlink, De Vigny, Drieu la Rochelle e dal latino Ovidido, Virgilio, Lucrezio, Claudiano.

E’ uno dei poeti più importanti della sua generazione. Il suo primo libro, Somiglianze, ha scritto Maurizio Cucchi, "è uno dei libri che hanno aperto una nuova stagione poetica e hanno contribuito a definire una generazione" (Poeti italiani 1945-1995, a c. di Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi, Mondadori 1996, p. 889).