E
la Lambretta sconfisse la Patria
Improvvisamente,
davanti a leghe, Padanie e secessioni, si riscopre almeno
a parole il nazionalismo e si riparla dellItalia
unita come si faceva ai tempi di De Amicis. Ma in realtà
quando il Bel Paese ha iniziato a perdere le sue antiche
radici rurali? Lo storico Emilio Franzina riassume quel
passaggio cruciale, dagli anni 50 al 1970. Perché
fu in quel momento che gli italiani tutti casa-chiesa e
campi decisero che il modello vincente e da imitare era
quello americano
In questi ultimi anni sono
stati in molti ad accorrere al capezzale dellItalia
in crisi. Ognuno con la sua ricetta e non pochi con
lambizione , dichiarata, di rifarle i connotati. La
terminologia pugilistica, ovviamente, si adatta meglio a
coloro che intendono disfarla, lItalia, o con
secessioni o con stravolgimenti costituzionali su cui,
altrettanto ovviamente , ognuno è poi libero di
mantenere un proprio punto di vista. Quello mio è
piuttosto critico se non altro vista la gran confusione
che mi sembra regnare, purtroppo, nella testa di troppi
italiani. Confusione e, bisognerebbe aggiungere,
smemoratezza le quali insieme conducono a singolari forme
di amnesia rispetto alle cause reali del disorientamento
nazionale.
Perché si sia arrivati a
questo punto, però, non è difficile da ricordare.
Lemergenza degli scandali riassunti sotto il nome,
ormai vulgato e accettato, di "tangentopoli" ha
siglato, secondo i più, la fine della "prima
Repubblica" e , di conseguenza, lavvio di un
nuovo ciclo nel quale sarebbe lecito e anzi, in un certo
senso, doveroso e inevitabile interrogarsi con
scetticismo sullidentità dellItalia e degli
italiani.
Fin qui , magari stando
attenti a commutare lo scetticismo con una semplice
attitudine guardinga, siamo daccordo. Anche il
proliferare di studi e studioli sulla nazione e sulla
patria potrebbe, al limite, starci bene. Ma da La morte
della patria di Ernesto Galli della Loggia alla
circumnavigazione di una "idea controversa",
ancora e sempre quella di Patria, di Silvio Lanaro , due
libri comparsi lanno scorso rispettivamente presso
il Mulino di Bologna e presso Marsilio a Venezia, per non
parlare dellaccumulo di titoli successivi (fra cui
meritano una segnalazione e più di qualche riserva il
reader curato da Sergio Bertelli su La chioma della
vittoria, per i tipi fiorentini di Ponte alle Grazie e il
saggio su "ascesa e declino del mito della nazione
nel ventesimo secolo" di Emilio Gentile intitolato
da Mondadori La grande Italia, usciti entrambi sul finire
di gennaio del 1997), pare proprio che si stia snodando
un dibattito fra il teorico e lideologico non privo
di rischi. Il maggiore di questi rischi, a mio avviso,
consiste nel pericolo, sempre in agguato ,di perdere di
vista alcuni dati materiali che devono essere
rintracciati, comunque la si pensi e comunque la si veda
(la patria, lidea di patria, la nazione, la
mitologia nazionalista ecc.) , più che nella storia
remota, nella storia recente del bel paese.
Faccio fatica anchio, come si vede ,a
utilizzare il nome quantunque scriva nel giorno della
sfida calcistica di Wembley fra le nazionali
dItalia e Inghilterra. E sì che questo del
patriottismo calcistico è stato, negli ultimi
cinquantanni, il più resistente e il meno
criticato o discusso fra tutti i patriottismi possibili
nella penisola. Ciononostante si assiste al paradosso di
una "voglia" didentità italiana che
ultimamente, secessionismi e autonomismi fiscali a parte,
sta montando come la panna, quanto meno sui media.
Tantè vero che si squaderna non di rado in servizi
giornalistici e in programmi televisivi dindubbio
successo (cosaltro sono le stesse carrellate
nostalgiche di Carramba alla Rai o le ben più sadiche
trasmissioni sugli "italiani nel mondo" di
Mediaset tuttora in onda al sabato sera sui canali del
cavalier Berlusconi?). Insomma un insieme di domande e di
interrogativi persino ingenui sullItalia cè
, ma stenta ancora a fare i conti con gli anni che ci
stanno immediatamente alle spalle.
Sia chiaro che non sto
alludendo allo sfondo degli anni settanta prediletto, in
Tv, dal duo Fazio-Baglioni per il loro programma
nostalgico "Anima mia" (anche se bisognerà
prima o poi riflettere sul paradosso di un mondo pervaso
da rimpianti e da revival di questo tipo, ma ferocemente
restio a inquadrarli, come occorrerebbe, nella loro
giusta cornice storica e a interrogarsi seriamente sul
loro significato). Il periodo che importa analizzare è
un altro. Quandè infatti che lItalia è
davvero cambiata, quando si è "modernizzata" ,
molto americanizzandosi, così da perdere i contatti con
la tradizione aulica e letteraria che le era propria e
che aveva retto, assieme certo a una buona dose di
sciagurato nazionalismo deteriore (da DAnnunzio al
fascismo), tutto il peso di una costruzione venuta su nel
tempo, dopo lunità del 1861, col sostegno di gran
parte del mondo intellettuale, De Amicis in testa, della
penisola che il mar circonda e lAlpe ?
Forse e senza forse ciò
è avvenuto precisamente dopo lultima guerra e in
particolare nel corso degli anni compresi fra quello
mediano del secolo, lanno santo per antonomasia
ossia il 1950, e linizio della protesta giovanile e
della contestazione studentesca e operaia dei favolosi
(non solo per Minà e Veltroni) anni sessanta. Italia mia
benchè il parlar sia indarno o, ancora di più, Bella
Italia amate sponde hanno cominciato allora, assieme a
una infinità daltri versi famosi, a deperire e ad
essere sentiti come veri reperti archeologici ,
emblematici semmai di unetà ormai trascorsa che
non a caso finiva per pigliar dentro tutto: il medioevo
comunale, i fasti rinascimentali, i fermenti
illuministici settecenteschi, ma anche il Risorgimento e
lintero periodo post-unitario liberale e, perché
no?, fascista. Vero è che la memoria e la pratica, anche
istituzionale, dellantifascismo repubblicano
rimasero bene o male in vigore nei ventanni scarsi
di cui vorrei occuparmi adesso, ma è altrettanto vero
che essi sono passati alla storia (e, in parte, alla
dimenticanza coatta di tanti italiani) come gli anni del
boom.
Il "miracolo
economico", primo di una serie minore ma unico, di
quelle proporzioni, ad offrirci la chiave giusta di
lettura per comprendere le odierne ambasce
dellitalianità in crisi, si svolse
allinsegna della massima repentinità. Nel giro di
pochissimi anni, infatti, un paese rimasto a lungo, pur
con le sue brave isole di modernità e
dindustrialismo, sostanzialmente agrario ed anzi
contadino, conobbe la più rapida e radicale delle
trasformazioni gettando al vento qualche occasione di
troppo per viverla conservando traccia del passato
secolare di cui invece si sbarazzava con gioia o da cui
si emancipava troppo in fretta. Le culture e le identità
che subirono allora lo stravolgimento destinato in
seguito a modellarci un po tutti comprendevano,
nonostante la loro messa in discussione durante il
periodo di Salò chera pur stato di "guerra
civile" e quindi di fronteggiamento fra ben due idee
di patria italiana, anche la nozione stessa di
appartenenza allItalia. Essa passava in sottordine
o sfumava in secondo piano proprio mentre se ne sarebbero
potute cogliere molte potenzialità nuove. Sotto la
spinta delle migrazioni interne, ad esempio, sarebbe
stato possibile , superati gli ostacoli delle reciproche
e terribili diffidenze iniziali, costruire una unità
nuova e ben più resistente di quella inseguita e
garantita solo a tratti, in precedenza, da altri tipi di
amalgama demografico-territoriale (quali il servizio di
leva, la mobilità nei ranghi della pubblica
amministrazione, le guerre persino ecc.)
Prevalse invece il peso di
condizionamenti diversi accolti peraltro quasi tutti ,
sempre allinizio intendo, con soddisfazione
pressochè infantile. Con il consumismo di massa e con il
miraggio connesso di benessere e di standard medi di vita
occidentale, in buona parte raggiunti già alle soglie
degli anni sessanta, lItalia cambiava lì, per la
prima volta , i suoi connotati più profondi tenendo
conto dei quali aveva operato sin lì lidea
tradizionale di patria italiana sicchè non sembra
inutile tornarci sopra con laiuto dei lavori di
ricerca che ultimamente si sono venuti moltiplicando in
campo soprattutto storiografico. Forse essi sono meno
noti al grande pubblico di quanto non risultino le
polemiche attualizzanti degli esegeti dellidea di
patria in sé, ma non sarà male prenderli in esame per
quello che ci raccontano di noi stessi, di come eravamo e
di come siamo diventati attraverso un processo quasi
torrentizio di mutazione.
Sfogliando le pagine di
libri freschi di stampa come la Breve storia
dellItalia settentrionale dallottocento a
oggi di Marco Meriggi (dove una parte cospicua è
dedicata appunto al ventennio 1950-1970) o come la Storia
del miracolo italiano (Culture, identità, trasformazioni
fra anni cinquanta e sessanta), di Guido Crainz ,
pubblicati entrambi dalleditore romano Carmine
Donzelli nel gennaio di questo 1997, riesce più facile
mettere a fuoco la natura e le ragioni del mutamento che
ha investito il nostro paese sino al punto di consegnarlo
indifeso o disarmato alle malversazioni, non solo dei
politici ,bensì pure della mitizzata "società
civile", del ventennio successivo, quello appunto
della crisi. Si tratta di due guide alla lettura degli
anni cinquanta e sessanta, va detto prima di tutto,
godibilissime e alla portata di chiunque. Con linguaggio
piano e non beceramente giornalistico,
Meriggi e Crainz ci
narrano le tappe e spesso anche i retroscena della grande
trasformazione segnalando, ciascuno, particolari e dati
di fatto difficili da smentire, e tuttavia facili da
dimenticare. Nel nostro ricordo e talora nel nostro
rimpianto cera spazio a proposito di quegli anni
per tanti dettagli che, ricomposti qui , ora si capiscono
meglio. I nostri mobili, poveri magari, ma di fattura
artigianale e dotata di senso - quelli che in molti
sostituimmo vergognosi dellantica indigenza, con la
plastica e con la formica che faceva molto moderno - i
nostri mezzi limitati di locomozione - quelli che
abbandonammo o che caddero in provvisoria desuetudine
dalle biciclette ai motorini - convertiti in veicoli di
largo e larghissimo uso - dalle vespe e dalle lambrette
alle seicento e alle altre utilitarie soprattutto della
Fiat - le nostre vecchie abitazioni nei centri storici e
nei paesi - disertate e snobbate per inseguire il sogno
del comfort edilizio erroneamente individuato negli
appartamenti di mezza periferia o nelle orrende villette
suburbane ideate da schiere di capimastri e geometri di
cospicua ignoranza - e insomma tutte le cose che ci
rammentavano quello che eravamo stati entrarono a far
parte del tourbillon , più che del turn over, di costumi
e di usi che si trascinò appresso loffuscamento
dei sensi didentità tradizionali.
Smettemmo allora di essere
ruraleggianti, ma anche di sentirci scolasticamente
italiani nellidea che accostandoci al modello
vincente, quello americano, si potesse realizzare una
catarsi collettiva e, con essa, la facile rimozione di
problemi che invece continuavano a sussistere e che anzi
si stavano facendo più gravi.
Emilio Franzina
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