All'attacco, italiani del 7° Cavalleggeri
Emilio
Franzina presenta un libro di Cesare Marino su Carlo
Camillo di Rudio, cospiratore agli ordini di Mazzini
prima e ufficiale del generale Custer a Little Big Horn
poi: un testimone e protagonista d'eccezione tra i tanti
italiani di quel mondo avventuroso e dimenticato che fu
anche, al di là di tanti eventi, lOttocento in
terra d'America
Non sono poche le vite
degne di essere narrate. Ma le vite fuori
dellordinario, di norma, si conoscono bene perché
son poi quelle dei personaggi di primo piano nelle
vicende politiche o economiche di una determinata epoca.
Eppure non tanto la gente ordinaria, quanto i
protagonisti che potremmo definire minori o di
complemento (una cosa un po diversa dai
"comprimari") spesso esibiscono parabole
esistenziali meritevolissime di venir meditate perché
rappresentative, in fondo, di una medietà a suo modo
significativa.
Ci sono, in altre parole,
uomini e donne che senza mai assurgere ai fasti della
grande storia aiutano a comprenderne, con le loro
esistenze, i retroscena e almeno alcuni dei presupposti
La premessa andava fatta prima di introdurre in discorso
la figura sino a ieri dimenticata di Carlo Camillo di
Rudio, un testimone e attore deccezione di quel
mondo avventuroso e dimenticato che fu anche, al di là
di tanti eventi, lottocento italiano. E un
secolo, questo, che nei ricordi dei più si collega a
stereotipi e a meste rimembranze scolastiche di tipo
risorgimentale, ma che, se ben rivisitato, propone
squarci di "normale eccezionalità" a cui la
temperie e la cultura del tempo, assieme alle immancabili
peripezie politiche di stagione, diedero forma compiuta
di romanzo. Devo confessare, a questo punto, una
deplorevole lacuna che poco tempo fa ho addirittura
trasferito in un libro ambizioso (e già che ci sono
chiedo venia per lautocitazione , ma la faccio:
Emilio Franzina, Gli italiani al nuovo mondo.
Lemigrazione italiana in America 1492-1942, Milano
Mondadori 1995). Sino a ieri, lo ammetto, avevo del di
Rudio, un nobile bellunese vissuto fra il 1832 e il 1910,
una conoscenza vaga e del tutto legata alla circostanza,
peraltro non banale, della sua partecipazione, nel 1858,
al fallito attentato contro la persona di Napoleone III
da parte del rivoluzionario repubblicano Felice Orsini.
Rammentavo, un po
confusamente, le polemiche politiche e storiografiche
dinizio 900 fra lui, unico sopravvissuto -
oltre allex imperatrice Eugenia Montijo - e
Alessandro Luzio una specie di Renzo de Felice di allora
in occasione del cinquantesimo anniversario del gesto che
era costato la testa allOrsini e che, senza far
danni alla vittima designata, appunto Napoleone il
piccolo, aveva provocato la morte di numerose persone.
Non avevo mai fatto caso al particolare che vedeva il
vecchio di Rudio intento a difendere la sua versione dei
fatti dalla lontana California da dove rimbalzavano nel
1908 , riaprendo antiche ferite mai rimarginate per
intero, voci e ricordi di prima mano intorno ad una
pagina anche altrimenti nota del patrio Risorgimento. Fu
leggerezza, da parte mia, ma un poco anche leffetto
di una mancanza di notizie di questo tipo (cioè di prima
mano), laver trascurato la collocazione geografica
dellultima residenza del conte bellunese per
risalire magari da essa ad una storia di vita che si
sarebbe rivelata, se percorsa a ritroso, assolutamente
interessante. Poco male, visto che a rimediare ci ha
pensato, dallAmerica, uno studioso che per merito
ancor prima che per fortuna ha potuto mettere le mani su
un libro intervista ormai introvabile, e infatti ignoto
sin qui, del 1913: Cesare Crespi, Per la libertà. Dalle
mie conversazioni col Conte Carlo di Rudio, complice di
Felice Orsini, San Francisco Canessa Printing 1913. Il
volume raccoglie una lunga intervista fatta al di Rudio
poco prima che venisse a morte sulle remote sponde del
Pacifico e costituisce, per interposta persona, una sorta
di autobiografia narrata dove le tecniche giornalistiche
e quelle della storia orale ante litteram si fondono nel
racconto mirabolante di cui, dicevo, è venuto a dar
conto oggi Cesare Marino.
Anche di lui, come autore
e come ricercatore, sapevo sino a ieri ben poco. Il fatto
è che Marino, italiano di origine siciliana, è
cresciuto e ha studiato nel Veneto, al Liceo Canova di
Treviso mi è parso di capire, ma si è poi trasferito in
Virginia dove lavora come anropologo presso il Museo di
Storia Naturale , Smithsonian Institution, di Washington.
Lemigrazione intellettuale e il diverso ambito
disciplinare mi precludevano la conoscenza della sua
attività, alquanto intensa a giudicare dalle notizie
riportate nel risvolto di copertina
dellappassionante libro che a sua volta egli,
vestendo i panni dello storico, ha voluto dedicare al di
Rudio. Lopera, di cui raccomando caldamente la
lettura, non è apparsa in Italia presso un grande
editore, bensì è stata stampata dal libraio bellunese
Alessandro Tarantola e si intitola Dal Piave al Little
Bighorn. (Belluno 1996,pp.441,£. 36.000). Come
sottotitolo reca un illuminante explicit che
letteralmente dice: "La straordinaria storia del
Conte Carlo Camillo di Rudio da cospiratore mazziniano e
complice di Orsini a ufficiale del 7° Cavalleria del
generale Custer." Ce nè abbastanza, come si
capisce, per incuriosire chiunque e non solo un eventuale
cultore di studi risorgimentali o, ancor più facilmente,
un appassionato di "custeriana" e di storia del
Far West o delle genti indiane dAmerica.
Marino, senza dubbio, lo
è non fossaltro per esser stato a suo tempo
consulente del National Congress of America Indians e
membro, negli Stati Uniti, di importanti organizzazioni
intertribali. Domenico Buffarini, romano residente anche
lui nel Veneto e anche lui affetto, in molti sensi, dalla
sana "infatuazione" per la storia e la vita
degli indiani dAmerica (di ieri, ma soprattutto di
oggi), mi ha confermato a voce la serietà e
limpegno dellantropologo
siculo-veneto-americano che del resto, negli Stati Uniti,
ha pubblicato molti apprezzati lavori sulle popolazioni
indigene e addirittura , nel 1989, (The Indian Nations:
The First Americans ) adottato nelle scuole pubbliche
primarie e secondarie nei programmi pilota di educazione
multiculturale. Quel che conta, però, è davvero questa
sua trouvaille - mi permetto di chiamarla così -
affidata alle pagine del libro edito meritoriamente da
Tarantola, ma pazientemente costruito in ventanni
di itineranti ricerche fra archivi e biblioteche del
vecchio e del nuovo mondo. La complessità degli
itinerari dindagine dipende naturalmente dalla
apparente singolarità del personaggio e soprattutto
dalle infinite e a tratti incredibili peripezie della sua
esistenza equamente distribuite di qua e di là
dellAtlantico nellarco degli oltre
cinquantanni (più o meno dal 1848 ai primi del
nostro secolo) durante i quali egli fu attivo come
cospiratore, come "bombarolo", come
rivoluzionario, come galeotto, come soldato blu e infine
come veterano della guerra civile e delle guerre indiane
dAmerica. Su tutto fanno spicco, in una carriera
talmente stipata di avventure e di colpi di scena, il
sodalizio con Orsini e la milizia agli ordini di Custer.
Ma è nel suo insieme che
la vita del di Rudio esige di essere esaminata perché
(mi sbaglierò, tuttavia non di molto) essa finisce per
essere esemplificativa di uno spezzone considerevole di
storia degli italiani dellottocento in spola fra
Europa e America. Alle categorie degli avventurosi e
degli avventurieri cè il rischio infatti di
applicare talvolta letichetta deviante
dellanormalità tout court desunta da un giudizio
sbrigativamente moralistico e dalla constatazione del
fatto che in fin dei conti essi formarono (e formano)
solo uninfima minoranza nel gran mare delle
esperienze legate allemigrazione oltreoceano.
Proprio la vita del di Rudio, invece, ci ricorda il
contrario perché nel suo svolgimento essa ci mette a
contatto con una varietà di figure senzaltro
instabili e irrequiete, ma quasi tutte del suo tipo e non
tutte esattamente marginali o secondarie come qui sotto
vedremo riassumendone in breve le gesta salienti. Dietro
allincredibile uomo dazione capace di portare
a casa la pelle in mille frangenti obiettivamente
pericolosi e quindi assai poco imputabile di opportunismo
o, peggio, di vigliaccheria (di lui Charles K. Mills, uno
storico americano del 7° Cavalleggeri, ha scritto anni
fa che "lungi dallessere un codardo, Di Rudio
fu un realista. E un sopravvissuto nato...") si
staglia e a tratti si intravede un mondo se non
brulicante, almeno fitto di personaggi minori (esuli,
soldati, millemestieri, rivoluzionari di professione
ecc.) accomunati nel destino di una mobilità, spesso
circolare, fra punti distantissimi della terra dove si
recarono obbedendo a impulsi e a condizionamenti
dissimili in origine da quelli a cui dovevano sottostare
gli emigranti in cerca di lavoro o di benessere, ma negli
esiti ben di rado differenti dai loro. E comunque con un
andamento passibile di narrazioni e di trasposizioni
(letterarie, filmiche o televisive) tanto godibili quanto
istruttive.
Non è difficile intendere
quanto una vita come quella del di Rudio si presti a
questi fini. La sua è una storia già scritta che supera
le fantasie possibili, è il soggetto o il copione di un
avvincente romanzo che attende solo di essere messo in
bella, di un film o di un documentario televisivo
bisognoso appena di venire girato con gli attori giusti.
E, insomma, un caso classico di realtà romanzesca
,ovvero, e di più, è la prova che attraverso una
casistica minore e sfuggente ci si può avvicinare un
po meglio allo spirito di unintera epoca. Lo
spirito del tempo o dei tempi di Carlo Camillo di Rudio
è poi quello di un romanticismo dispiegato che facilita
i compiti del narratore (anche se in precedenza, e ne sa
certo qualcosa Marino, deve aver complicato i problemi
del ricercatore e dello storico) disponendolo
favorevolmente nei confronti di una realtà composita e
intessuta di altre vite, queste sì in prevalenza silenti
e dimenticate, delle quali possiamo soltanto immaginare
la trama.
Fra i soldati e gli
ufficiali a disposizione di Custer nel giugno per lui
fatale del 1876 di Rudio non era, ad esempio, il solo
italiano e nemmeno il solo con freschi trascorsi
patriottici risorgimentali. Se non altro, accanto a lui,
dovremmo citare il trombettiere di giornata del generale,
John Martin alias Giovanni Martini, un garibaldino di
Mentana che ancor giovane era emigrato in America
arruolandosi nel 7° : sino ad oggi andava anzi a lui la
palma dell"italiano tipo al Little
Bighorn" perché aveva potuto raccontare molte e
molte volte, a storici e giornalisti, sino al 1922
lanno in cui morì a Brooklyn, la faccenda famosa
del messaggio disperato di cui per incarico di Custer era
stato inutilmente latore allo scopo di ottenere soccorsi.
Custer, accortosi troppo tardi del guaio in cui si era
cacciato pensando di aver a che fare con un piccolo
accampamento e trovatosi invece dinanzi al più imponente
dei villaggi mobili indiani, degli indiani
"ostili" a cui dava spensieratamente la caccia,
lordine di sollecitare i rinforzi a Martini lo
aveva impartito , per la verità, a voce . Era stato il
suo aiutante di campo tenente Cooke a stilare in fretta e
furia un testo scritto ("Benteen come on Big Village
Be Quick Bring Pack ecc.") per paura che il giovane
green italian recruit, ancora poco avvezzo
allinglese, non avesse a sbagliarsi. Il Benteen cui
si rivolgevano Cooke e Custer , tramite Martini, era poi
il comandante di reparto nel corpo di spedizione da cui
dipendeva il quarantaquattrene tenente di Rudio già
disperso (e per questo salvatosi) al momento in cui
scattava la trappola diel suo coetaneo capo e sciamano
Toro Seduto e del grande guerriero Cavallo Pazzo.
Per tornare però agli
italiani di Custer cè da dire che Martini e di
Rudio non erano nemmeno loro isolati se al campo base di
Yellowston era rimasto ad esempio, con la banda del
reggimento così cara al generale dai lunghi capelli,
anche il torinese Felice Vinatieri, suo direttore da
circa tre anni. Vinatieri, classe 1834,si era diplomato
al Conservatorio di Napoli ed espatriato in America aveva
preso parte ai primi due anni della guerra di secessione
prima di rientrare per qualche tempo in Europa ( a
Lisbona). Dal 1867, ritornato negli Stati Uniti, si era
arruolato nel 22° Reggimento Fanteria di New York
rimanendo per tre anni a Fort Sully sempre come Band
Leader e solo successivamente era passato nel 7°
partecipando alla spedizione delle Black Hills. Scampato
al disastro del Little Bighorn e congedatosi sarebbe
morto nel suo letto a Yankton nel 1891. Né lelenco
si esaurisce con lui se mettiamo nel conto, fra i
soldati, un genovese chiamato Augustus Devoto e il romano
Giovanni Casella, che il nome se lo era cambiato in un
improbabile John James.
A questo punto verrebbe
voglia di chiedersi, celiando, se per caso non ci fosse
qualche italiano anche tra i pellerossa, ma sembra
evidente che la parabola del conte di Rudio parla per sé
e per un momento storico nel quale era già capitato,
poniamo, che alcuni americani, come Chatam Roberdeu
Wheat, avessero prima militato nelle file dei Mille di
Garibaldi convinti di battersi (ad esempio sul Volturno)
per una causa giusta e avessero combattuto subito dopo,
per gli stessi motivi, rispondendo allappello del
governo confederato: Wheat daltronde, virginiano,
era sudista di nascita e e finì per morire in battaglia
nel 1862 a Gaines Mill. In un caso un cospiratore
mazziniano e un combattente garibaldino, nel secondo un
altro garibaldino accorso in Italia dallAmerica con
vari compagni di cui sappiamo anche meno di Devoto e di
Casella, ma che ideologicamente non dovevano granchè
dissentire da loro, e tutti destinati a contraddirsi
visto limpegno poi profuso, rispettivamente, nelle
guerre indiane (cioè contro gli indiani) e in quella
civile, che in parte era stata anche, come ben si sa, una
guerra occasionata dalla questione razziale e dal
problema dellabolizionismo. Precisamente contro di
esso, nella sua versione idealizzante propagandata da
Lincoln, i confederali, contrari alla fine della
schiavitù, avevano dichiarato la propria secessione
dagli yankees e un uomo generoso dello stampo di Wheat
non aveva trovato nulla da eccepire.
Il fatto è che da un lato
prevalevano, tanto in Europa quanto in America, le vedute
del nazionalismo incurante dei diritti di razze ritenute
inferiori, ma da un altro spingevano anche le ragioni
più urgenti del bisogno . Tantè vero che al pari
di Martini e del conte di Rudio, furono numerosissimi gli
europei di fede probabilmente democratica che, emigrando,
finirono per combattere in guerre per loro intriganti. E
mi verrebbe voglia qui di aprire una parentesi,
pertinente peraltro, sul vicentino Adolfo Farsari,
patriota liberale e volontario nella seconda guerra
dindipendenza che arrivato nel 1863 in America si
arruolò nellesercito dellUnione salvo
accorgersi in fretta della pretestuosità del leit motiv
abolizionista e della durezza delle circostanze che
proprio allora cominciarono ad ingrossare le file dei
nordisti dove i "volontari" europei si
arruolavano a frotte per procacciarsi, come che fosse, un
impiego. Di Rudio non aveva fatto eccezione, giunto a
buon punto della sua vita errabonda e rischiosa, quando,
pur munito di lettere commendatizie di Mazzini e di varie
personalità progressiste inglesi, aveva indossato nel
1864 la divisa yankee come soldato semplice nel 79°
Reggimento Fucilieri di New York, tra gli Highlanders per
lo più scozzesi di uno dei tanti reparti impegnati nel
sanguinoso conflitto civile.
La chiamata del 1863 era
stata a dir poco fallimentare al Nord e al posto degli
americani D.O.C., col sistema della surrogazione pagata,
erano subentrati in grande quantità gli europei emigrati
di fresco e senza lavoro. Dal fronte (New Berne, North
Carolina) nel luglio pro- prio del 1864 , giusto un mese
innanzi larruolamento del di Rudio, Farsari, in
forza da un anno al 12° Cavalleria di New York, scriveva
a casa, a suo padre: "A proposito di razionalità!
Il volontario è così ben veduto dal North (America) e
sono così entusiasti per esso (quantunque io creda che
in un milione e mezzo, essendo quasi tutti stranieri, non
ci siano dieci che si battano per la patria, ma bensì
per la moneta) che a spese del governo si imbalsamano i
corpi dei soldati morti e quindi vengono consegnati a chi
li domandano oppure vengono mandati se possibile al
grande cemitero che si farà o che si sta facendo a
Chattanooga in memoria dei morti pella libertà dei
schiavi. La guerra qui non si fa secondo quel principio
ma bensì per altri, e se non fosse che quello è il
principio apparente simpatizzerei pel South. Il north ha
prima venduto al South tutti i neri che avevano perché
non recavano alcun frutto, e quindi hanno mosso guerra al
South per la liberazione di quegli stessi schiavi; avrei
molte cose a dirti intorno a questo soggetto".
Una girandola di apparenti
divagazioni ci ha condotti ancora una volta lontano dal
campo di battaglia del Little Bighorn e soprattutto dalla
figura del conte di Rudio, ma come si è visto è stato
"a fin di bene" e cioè per ricordare, assieme
alla natura di certe contraddizioni insite nella sua
storia di vita, anche il particolare delle forse non
poche altre vite dimenticate sul doppio versante
dellAmerica e dellItalia di metà ottocento
in cui vi fu spazio, dunque, non solo per gli eroi fra
gli eroi, come per antonomasia Giuseppe Garibaldi che lo
fu appunto "dei due mondi", bensì pure per
tanti dimenticati personaggi minori. Tale fu anche,
nonostante le origini aristocratiche e a dispetto della
rilevanza assunta dallattentato antinapoleonico a
cui partecipò, Carlo Camillo di Rudio. Egli era nato in
una famiglia della piccola nobiltà bellunese ed era
stato "instradato" tredicenne dal padre Ercole
Placido, un liberale e patriota che avrebbe poi patito
assieme a una sorella di "Carletto" il carcere
austriaco a Mantova con i martiri di Belfiore, alla
carriera militare nel Collegio militare di San Luca a
Milano. Giovane cadetto, la rivoluzione delle cinque
giornate lo aveva colto qui e sbalzato, come recidivo in
compagnia del fratello Achille, a Graz, pressoché
ostaggio delle autorità militari asburgiche. Rientrati
clandestinamente e fortunosamente a Belluno, dove il
conte Ercole Placido era già in contatto con Pier
Fortunato Calvi, i due giovinetti si erano portati in
settembre alla difesa di Venezia dove Achille perdeva la
vita contagiato dal morbo colerico e dove Carletto faceva
conoscenza per la prima volta con Felice Orsini.
In un susseguirsi
incessante di arresti, di fughe e di tribolazioni
(labbandono di Venezia e larrivo nella città
eterna per militare come difensore della Repubblica
Romana, lesilio a Genova nel 1850, il passaggio
clandestino in Francia e in Svizzera, le cospirazioni re-
pubblicane e le prime voci di screzi suoi con Calvi e con
Mazzini, landirivieni del rivoluzionario di
professione culminato nei fatti del 1858 quando, già
sposato a una cittadina inglese, fu lì lì per salire
sul patibolo e graziato in extremis venne condannato
allergastolo dellIsola del Diavolo nella
Cayenna francese, la fuga di lì dopo due anni di
prigionia e lapprodo conclusivo negli Stati Uniti)
la storia del contino bellunese si incrociò alla fine
con quella del 7° Cavalleria di Custer e con le guerre
indiane a cui prese parte sempre cavandosela come per
miracolo. Proseguita sino agli anni novanta con un ampio
corredo di figlie e di avventure vissute e raccontate
(anche davanti alla Commissione dInchiesta sul
disastro del Little Bighorn del 1879 e non di rado
dinanzi a giornalisti affamati di notizie inedite),
lesistenza del di Rudio doppiò il capo del secolo
fra Los Angeles e San Francisco dove il bellunese
concluse i suoi giorni col grado di Tenente Colonnello
della Riserva allaltezza quasi degli
ottantanni.
E ben vero che
affido al bel libro di Cesare Marino il compito di
illustrare in dettaglio tutte le fasi di questa turbinosa
parabola. Tuttavia non avrei potuto accomiatarmi da chi
ha avuto la pazienza di seguirmi sin qui senza almeno
elencarle a mia volta nella dichiarata speranza che la
stringatezza del riassunto invogli alla riscoperta di un
tragitto di metà ottocento compiuto Dal Piave al Little
Bighorn e nella quasi certezza che le parti mancanti qui
(battaglie, imboscate, capi indiani, ecc.) garantiranno,
a chi vorrà affrontarle per suo conto e con laiuto
appunto del Marino, ma prima che ci ritorni su io in un
prossimo articolo, unaffascinante lettura.
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